Ci sono date che si fissano nella memoria, e che sopraggiungendo ci destano dentro qualcosa di personale. Come i compleanni, ci ricordano che quel giorno è successo qualcosa che ci riguarda, per sempre.
Per me il 16 ottobre è dominato dal ricordo prima di tutto di un libro, che tanti anni fa un amico più grande mi consigliò, dicendomi che dovevo sapere anch’io. Era un elegante libretto del Saggiatore dalla copertina marroncino, che aveva per titolo una data: “16 ottobre 1943”. Scritto da Giacomo Debenedetti, che è stato un grande scrittore oltre che uno dei massimi critici del Novecento. Da quel giorno ”l’assurdità entrò decisamente nella mia vita”, come scriveva Alberto Moravia nella Prefazione, riferendosi alle leggi per la difesa della razza del ’38. Per me quel giorno fu quello di quel libretto, che lessi con qualche timore, preoccupato da un titolo che sembrava una lapide.
Come dimenticare l’incipit?
“Fino a poche settimane prima, ogni venerdì sera, all’accendersi della prima stella, si spalancavano tutte grandi le grandi porte della Sinagoga, quelle verso la piazza del Tempio. Perché le grandi porte, invece delle bussole laterali e un po’ recondite come tutte le altre sere? Perché invece degli sparuti candelabri a sette bracci, quello sfavillare di tutte quante le luci, che traeva fiamme dagli ori, splendore dagli stucchi – gli stemmi di Davide, i nodi di Salomone, le Trombe del Giubileo – e sontuosi bagliori dal broccato della cortina appesa davanti all’Arca Santa, all’Arca del Patto col Signore? Perché ogni venerdì, all’accendersi della prima stella, si celebrava il ritorno del Sabbato…”
Scritto nel novembre del 1944, Debenedetti, in appena una quarantina di pagine, racconta l’inganno di Kappler, la vile sudditanza dei fascisti e del loro capo, la deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma, riuscendo – lui scrittore raffinatissimo – a calarsi tra le vittime e a far parlare coralmente quelle povere persone, tanti vecchi con donne e bambini, con le loro voci. Ne senti la cadenza, ne percepisci l’orrore. Alle 5 del mattino, si legge, Letizia l’Occhialona “fu udita gridare: ‘Oh Dio, i mamonni!’”
Nella realtà della cronaca, il linguaggio era assai più crudo, e burocraticamente distaccato. Due giorni dopo un fonogramma del Ministero degli Interni italiano rassicurava sul felice esito della spedizione. Un solerte funzionario scriveva che il convoglio con “28 carri di ebrei (mille circa) fra donne bambini et uomini, era diretto al Brennero. Nessun incidente…”
Fa venire i brividi.
L’amico, e quel libro, mi hanno insegnato che ricordare questa data serve anche per ricordarsi di essere italiani. E che reagire contro i fascismi, le violenze di ogni colore, è un dovere civile, oltre che morale. “Ricordare i morti serve ai vivi”, ha detto Elie Wiesel.
Il piccolo volume, con la prefazione di Alberto Moravia e una nota di Natalia Ginzburg, è stato ristampato da Sellerio. Regaliamolo ai nostri figli, ai nostri nipoti. Perché tutti apriamo gli occhi. Perché siamo tutti dei sopravvissuti.
Chi voglia ascoltare le voci di alcuni scampati alla deportazione e alle stragi, le ritrova oggi nel bellissimo documentario di Ruggero Gabbai, pubblicato da Repubblica.