Ricorre l’11 settembre il centosessantatreesimo anniversario della nascita di Juhani Aho, al secolo Johannes Brofeldt (Lapinlahti 1861 – Helsinki 1921), pilastro della letteratura finlandese e tra le prime penne di lunga carriera che ne abbiano tracciato più vasti confini mettendo in scena, tra realismo, naturalismo e un’indagine psicologica ancora sconosciuta alla narrativa dell’epoca, un immaginario drammatico e viscerale che ha influenzato praticamente l’intera produzione letteraria successiva. “Il primo autentico artista e letterato moderno di lingua finlandese”, scriveva Gummerus, e l’interesse recente per la sua opera sembra confermarlo.
Proponiamo ai lettori de La Rondine il primo capitolo del romanzo Juha (1911) pubblicato in edizione italiana dalla casa editrice Vocifuoriscena nel 2016, storia o vero e proprio paradigma di un triangolo amoroso tra un fattore “sgraziato e claudicante”, una moglie dai sogni inesauditi e il dongiovanni della “Carelia straniera”, Šemeikka di Uhtua, in una spirale di seduzione, fuga e amore incondizionato fino alla tragedia espiatoria affidata alla corrente di un fiume, la marca ricorrente del paesaggio interiore di Aho.
Il romanzo ha raggiunto il palcoscenico in due opere in tre e sei atti musicate da Aarre Merikanto (1920) e Leevi Madetoja (1934) e, per ben quattro volte, il grande schermo con la pellicola muta di Mauritz Stiller (1921), nell’epoca del sonoro con la versione di Nyrki Tapiovaara, promossa dai figli dello scrittore e con l’apprezzato Kammerspiel di Toivo Särkkä (1956) e, coup de théâtre, con il ritorno al film muto di Aki Kaurismäki (1999) che ha integralmente rigenerato la figura di Šemeikka (l’attore francese André Wilms) nel typos del “vecchio marpione”.
“Lo sviluppo verso la direzione del dramma umano, un fiume sotterraneo che avvertiamo scorrere sotto la penna di Aho, ha raggiunto in quest’opera il suo risultato più alto e proporzionato, donando allo spaccato della vicenda coniugale uno spessore raro, imprimendo ai fitti dialoghi una forza dirompente e prestando all’intreccio una tensione ed un ritmo prima sconosciuti” (V. A. Koskenniemi, postazione all’edizione 1927)
Juha
L’uomo, schiena lunga, una frusta camicia di lino, scarpe di corteccia, abbatte alberi sul fianco di una montagna. Una betulla cade, un’altra chioma si mette a tremare; le schegge volano ovunque. Affronta tronchi grandi quanto le sue cosce come potasse salici; non si ferma un istante a riposare.
La cima è al centro d’una foresta senza fine sulla quale svettano altre alture simili a quella, come zolle su un prato allagato. Le altre montagne sono coperte dalla selva fino alla vetta, eccetto quel pendio esposta al sole, disboscato dalle pendici fin quasi alla metà della china. Il debbio è solo una macchia nel deserto selvaggio, un segno nella vastità; un campo verdeggiante di segale e, in basso, radure estese fino a un abituro in fondo a una lunga penisola che spezza acque contorte tra stretti, laghi e cascate.
Si scorge distintamente l’uomo battere forsennato. Prende fiato, guarda a valle, osserva il suo campo, la casa, la penisola e la cascata. Fa oscillare l’ascia sul ceppo, come per fare una pausa, ma poi la affonda ancora in un tronco e, schiena lunga, una frusta camicia di lino, scarpe di corteccia, ecco fremere un’altra chioma.
La lama sale e scende, si stacca e affonda di nuovo: l’albero si schianta, un altro già ondeggia; il ritmo del lavoro incede con quello dei pensieri. Alcuni arrivano, altri se ne vanno proseguendo dove erano giunti, tornando là dove erano iniziati. Liberarsi da essi, averci a che fare è sempre così maledettamente difficile.
