La stella d’Africa: lo scheletro in tutti gli armadi finlandesi

Il movimento anti-razzista di Black Lives Matter è ufficialmente arrivato in Finlandia lo scorso 3 giugno, quando una manifestazione organizzata in concomitanza con quelle americane ha raccolto più di 3000 partecipanti in Piazza del Senato (non senza qualche preoccupazione per via delle direttive anti-corona). Basta comunque fare un giro sui social per rendersi conto di quanto questo tema stia a cuore soprattutto alla generazione dei millennials. I temi centrali della maggior parte degli interventi sono gli stessi del movimento americano: la violenza della polizia, il razzismo di sistema, le statue degli schiavisti e cosa possono fare i bianchi per aderire a questa protesta e al cambiamento che essa vorrebbe portare.

Vista area della manifestazione “Black lives matter” in Piazza del Senato. Foto Helsingin Poliisi

A brillare per la sua assenza da questo discorso, di norma, è la Finlandia stessa, quasi come se il razzismo e le conseguenze del colonialismo fossero un problema solo americano o tutt’al più dei Paesi europei direttamente interessati. Quando si parla di schiavi in Finlandia, si fa riferimento di solito ai finlandesi e ai careliani che venivano comprati dalle facoltose famiglie aristocratiche russe oppure che erano costretti a cercare i lavori più umili per sopravvivere a San Pietroburgo: gli amanti della letteratura russa si ricorderanno di Anna, la cuoca e bambinaia finnica dello sfortunato funzionario Akakij Akakievič, protagonista del racconto Il cappotto di Gogol’. Nel mito della Finlandia retta e innocente non trova mai posto lo sfruttamento di tipo coloniale nei confronti dei Sámi, costretti nei secoli a cambiare il proprio stile di vita e la propria visione del mondo attraverso una forzata evangelizzazione e l’obbligo scolastico di imparare il finlandese, spesso accompagnato da punizioni corporali per chi si ostinava a parlare la propria lingua madre (se masticate il finlandese, vi consiglio questo ottimo – e conciso – saggio della professoressa Rauna Kuokkanen dell’Università della Lapponia)

Per quanto riguarda argomenti meno spinosi, molti passi avanti sono stati fatti, per esempio nell’eliminazione dall’uso dello spregiativo neekeri: i celebri suukot della Brunberg, dolcetti composti da panna e meringa rivestiti di cioccolato (che anche in Italia hanno il problematico appellativo di “moretto” o “negretto”), hanno modificato il loro nome nel 2001 dopo 50 anni sul mercato, e dalle carte geografiche finlandesi sono stati rimossi sia Neekerikylä, una via di Vaasa, che Neekerisaari, un’isola vicino a Liperi nella Carelia settentrionale. Nulla è stato fatto per il rap in finlandese di Anna Falchi del 1995, una versione di filastrocca che includeva una strofa con la parola incriminata, probabilmente perché già fortunatamente fuori commercio.
Ciò che non viene mai messo sotto attento scrutinio sono gli oggetti quotidiani e “normali”, che tendiamo a ritenere innocui. Un esempio perfetto è dato da un gioco da tavolo che possiedono quasi tutte le famiglie finlandesi: Afrikan tähti, ovvero Stella d’Africa, ideato nel 1951 dall’allora diciannovenne Kari Mannerla dopo aver letto un articolo sul Cullinan, il diamante più grande al mondo, chiamato con l’appellativo di “grande stella d’Africa”. Insieme a Kimble, è probabilmente il gioco da tavolo finlandese più popolare: tradotto in 16 lingue, ne sono stati venduti circa 4 milioni di copie in tutto il mondo.

Per chi non lo conoscesse, è un gioco basato interamente sulla fortuna in cui bisogna trovare il diamante attraverso l’intero continente africano, utilizzando dei tondini di cartone con impresse alcune immagini. I giocatori, attraverso il ritrovamento di varie pietre preziose, hanno un determinato budget con cui possono effettuare spostamenti via terra, mare o aria e portare il diamante in salvo, a Tangeri o al Cairo. Già solo da questa breve esposizione delle regole vengono a galla notevoli problemi: innanzitutto l’unico scopo del gioco è quello, fondamentalmente, di rubare il diamante all’Africa e di portarlo al sicuro in città controllate, al tempo della pubblicazione, dagli europei. Come sostiene il ricercatore e scrittore finlandese Olli Löytty “l’idea stessa del gioco, ovvero la ricerca del diamante per terra, mare e cielo, rappresenta in estrema sintesi l’intera storia del colonialismo”.

A far storcere il naso sono – o per meglio dire, dovrebbero essere – anche le illustrazioni. Il tabellone del gioco ricorda da vicino le mappe coloniali dell’Africa, quando molti luoghi del continente erano ancora sconosciuti agli esploratori/conquistatori bianchi. Anche il criterio della scelta dei luoghi sembra essere legato esclusivamente a un esoticismo esasperato: accanto alle città, troviamo riportati nomi di Stati (Sierra Leone, Congo, Capo Verde) e luoghi geografici vari, come le Cascate Vittoria o i Monti dei Draghi. Chiari riferimenti colonialistici li ritroviamo nella Costa d’Oro, il nome inglese per l’attuale Ghana, e la Costa degli Schiavi, toponimo utilizzato dagli europei per indicare i Paesi del golfo di Guinea, importante centro del commercio degli schiavi.

Le immagini, poi, sono il festival della banalità e dello stereotipo: animali selvaggi ed esotici, aborigeni in vestiti “tradizionali” che danzano, suonano e vanno a caccia oppure ancora beduini alla ricerca dell’oro e schiavi che lavorano nella Costa degli Schiavi. Sebbene non si veda la faccia del personaggio che, vicino a Cape Town, trova la stella d’Africa, il suo abbigliamento lascia pochi dubbi al fatto che sia bianco: ricorda nell’iconografia, con questo cappello a larga tesa e gli stivali, un cowboy o, per restare in tema, un boero. Per non farsi mancare nulla, infine, vicino a Sant’Elena ci sono pirati che aspettano i giocatori per derubarli e nel deserto del Sahara si viene attaccati dai beduini.

Kari Mannerla ha creato anche un gioco gemello, con gli stessi principi e le stesse regole: Inkan aarre, ovvero il Tesoro degli Inca. L’Africa è sostituita dal Sud America e il diamante da un’effige dorata del figlio del sole da portare in salvo a Machu Picchu, ma l’idea è esattamente la stessa, anche se il successo di Afrikan tähti non è stato mai più replicato.

Essere consapevoli della problematicità di questo gioco non significa che non ci si possa più giocare o che cambiandolo si risolva il problema del razzismo e degli stereotipi nel mondo. È giusto informarsi, discutere – senza invertire l’ordine! – e schierarsi anche per eventi “lontani” da noi, ma la consapevolezza e il cambiamento vero nascono prima di tutto da un’analisi della propria cultura, dei propri modi di fare e di interagire di ogni giorno. Qualche volta, la cosa migliore da fare è puntare il dito contro lo specchio. Un gioco da tavola non cambierà il mondo, ma se tutti lo guardassimo con occhi “moderni”, presto finirebbe dimenticato in fondo al cassetto o mostrato come cimelio e memoria del passato.