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Un agnello e una messa ecumenici. Memorie careliane

Foto Lemin kotiseutumuseo

In uno dei più bei romanzi di Arto Paasilinna, Il migliore amico dell’orso (Iperborea, 2008) si narra di una povera “organizzatrice di banchetti”, Astrid Sahari, che inseguita da un’orsa furibonda cerca salvezza in cima a un palo della luce.

 “Con logica tutta femminile Astrid Sahari s’afferrò con tutt’e due le mani al cavo che conduceva la corrente. Si sprigionò un immenso arco di luce: la poveretta fu dapprima abbrustolita come un rosbif, quindi rosolata a puntino come l’agnello al pancaccio, infine incartocciata e asciugata tipo coregone alla brace.” (p. 19)

Traducendo in italiano il testo originale (Rovasti Huuskosen petomainen miespalvelija, WSOY 1995) ho scelto di rendere con il nome di un’antica ricetta toscana, “agnello al pancaccio” qualcosa che gli assomiglia – inutile cercare in rete, sono cose da vecchi – una antica ricetta careliana che in effetti è preparata con modalità analoghe.

È una preparazione antica e povera, fatta con ingredienti semplici: carne, sale, patate. E  tempo. L’ultimo è l’ingrediente fondamentale, perché ce ne vuole “quanto basta” per ottenere un risultato fuori dell’ordinario: la fragranza.

La cittadina di Lemi, poco più di tremila anime nella Carelia meridionale, si trova a poca distanza da Lappeenranta. Un borgo celebre per due specialità gastronomiche: la “patata rossa” locale, e il “Lemin särä”, come si chiama appunto il piatto pasquale citato da Paasilinna.

Serve della carne d’agnello, diciamo mezzo chilo per persona, e cento grammi di sale ogni chilo di carne. Quindi quattro patate grosse a testa. Le difficoltà sono altre.

Servono un buon forno a legna, e una “teglia” speciale: un tronco di legno di betulla, scavato a formare una sorta di trogolo, e che va tenuto immerso in acqua e sale “per settimane” prima di essere usato. La carne va tenuta sotto sale per tre o quattro giorni. Dopo, viene sciacquata con acqua molto calda per eliminare il sale in eccesso sulla superficie.

L’interno del tronco viene spalmato con lo strutto, dopo di che la carne viene adagiata al suo interno e lasciata cuocere per qualche ora. Quando è ben rosolata in superficie, il tutto viene tirato fuori dal forno, e la carne rovesciata, per essere poi rimessa in forno e cuocersi dall’altra parte.

A questo punto si estrae di nuovo la “teglia”, si rimuove la carne, le patate sbucciate vengono sistemate sul fondo, conservando una parte del liquido grasso e succulento sprigionato dalla carne, che viene nuovamente adagiata a coprire le patate. Il tutto va nuovamente in forno, per la cottura finale, che decideranno le patate in base alle dimensioni e alla consistenza.

Messo in tavola e diviso sapientemente, staccando i pezzi di carne morbidissimi, accomodato con le patate ben rosolate, e accompagnato tradizionalmente da schiacciatine d’orzo cotte precedentemente nello stesso forno, ci si trova davanti un piatto pasquale che lega insieme diverse tradizioni. A cominciare dal nome. Non è certo, ma pare che il nome “särä” della pietanza venga dalla parola russa žarit, che significa “arrostire carne”, almeno questo è quanto si tramanda a livello popolare.

“Un gusto incomparabile!”, si dice in un vecchio documentario che possiamo vedere su Yle Areena e che ci mostra tutte le fasi della lavorazione.

Siamo ai confini della Russia, e di questo piatto mi colpisce l’evidente compresenza di tradizioni diverse. La Carelia è da sempre terra di incontro di religioni e gusti, e pensandoci mi viene in mente che a poca distanza da Lemi c’è il capoluogo della regione, Lappeenranta, città che mi ricorda anche un italiano, Adriano Vinciguerra, di cui proprio quest’anno ricorre il decennale della scomparsa. Lombardo d’origine (Desenzano del Garda), sposa una finlandese e si trasferisce a Lappeenranta all’inizio degli anni sessanta.  Noto come il primo pizzaiolo “girovago”, fa conoscere la specialità italiana girando per il paese nordico, prima di fondare il “Bar Adriano” con Raimo Kietäväinen nel 1964. Questo pioniere della immigrazione italiana del dopoguerra va soprattutto ricordato, però, per una iniziativa straordinaria che ha a che fare con quel multiculturalismo cui accennavo.

Adriano riusciva ad organizzare una volta all’anno una messa ecumenica concelebrata da tre uomini di chiesa, in rappresentanza delle tre religioni cristiane del territorio: la protestante, la cattolica e la ortodossa. La Missa Adriana è una iniziativa che si teneva ogni anno nel ristorante da lui successivamente fondato, il “Casa nostra”, e la messa operava il miracolo di una comunità cristiana universale, in uno sperduto paesino careliano, raccolto  attorno a un uomo celebre per le sue pizze e per la sua cordialità. Un miracolo realizzato “con amore”, come era solito dire a tutti.

Un piatto e una cerimonia che sanno di antico, per i viaggi e per la memoria. Buona Pasqua.

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