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Rimminen | La giornata del naso rosso

Irma è la protagonista del romanzo Nenäpäivä di Mikko Rimminen, recentemente pubblicato dall’editrice Atmosphere col titolo La giornata del naso rosso nella traduzione italiana di Antonio Parente.

Irma è una donna di mezza età e senza lavoro, che vive da sola. Per riempire le giornate e, soprattutto, per fare nuove amicizie, si inventa un lavoro: i sondaggi porta a porta. Riesce così ad intrufolarsi nelle case di sconosciuti e persino a stringere dei legami di amicizia con più persone; a volte, però, queste sue visite inaspettate, non hanno una conclusione altrettanto lieta; una famiglia in particolare, insospettita, decide di allertare la polizia (e la notizia finisce anche sul giornale).

Mikko Rimminen (1975) è un poeta e scrittore finlandese nato e cresciuto a Helsinki. Nel 2000 pubblica la sua prima raccolta poetica, Emozionante sarebbe vedere in cortile gli uccelli (Jännittävää olisi nähdä pihalla lintuja), nella quale l’autore  dà libero sfogo alle sue armi  preferite: ironia, parodia e poetica surrealista. La struttura delle poesie di Rimminen è sempre molto elaborata e quasi in ogni testo  l’autore sorprende con espressioni linguistiche avventurose, metafore e costruzioni lessicali inaspettate, facendo uso, con maestria, delle possibilità offerte dalla lingua finlandese, e sfuggendo così a qualsiasi tipo di classificazione razionale. Nel 2001 Rimminen pubblica, insieme con Kyösti Salokorpi  Natura oscura (Hämärä luonto, 2001), una parodica  enciclopedia illustrata di  fauna moderna, dove è possibile trovare definizioni “scientifiche” di animali come Anitra-WC, Colomba della pace o Topo d’albergo.

Del 2002 è la sua seconda raccolta,  Dalla nebbia sbucano delle macchine nere (Sumusta pulppuavat mustat autot), dove l’autore descrive e rende omaggio alla sua città.

Molte delle poesie di Rimminen si potrebbero definire prosa poetica o giochi di prosa in poesia piuttosto che componimenti classici in versi liberi. L’uso di tali forme, tradizionalmente non molto frequenti nella produzione letteraria finlandese, è uno dei contributi maggiori di Rimminen alla poesia scritta in finlandese.

Dopo queste raccolte poetiche, Rimminen cambia genere ed inizia a scrivere, come lui stesso afferma, “qualcosa di più facile, la prosa”. Nel 2004 pubblica Pussikaljaromaani (Romanzo di una giornata estiva), nel 2007 Pölkky (Ceppo) e quindi nel 2010 Nenäpäivä (La giornata del naso rosso), il suo romanzo di maggior successo, vincitore del prestigioso Premio Finlandia. In questo romanzo ritroviamo tutti i tratti distintivi precedentemente sottolineati per la sua produzione poetica.

Irma, la protagonista del romanzo di Rimminen, è una sorta di antieroe emarginato, personaggio centrale dell’arte finlandese fin dal XIX secolo. In questo suo aspetto, ricorda molto i protagonisti dei film di  Aki Kaurismäki. Rimminen, però, reinterpreta in maniera convincente questo ruolo tradizionale e al posto della laconicità e del minimalismo linguistico, così tipico per il registra finlandese, saggia i confini della lingua finnica, con espressioni, metafore e neologismi arditi ed esilaranti.

La giornata del naso rosso

Atmosphere, 2013, pp. 44-46

 L’inquilino che aveva permesso la mia invasione era ora in piedi dietro di me, e così finii per girare il busto e affrontare quell’assurda situazione in cui io, l’intrusa, fissavo l’uomo che aveva già afferrato la maniglia della porta e sembrava sul punto di fuggire dall’appartamento. Aveva l’aria sufficientemente turbata per quella mia intrusione, e nonostante quel suo disagio mi colpisse diritto al cuore, in qualche modo mi dava anche coraggio; riuscii perciò a mettere insieme quelle mie sensazioni incoerenti e a fare una presentazione da telemarketing: veloce, venendo subito al sodo e senza dare la possibilità di replicare. Naturalmente, in questo modo non può mai nascere una conversazione vera e propria, e questa è un cosa che spesso dispiace ad entrambe le parti.