Ci voleva proprio quel congedo, tra astio e amare parole? Era necessario dirlo ancora, sebbene fosse vero? Doveva per forza ripetere “vecchio ciocco, gamba storta, mento adunco”? Che colpa ne ho, che ci posso fare, che c’è di sbagliato in me? Quando allora mi scegliesti, quando venisti da me, lo vedesti da te che la gamba sinistra zoppica. Che bisogno c’era di dirlo?
Smise di battere, posò l’ascia e si sedette.
Sono vecchio ormai. Né ho mai fatto vanto del mio aspetto. Per questo, per ciò solo, doveva rivolgermi quello sguardo come da cane rabbioso? Quando le ho sfiorato un poco la spalla ha sbottato: “vattene, storpio”. Mancava mi picchiasse con il mestolo. Per placare l’animo, il rancore, ho lasciato fare. Quando … quando mai le ho fatto qualcosa di male.
Le scappavano quelle parole, ma poi si pentiva e facevamo la pace. Mi basterebbe venisse a portarmi il pranzo, e tutto sarebbe ancora bello come prima. Appena la sentissi da lontano, le farei capire che io non ci penso più. Se arrivasse ancora, oggi come un tempo, cantando, la selva intera che risuona per precederla, la accoglierei muggendo come un bue, barrendo come un orso: io non ci penso più, non pensarci neanche tu!
Voleva sperare che Marja sarebbe arrivata. Le frasche sussurravano nel vento caldo; la pace mitigava il sangue. Ciò che aveva detto, doveva esserle sfuggito solo in preda all’ira: una rabbia che non avevo acceso io ma qualcos’altro. Adesso come allora la solleverei su quella betulla forcuta, come fosse una bambina. Eccola sull’albero su cui canta il cuculo: le parlo sul ceppo, uccellina, ninfa silvestre, fanciulla dei boschi d’azzurro vestita. Mi ascolta volentieri, nonostante faccia finta di non sentirmi, e sul sentiero del bestiame canta tra sé “aiutami, Juha”, grida “non posso scendere senza il tuo aiuto!” Delicatamente mi si butta al collo, si lascia trasportare verso il campo, si posa sulla liscia radura.
Seduto al centro del debbio, le mani sulle ginocchia sotto l’abito da lavoro, guardando pigramente oltre gli alberi abbattuti vide Marja, il capo scoperto, il velo caduto sulle spalle, in mano una roncola che lui aveva forgiato: piccina, stacca frasche e fronde con agilità mentre lui fa cadere tronchi immensi tra il fragore dei tonfi. Per tanti anni è venuta al debbio esultando, cantando, giovane dama, per la gioia dell’agro, dei campi bonificati dal suo uomo: terre che la calura mai secca, che il gelo intacca appena. Juha conosceva il motivo di quella prodigiosa ubertosità: con lui v’era una ninfa venuta chissà da quale recetto, la bella di Carelia giunta da cime remote e forestiere.
Non tornerà, non si lascerà posare sul ramo, portare sulla radura, non canterà né danzerà, non porterà il pranzo. Da mane a sera, quant’è dura la vita per quel vecchio.
Juha continuava a tendere l’orecchio, anche quando la scheggia iraconda volava stridente dal tronco venato. Qualcuno mi chiama? Scrutò oltre gli alberi che aveva abbattuto, oltre il ciglio della radura, salì in piedi sulla pietra sopra la quale sedeva. Nessuno neanche laggiù. Forse era più in basso, dove l’occhio non arriva. Se salisse ancora un poco, vedrebbe meglio chi è in arrivo. Da lì la vista spazia fino alla corte, al sentiero sulla radura, oltre campi e prati fino alla casa. Se non ci fosse già andato più e più volte ad aspettare ciò che invano attendeva, sarebbe tornato sulla cima. Prese l’ascia e batté, picchiò affinché, un albero caduto dopo l’altro, s’avvicinasse l’angolo dal quale si scorgeva la casa. Il debbio andava ampliato, doveva arrivarci prima. Il frastuono dei tronchi sembrava prodotto da qualcosa che non era la loro caduta.
