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L’orso e il suo mito tra i Sámi

Abbiamo scelto e tradotto un racconto della tradizione popolare Sámi sull’origine delle celebrazioni dell’orso, contenuto nel volume Noidova smrt. Pověsti a pohádky z Laponska (La morte dello sciamano. Leggende e racconti dalla Lapponia, 2000), a cura di Michal Kovář-Demeczi e basato sul materiale raccolto da Václav Marek  durante la sua permanenza in Lapponia (1931-1948).

Václav Marek, etnografo, scrittore e viaggiatore ceco (come già segnalato sulla Rondine a proposito della nascita del costume dei Sámi), era nato a Sadská nel 1908, e si era dedicato a ricerche di grande significato sulla religione e la cultura dei popoli Sámi. Nel 1931 si era stabilito nella Lapponia norvegese, nell’attuale Parco Nazionale Børgefjell. Durante la seconda guerra mondiale prese parte al movimento di resistenza norvegese. Nel 1948 tornò in Cecoslovacchia lavorando nel campo della ricerca biologica, e scrivendo articoli sulla caccia e la silvicoltura. Ma ha lasciato vari scritti dedicati al mondo Sámi, e nel Parco Nazionale Børgefjell c’è anche un sentiero dedicato alla sua memoria, chiamato Marek’s Trail.

Grafica da Koillissanomat.fi

L’orso, la sposa, e l’anello di ottone

C’erano tre fratelli, e avevano una sola sorella. Tutti la odiavano a tal punto che alla fine dovette scappare nella foresta; lì trovò la tana dell’orso, ed essendo già molto stanca vi entrò per riposare. Dopo un po’ l’orso fece ritorno nel rifugio, e riconosciuta la ragazza, la prese in sposa, e in seguito lei diede alla luce un figlio.

Passato del tempo, quando l’animale era ormai invecchiato e il figlio cresciuto, l’orso disse alla donna che, data l’età avanzata, non avrebbe più vissuto a lungo e che quindi in autunno, alla prima neve, sarebbe uscito dalla tana, in modo da lasciare delle tracce seguendo le quali i tre fratelli della donna avrebbero scoperto il suo rifugio e l’avrebbero poi ucciso.

da Karhun kuolema (Tammi 2010)

La moglie provò a dissuaderlo e cercò in tutti i modi di impedirgli di realizzare questa sua intenzione, ma niente riuscì a far cambiare idea all’animale, il quale mise in atto il suo piano di lasciare delle tracce visibili così che i fratelli scoprissero la tana. Poi ordinò alla moglie di fissargli un pezzo di ottone sulla fronte, in modo da distinguersi dagli altri orsi, ma soprattutto affinché lo riconoscesse suo figlio, che già era andato via da casa, abbandonandoli, altrimenti avrebbe potuto accidentalmente ucciderlo lui stesso.

In seguito, quando la neve era già alta, i tre fratelli uscirono per cacciare l’orso, e poiché la neve aveva preservato bene le tracce, le riconobbero facilmente. Quando l’orso li vide, chiese alla moglie se tutti e tre i suoi fratelli l’avessero odiata allo stesso modo. Lei rispose che i due fratelli più grandi l’avevano trattata peggio, mentre il più giovane un po’ meglio.

Allora, quando i tre fratelli raggiunsero la tana dell’orso, questi ne uscì di corsa, attaccò il fratello maggiore, lo prese a morsi ferendolo gravemente, poi rientrò rapidamente nel nascondiglio, senza alcuna ferita o lesione. Quando si avvicinò il secondo fratello, l’animale corse fuori avventandosi su di lui, ferendolo gravemente come aveva fatto con il primo, per poi tornare dentro la sua tana.

Poi l’orso disse alla moglie di abbracciarlo, e quando lei lo fece, lui si impennò sulle zampe posteriori e uscì dal rifugio, la moglie tra le braccia. La donna ordinò allora a suo fratello minore di sparare all’orso, e lui lo fece. La donna si sedette lì vicino coprendosi il viso con la veste per non vedere l’orso che veniva ucciso e scuoiato, come se non avesse il coraggio di seguire uno spettacolo simile. Alla fine, però, guardò un po’ di sottecchi. E a questo, sembra, si deve l’origine della credenza che nessuna donna dovrebbe mai guardare un orso o un cacciatore di orsi, se non con il volto coperto dalla veste e attraverso un anello di ottone.

Dopo che i tre fratelli ebbero ucciso l’orso, mentre la carne era nel calderone sul fuoco, giunse di corsa il figlio dell’orso, al quale tutti e tre i fratelli raccontarono di come avevano ucciso uno strano animale con un pezzo di ottone sulla fronte. Il figlio disse che l’animale con il pezzo di ottone sulla fronte era suo padre, e che quindi lui pretendeva la stessa parte spettante ai fratelli.

I tre fratelli, però, rifiutarono a lungo di accordargliela, concedendola solo quando lui minacciò di resuscitare il padre se non l’avessero fatto. E infatti, prese in mano una canna, con quella frustò una volta la pelle dell’orso e gridò: “Padre mio, alzati! Padre mio, alzati!”

Subito dopo, la carne nel calderone cominciò a ribollire così violentemente che sembrava volesse saltare fuori. Tutti e tre i fratelli furono molto spaventati da questo avvenimento, e la paura li costrinse a dare al figlio dell’orso una parte uguale alla loro. E da ciò nacque l’usanza, dopo aver cacciato e ucciso un orso, di portarlo immediatamente fuori dalla tana e di iniziare a frustarlo con canne o sferze. E anche il detto “frustare l’orso con la sferza”. E in ricordo del fatto di aver trovato un anello d’ottone sulla fronte dell’orso, in seguito tutti i cacciatori d’orsi presero a portare un pezzo d’ottone, e le armi e gli attrezzi usati durante la caccia furono addobbati con anelli e catene dello stesso materiale.

Si dice che tutte queste cerimonie siano state insegnate alla donna dall’orso, e che lei le abbia poi raccontate ai suoi fratelli. Per avere successo e sconfiggere una bestia così grande, durante la caccia bisognava seguire tutte queste usanze.

(Immagine del titolo di Andreas Lie. Per le foto utilizzate siamo pronti a far fronte alle richieste di diritti)

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