Le “capanne” di Mondello sono le protagoniste del lungometraggio Happy Winter, opera prima del giovane regista palermitano Giovanni Totaro. Grande interesse tra il pubblico del DOCPOINT Festival, a Helsinki e a Tallinn dal 29 gennaio al 4 febbraio. Un buon successo già a Venezia, nella sezione fuori concorso della 74esima mostra d’arte cinematografica. Abbiamo intervistato il regista a Helsinki, dopo la proiezione del suo film, e lui ci ha gentilmente raccontato in un video la storia di questa sua opera prima. Con un accenno ai progetti futuri.
Il film parte dalla rielaborazione e dallo sviluppo del saggio di diploma con cui Totaro conclude a Palermo nel 2015 il suo triennio di studi in Cinema Documentario. Quel corto iniziale si arricchisce poi di personaggi che Totaro seleziona nel corso di tre estati in spiaggia, riuscendo nell’impresa di coniugare documento e racconto, realtà e visione, fino a momenti di introspezione che lasciano intravedere in questo giovane un talento narrativo non comune.
Il regista, nell’intervista che ci ha concesso, racconta nei dettagli il passaggio dal saggio iniziale alla confezione del trailer che lo porta poi sui mercati anche esteri, e lo sviluppo successivo dovuto anche a un budget generoso, certamente incoraggiato dal talento indubbio di Totaro.
Le “capanne” sull’arenile, ordinate a formare una serie di corti, sono una struttura che viene ogni anno rifondata, per poi essere smontata alle prime mareggiate di settembre. Una cittadella colorata, che desta in Totaro l’idea di documentarla e salvarla nel momento in cui, nel 2014, circola la notizia che nel 2020 sarà cancellata da un nuovo progetto di ampie dimensioni e più “efficienti” strutture balneari: un bella distesa di sdraio e ombrelloni rigorosamente allineati.
Per ora invece qui regna la casualità, anche nella disposizione degli ombrelloni, e la mancanza di regole fisse ha il suo simbolo in Anthony, il “titolare” del chiosco abusivo delle bibite, che ogni giorno con la sua borsa di polistirolo a tracolla si intrufola tra le sdraio e scavalca i corpi dei bagnanti urlando i pregi della sua merce, in concorrenza coi vucumprà di colore, e con identico tasso di illegalità.
Le sue riflessioni, le preoccupazioni, l’attesa ansiosa dei controlli della finanza che porteranno alla solita multa e ai sequestri, non scoraggiano l’uomo, troppo preoccupato di racimolare durante la stagione quel che gli serve per tirare avanti il resto dell’anno. I suoi sfoghi si alternano con le confessioni dei bagnanti: chi insegue una carriera politica, usando la spiaggia come un’arena per promuoversi, chi si lamenta delle difficoltà economiche e sogna di migrare verso mitici eldoradi come la Svizzera, chi si abbandona alle malinconie e chi si sfoga guardando le partite di un Europeo di calcio, quello del 2016, per la nazionale italiana davvero magro di soddisfazioni.
Riprese col drone dall’alto, e incursioni sottomarie di un subacqueo col metal detector alla continua ricerca di preziosi smarriti dagli stessi bagnanti, creano momenti di sospensione nel ritmo della storia e delle sue voci, un aspetto narrativo che fa capire le potenzialità di questo regista.
La cittadella e i suoi eroi, nello scenario della costa siciliana, con le sue luci abbaglianti, vivono come in attesa di eventi, di qualcosa che (finalmente) arrivi da fuori, dal cielo o dal mare: un nemico, un soccorso, un temporale. In questa continua sospensione si diluisce la dimensione mitica della favola mediterranea: in questa Troia in ansia, popolata di eroi malinconici, non accade mai nulla, e sulla spiaggia, nelle penombre dei suoi muraglioni, si consumano piccole storie in cui, a momenti, un politicante o un faccendiere tentano di vestire i panni di un Ettore o di un Priamo, ma alla fine si ritrovano a scandire semplicemente i giorni e le ore che, a partire da Ferragosto, scivoleranno sempre più velocemente verso la caduta della cittadella e la fuga dei suoi eroi. Ad aspettarli, lo sanno tutti, sarà la solita vita, che le fantasie e le elucubrazioni di tutta l’estate non saranno riuscite a modificare in nulla.
Una metafora dell’Italia, dice con bell’entusiasmo giovanile il regista, un mondo di anziani scontenti che vorrebbero tanto cambiare ma alla fine si rivelano dei conservatori. Da qui il finale “aperto” dell’opera, la condanna a una perenne attesa.
Indubbiamente è difficile dire quanto un film possa raccontare un Paese e la sua situazione. Certo è una interessante coincidenza che Happy Winter sia uscito nel quarantennale di un’opera assai più complessa, e con un cast ben più ambizioso, il Casotto di Sergio Citti del 1977. Anche quell’ Italia si avvitava in una crisi economica e civile dolorosa, rischiando di inabissarsi. Lì però c’era sarcasmo, volgarità, avidità. Totaro invece racconta con disincanto e mano leggera un mondo di eroi amari, che non credono ai propri sogni, e in fondo si accontentano di esserci. Dallo scialo allo stallo.
Happy Winter, opera prima di Giovanni Totaro, verrà distribuita nelle sale italiane in aprile, ed è cofinanziata dalla Sicilia Film Commission, nell’ambito del programma “Sensi Contemporanei”, prodotta da Indyca, Zenit Arti Audiovisive e Rai Cinema.
Grande importanza, per il prodotto finale, va assegnata alla qualità della struttura di produzione, in cui un posto di rilievo hanno avuto senza dubbio Paolo Ferrari come direttore della fotografia e Andrea Maguolo al montaggio (David di Donatello per “Lo chiamavano Jeeg Robot”).
La Rondine – 11.2.2018