Niente, non s’udiva niente neanche più in là. In basso le mucche riposavano nella radura assolata. Sul lago due barche solcavano l’acqua con pigre vogate. Una terza, più indietro, avanzava nell’ombra della riva, come pedinasse le altre. Juha capì che le due imbarcazioni provenivano da oltre confine, dalla Russia: mercanti di pelli. Dalla rotta dedusse non avessero intenzione di costeggiare la penisola per raggiungere le rapide ma fossero diretti alla sua riva per passare lo stretto portando le barche e il carico dall’altra parte. Avevano bisogno di cavalli. Doveva scendere ad aiutarli? Facciano loro: chiedano a Marja. La terza barca era una chiatta di carbonai.
Si voltò e continuò a buttar giù alberi, a monte il debbio; più giù, a valle, ancora niente! Perché mai avrebbe visto qualcosa? Tornò al limite superiore del campo. Sentiva il bisogno di riposare; si sedette sulla stessa pietra, sotto la betulla forcuta. Doveva riflettere, capire il perché di tutto ciò. I pensieri seguivano ormai strade proprie: non riusciva a governarli.
– Quanto lontano stessi lavorando, mi portava il pranzo. Preparava il pesce al forno, il latte cagliato nella bisaccia … adesso per lei sono solo un vecchio: “caprone, gamba storta … mento adunco”. È così. Quando mai l’avrei rimproverata per quanto era povera, perché non aveva niente, perché le ho costruito una casa come si deve, abbattuto gli alberi, bonificato le paludi. L’aspetto, l’età: questo conta in un uomo? Non già cosa ottiene, cos’è capace di fare? Dove c’era solo foresta e gelo ho costruito una dimora, laggiù nella radura baciata dal sole, circondata dalle acque, sul promontorio tra le rapide: una grande capanna, stalle, dispense, saune, granai, un cavallo e cinque vacche. Lo dica, Marja: chi avrebbe fatto tutto ciò per una povera fanciulla, una trovatella, una forestiera? Meglio schiava nella propria terra, meglio far l’ancella nella vecchia corte di Karhula? Lo dica! Qual è stato il ringraziamento? Essere gentile quel tanto, quando ancora non ero decrepito … quando non tossicchiavo, non ansimavo …
Si pentì. Perché la biasimo? In fondo era ancora una bambina. Io ero già adulto, avrei dovuto sapere bene che … Però quanta gioia quella volta che esclamò: “hai abbattuto una gran fetta di foresta: avremo la più fertile delle campagne!” Aspetta! I suoi pensieri si fermarono un istante. Non abbiamo figli: ecco perché. Ne soffro anch’io. È questo il motivo. Non abbiamo figli né mai ne avremo. Solo chi desidera davvero qualcosa la ottiene …
Sul ciglio del debbio udì da sotto un batter l’ascia, come qualcuno che non ne era capace. Balzò su ma non vide nient’altro che rami ondeggianti. Marja? Aveva portato il pasto e ora preparava le fascine? É lì da tempo e non l’ho notata.
Non era Marja ma Kaisa. Forse l’ha mandata avanti e adesso arriva a portare il cesto. No, di solito lo lascia lì.
