Dal 10 al 12 di agosto, nell’ex area industriale di Suvilahti, a Helsinki, si è tenuta la XV edizione del Flow Festival, un gigantesco contenitore di musica, street and visual art, design, food & drink (nel triste gergo d’ordinanza con cui si dà lustro agli eventi contemporanei), che negli anni è diventato il più importante evento del genere nel Nord Europa, e uno dei più apprezzati festival internazionali. I numeri di quest’ultima edizione sono impressionanti: 84 mila presenze, distribuite nell’arco dei tre giorni, 140 artisti che si sono esibiti in contemporanea su ben nove palchi, e la massiccia presenza di tutti i principali ristoranti etnici, bio, vegan, alternative, cool di Helsinki.
Impressionante, secondo me, anche il costo del biglietto di ingresso: 99 euro per una giornata, 195 euro per tutti e tre i giorni di festival.
A onor di cronaca, è utile menzionare l’istruttiva vicenda, emersa nei giorni successivi al festival sull’Helsingin Sanomat, il principale quotidiano nazionale, sul fatto che i ragazzi e le ragazze che lavoravano presso l’area concerti, lo abbiano fatto gratis (ripagati però dalla possibilità di poter essere al festival, si capisce!), nonostante i notevoli introiti affluiti nelle tasche dei tre simpatici proprietari finlandesi. Questa vicenda dovrebbe ricordarci quanto spesso sia discutibile l’autorazzismo degli italiani, che non mancano mai di ripetere a se stessi e agli altri quanto si sia un popolo di corrotti, furbi e sfruttatori, a differenza dei civilissimi nordeuropei. La realtà mostra sovente cose assai diverse, ma non è di questo che mi vorrei occupare in questo articolo.
Da partecipante al secondo giorno del Flow, me ne sono tornato a casa con un profondissimo senso di alienazione e disagio che ha necessitato di tempo per decantare, lasciando infine emergere alcune riflessioni, in qualche misura controcorrente (out of the flow, verrebbe da dire).
Circondato dallo sciame di persone che si muoveva tra i ristoranti, le zone lounge, il cinema e i palchi del festival, mi sono innanzitutto sentito schiacciato dall’evidente impossibilità di fruire di ciò che avevo apparentemente a disposizione.
La metafora che la situazione evocava era quella di essere in un grandissimo ristorante, con nove saloni, in ognuno delle quali si trovava un immenso buffet di pietanze, differenti in ogni sala.
Ma una volta avuto faticosamente accesso a una di esse, e avvicinatisi a un tavolo, si potevano assaggiare giusto le poche cose che era effettivamente possibile raggiungere, non possedendo il dono dell’ubiquità: quelle davanti a sè.
Qual è il senso ultimo di offrire un’inusitata quantità di cibo che è in ultima analisi per lo più irraggiungibile?
La logica di avere nove palchi, su ognuno dei quali si esibivano nel corso della giornata dai cinque ai dieci artisti mi è sembrata in tutto simile a quella della metafora appena descritta: dei quasi cinquanta performers che hanno animato il sabato del Flow, io, giunto a Suvilahti a metà pomeriggio, ne ho potuti ascoltare solo tre: la band che desideravo vedere, e per cui avevo comprato il biglietto, più due gruppi a me sconosciuti.
La logica che anima il Flow festival è in tutto e per tutto la stessa che si può ritrovare in molti altri luoghi, reali e virtuali, del nostro mondo contemporaneo: da Spotify, Apple Music et similia, che, con un costo mensile, offrono accesso a una quantità di musica sterminata, di molto superiore alla quantità di tempo che si potrebbe dedicare all’ascolto, a Netflix, HBO e alle varie piattaforme per vedere film, serie TV, cartoni animati, documentari e cosí via.
E la stessa logica la si ritrova essenzialmente anche nei siti di incontri online, come Tinder, Badoo, e-kontakti e mille altri, nei quali si possono sfogliare, proprio come fosse un infinito catalogo di volti, le foto e i profili di moltissimi utenti, con i quali potenzialmente chattare e incontrarsi.
A cosa si deve questa bulimia dell’offerta?
Perché essa assume caratteristiche similmente bulimiche in ogni campo della nostra società dei consumi?
Per quanto riguarda il Flow, è evidente che ciò che si acquista, è l’esserci a un evento che ha le caratteristiche di un luogo di molteplici possibilità tra le quali poter scegliere. Si acquista soprattutto la possibilità di scelta.