   Quando tuttavia quella creatura rispose alla mia litania soltanto con un aaa facendolo seguire da un haaa, capii di dover scendere al più presto da quella torre di ufficialità che avevo eretto in fretta; gli dissi di chiamarmi Irma, porgendogli la mano con decisione. Esitò per il tempo di un batter di ciglia ma poi la strinse. All’inizio la presa fu molle e in qualche modo riluttante, poi cominciò a scuotere furiosamente la mia mano, o a palpeggiarla con scaltrezza. Nessuna delle due modalità mi risultò particolarmente allettante.

   Si incontrarono e per fortuna si lasciarono, le mani, ma l’uomo non disse nulla, continuava a guardarmi, con i piedi nudi e le unghione gialle che gli spuntavano dalle dita. Pensai se avessi di nuovo sbagliato qualcosa. Avevo agito con troppa rigidità? Con burocraticità? O forse con un’inutile familiarità? O avevo mormorato, quasi senza fiato, qualcosa di poco chiaro credendo di parlare invece coerentemente? Non osai pensarci un attimo di più e decisi di provare ancora una volta a presentarmi. Non volevo più toccare la sua mano, e temevo seriamente che, frullandomi in testa l’idea di sfiorarla, avessi scrollato con fastidio la mia sul fianco.

   – Dunque, sono Irma, riuscii comunque a dire. – Irma, Ufficio ricerche di economia domestica.

   Immediatamente mi resi conto di non aver fornito alcun tipo di cognome insieme al nome mio e dell’ufficio. Sicuramente era un approccio amichevole, presentarsi solo col nome, ma forse si era un po’ spaventato, il cliente, per questo mio parziale anonimato e si era insospettito. Sì, certo, il cognome deve esserci, pensai, ma non oserei dire il mio, dovevo farmi venire un’idea, farmi venire un’idea, farmi venire un’idea. E per qualche ragione, dopo quelle cantilenanti considerazioni, decisi di dirne uno svedese, per un motivo di credibilità, una maggiore sofisticazione, ma dopo aver finalmente elaborato una decisione del genere, non mi venne in mente niente di sensato. Alla fine l’unico suono che riuscii a biascicare fu qualcosa tipo Gyllenspääf, e anche quello mi uscì di bocca in maniera incomprensibile, come se fossi ubriaca.

   – Possiamo sederci un attimo? chiesi nella maniera più interrogativa possibile; ora, comunque, suonò soprattutto come una preghiera – Non ci vorrà molto.

 – Prego, mi rispose in modo fin troppo brusco ma non fece alcun gesto, insomma, non ne fece nemmeno uno. Alla fine, dopo che lo ebbi fissato non con irritazione ma piuttosto con sorpresa, mi fece segno di entrare, con un gesto osteoporotico e rammollito. Entrai senza togliermi nemmeno le scarpe, contrariamente alla prassi. Il mio lassismo non sembrò indispettire il padrone di casa, il quale semplicemente si trascinò dietro di me, cacciando un suono strano, come se si schiarisse la gola o avesse un conato di vomito.

   Dopo l’ingresso, più che altro un moncone, il corridoio proseguiva con una curva a gomito, terminata la quale balzò agli occhi l’intera abitazione. Si trattava di un monolocale, dove, ovviamente, non mi sentii spaesata. Al centro della stanza si trovava, o meglio, avvizziva un divano. Era storto da qualunque angolo lo si guardasse e sul punto di collassare in tutta la sua verdezza raffreddata e sbiadita vellutatezza rigata. Intorno a questo divano centrale c’erano un po’ tutti, be’, potrei chiamarli, diciamo, i segnali tipici dell’antisocialità: altre scatole per la pizza, bottiglie vuote, portacenere pieni e articoli di emergenza trasformati in surrogati di posacenere, come lattine, piatti e l’incavo roso di una mela. Carte appallottolate, riviste, tazze e bicchieri, calzini, t-shirt scolorite, sacchetti di plastica bucati e legacci di metallo contorti. E in tutto questo, sul tavolino a sghimbescio c’era una vecchia sveglia a pezzi, i cui organi interni, i piccoli ingranaggi, le molle e altri aggeggi simili sembravano essere stati soggetti a uno sconvolgimento improvviso oppure a una violenza terribile, lenta e nevrotica.

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