L’ancella fece per aprire il fagotto, ma Juha disse che voleva andare a casa; lei poteva rimanere a preparare le fascine. È il momento di mettere da parte l’ascia: era sabato, bisognava gettare le reti. “Con questi preparo le sferze per la sauna.” Ebbe un’altra visione: Marja, giovane dama, staccava frasce da una betulla che aveva appena abbattuto davanti a lei; il capo scoperto, il velo caduto sulle spalle, slanciata, flessuosa come un fusto dal nudo tronco. Occhi bruni, chioma nera, pelle scura: non v’è anima più splendente! Getta le frasce sulla catasta: foglie fruscianti di pioppo. Affonda le braccia nelle fronde, si volta e sorride: “Gli agnelli avranno da mangiare per tutto l’inverno!” Quando la catasta era pronta, le sferze sotto braccio, se ne tornavano a casa attraversando il campo e chiacchierando: l’anno venturo debbieremo quella parte e quell’altra, se vivremo abbastanza non ci fermeremo prima di aver disboscato tutto il monte, trasformato le abetaie in praterie: resterà solo una pila di pietre sulla cima. Diventeranno ricchi, costruiranno una casa che non avrà eguali in tutta la parrocchia: più sontuosa delle antiche corti dei tuo avi: “una sfida alla tua stessa, illustre stirpe”, disse, e così fu. Camminando davanti a lui, agitava le frasche oltre lo steccato …
Allora non disse “vecchio ciocco, gamba storta”, benché non fossi diverso da come sono ora: questo è sempre stato il mio aspetto.
Non riesce più a sentirsi soddisfatta dalle cose che, un tempo, facevano insieme; non le va più niente di ciò da cui io traggo piacere. La mattina esce iraconda dal suo abituro per andare a lavorare, se ne torna la sera al suo giaciglio imprecando e sbarra la porta. Dovrei forse parlarne col prete che ci sposò e ci augurò ogni fortuna prendendoci le mani? Dovrei andare alla canonica? Cosa può un ministro della chiesa contro un sortilegio?
Ininterrotte erano le vie dei suoi pensieri: le percorreva senza arrivare da nessuna parte; lo portavano dritto alla palude, come il bestiame sulla strada della selva.
Il sentiero scendeva attraverso un campo di segale, costeggiava una giovane radura e, passato un roveto, raggiungeva un avvallamento acquitrinoso dal quale si udiva lo scrosciare della corrente; dietro gli alberi si scorgeva il dimenarsi incessante delle onde. Il fiume scompariva dietro un intrico più fitto, mentre il sentiero risaliva fino ad un prato e un campo, oltre il quale sorgeva la casa.
Marja era intenta a mungere dietro lo steccato. Si alzò per guardare chi stesse arrivando sul viale tra la stalla e il granaio, tornò a chinarsi dietro la vacca lanciando uno sguardo algido e affilato, e stringendo le labbra con un tremito amaro, come il dente di una sega … Non si era affatto calmata. Indossava gli stessi stracci che aveva la mattina o, in generale, quando era di malumore. Sembrava non essersi affatto pentita delle sue parole: ancora pronta a scagliarle oltre lo steccato. Starà pensando: eccolo, vecchio caprone, gamba storta. Salendo dall’aia all’ingresso, passo dopo passo a Juha parve d’esser colpito da una freccia alla schiena.
Prese dalla dispensa la cesta con le provviste, si diresse alla riva, prese le reti dal capanno, le mise sotto braccio e spinse la barca al largo.
Marja lo vide arrivare; sentì il bisogno di dirgli qualcosa di gentile che, però, le rimase in gola, come un boccone troppo secco. Avvertì lo stridore del suo stesso orgoglio: così sono fatta, non cambierò mai! Non posso essere ciò che non sono. Dovrei raggiungerlo al fiume e, invece, resto qui. Può supplicarmi con gli occhi di un cane ma non riesco ad essere buona con lui.
Che ci posso fare se, per me, è come una rana gracidante? Del resto così sono io per lui. Non dico niente, non apro bocca. Cosa lo indusse a chiedermi la mano? Si fosse accontentato di avermi solo come ancella. Perché vuole convincermi ad andare dal prete?
Il secchio tra le ginocchia, saliva il latte e la sua insoddisfazione quando udì una voce da dietro. Appoggiato al recinto, un forestiero, alto, la barba crespa, disse con tono virile, vivace e armonioso:
– Ehi, ragazza, c’è un posto per la notte? Un bagno di vapore per il viandante?
(Traduzione di Marcello Ganassini)
(Foto del titolo da Museovirasto. Per le foto pubblicate siamo pronti a far fronte alle richieste di diritti)