Il sociologo Zygmunt Bauman sottolineava quanto “libertà” e “scelta”, nella cultura del consumo, vengano a coincidere.
Si è liberi quando si può scegliere tra varie proposte, e non importa se spesso quelle proposte sono state pre-parate da qualcun’altro, se il loro perimetro è a ben vedere limitato e definito altrove.
L’importante è la sensazione di poter scegliere, e il senso di libertà ad essa associato.
Il dovere di scegliere in quanto tale, peraltro, non è mai in discussione.
Nella società dei consumi si deve continuamente scegliere, ed è fondamentale che l’abbondanza di possibilità di scelta sia percepita come “libertà”.
Lasciando da parte l’inganno che ho cercato di descrivere in precedenza (la discrepanza tra opzioni e fruizione reale), e lasciando da parte anche un secondo inganno, quello dell’equivalenza tra possibilità di scelta e libertà (nella società dei consumi si è sottoposti alla tirannia del dover scegliere di continuo, e che la tirannia equivalga a libertà è un concetto che sarebbe piaciuto molto a Orwell), vorrei richiamare alla mente un’altra importante affermazione di Bauman in Homo Consumens: “la sofferenza umana di oggi tende per lo più a scaturire dalla sovrabbondanza di possibilità, piuttosto che da un eccesso di divieti”, come accadeva in passato.
Se poniamo che nelle società pre-moderne a opprimere l’individuo vi fosse una eccessiva quantità di norme rigide, proibizioni e divieti, si comprende quanto la nevrosi dell’epoca fosse legata soprattutto al timore del senso di colpa, derivante dal desiderio di infrangere quelle stesse norme, e trasgredire i divieti.
Ma in un mondo post moderno in cui domina l’obbligo di scegliere tra sovrabbondanti possibilità (incluse quelle di trasgredire, che spesso diventa norma), l’angoscia sarà soprattutto legata al timore della inadeguatezza.
Il senso di non essere adeguati è di fatto uno dei vissuti centrali nel panorama di patologie depressive e ansiose della nostra epoca.
Perché l’inadeguatezza sarebbe nutrita proprio dalla sovrabbondanza di possibilità tra cui scegliere? Perché scegliere porta inevitabilmente con sè il tema della responsabilità.
Vivere in una tirannia della scelta significa essere costantemente sottoposti al peso della responsabilità delle proprie scelte.
Avrò scelto il palco giusto, o non sarebbe stato forse meglio andare a quell’altro?
Avrò scelto il prodotto migliore, o quell’altro mi garantiva forse maggiore soddisfazione (sempre temporanea, s’intende, chè la customer unsatisfaction è il motore del consumo)?
Avrò scelto il ragazzo o la ragazza giusti con cui uscire, o avrei forse dovuto continuare a sfogliare il catalogo di Tinder fino a quando non fossi stato sicuro?
Scegliere de-finisce, e quindi de-cide (cioé recide, uccide) la libertà di tenere aperte tutte le possibilità.
Al Flow festival, quindi, oltre alle decine di artisti, andavano in scena alcune delle principali caratteristiche della nostra società contemporanea: l’offerta bulimica di qualcosa che non si può esperire davvero, e il disagio derivante in primo luogo dalla logica della tirannia della scelta, perpetrata dalla medesima offerta bulimica di opzioni, e in secondo luogo dalla sua necessaria conseguenza, l’inadeguatezza.
A completamento del quadro, vorrei aggiungere un ulteriore senso di inganno, quello derivante dal fastidioso contrasto tra l’eco-sostenibilità sbandierata a ogni angolo del festival, e l’evidenza di un enorme quantità di rifiuti, generata tra le altre cose proprio dalla presenza di decine e decine di ristoranti che necessariamente vendevano cibo e bevande in contenitori usa e getta, che il popolo alternativo vegano e ecologista del Flow non esitava a buttare amabilmente per terra.
Tutto questo insieme di elementi ha contribuito a generare in me un profondo senso alienazione, di non appartenenza a ciò che mi circondava, e ha reso purtroppo difficile godere dell’unica cosa per la quale ero lì, cioè l’esibizione del gruppo che desideravo ascoltare.
Tra il frastuono degli inganni e delle menzogne dominanti del nostro tempo, tra il vociare dello dello sciame cool che mangiava, beveva, e immortalava se stesso e qualunque cosa con gli smartphone a beneficio di Facebook e Instagram, schiacciato sotto il tacco della dittatura della scelta imposta come libertà, ho dovuto lottare per farmi toccare da ciò che per me contava di più: la musica.
La Rondine – 28.8.2018