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Greta, oh Greta! Un simulacro si aggira per il globo

Greta Thunberg: la sua natura, la sua funzione e le probabili conseguenze per lei e per la causa che rappresenta. Fuori di dubbio che questa teenager svedese, nonostante la sua figura minuta, sia “una forza”, che in qualche modo detenga un potere. Ma qui voglio assumere  che il potere di Greta sia il potere del simulacro: una presenza simbolicamente pregnante ma priva di contenuti e quindi utile a chi sa come usarla.

Nella tradizione filosofica e delle scienze sociali, il concetto di “simulacro” viene usato di solito per esprimere l’idea di una immagine, rappresentazione, una parvenza il cui tratto distintivo è di essere di per sé priva di contenuti indipendenti da quelli attribuiteli dai suoi creatori.

Nel caso di Greta, la natura di questo potere è fondamentalmente mediatica, ovvero, in prima istanza, fondato, rigenerato e reso praticamente efficace dalla spettacolarità del personaggio e, in seconda istanza, rafforzato dall’appetito dei leaders per la visibilità mediatica della ragazzina.

Per capire la funzione di questo potere, la sua direzione o i suoi effetti pratici bisogna, tuttavia, guardare al contesto ideologico della competizione per il controllo delle politiche climatiche: il contesto nel quale il ruolo e il potere di Greta diventano significativi. Nella fase attuale, questo contesto è dominato dagli eredi delle principali ideologie del XX e XXI secolo: il socialismo della ‘nuova sinistra’, il nazionalismo rivisitato in chiave populista e il capitalismo internazionalista o ‘globalista’. A mio parere se, per un verso, il potere mediatico di Greta serve, in maniera ambivalente, la strategia del capitalismo internazionalista contro la sfida nazional-populista da un lato, e neo-socialista dall’altra, vi sono altri aspetti più preoccupanti che oggi sembrano ignorati.

Il potere del simulacro

Il potere di Greta fu creato dagli organizzatori del World Economic Forum a Davos, il 23 gennaio del 2019 ed è da allora sostenuto da Covering Climate Now, una iniziativa che raccoglie oltre 300 media “per una audience complessiva di 1 miliardo di persone e in continua crescita”, come ci informa il loro sito web.

Questa formidabile macchina mediatica è finanziata dallo Schuman Media Center presieduto da Bill Moyers che, lanciando l’iniziativa in una intervista a The Guardian nel maggio di quest’anno dichiara la sua intenzione di “coprire la crisi del clima come abbiamo fatto all’inizio della seconda guerra mondiale… In quella Guerra, lo scopo del giornalismo [negli USA] era di sensibilizzare il mondo alla catastrofe imminente. Dobbiamo affrontare la crisi climatica nello stesso modo”.

Come tutti sanno, lo scopo di una parte influente del giornalismo statunitense che tra il 1939 e il 1941 si occupava di Hitler, non era di evitare la guerra, ma di preparare il publico e le élites politiche americane all’entrata in guerra. L’analogia però è interessante proprio perché rivela il nocciolo della questione: la trasformazione del rischio di una catastrofe in una opportunità politica: le guerre, come il cambiamento climatico, sono mali che, se non si possono evitare,  bisogna prepararsi ad affrontare nel migliore dei modi possibile – nel caso delle guerre, meglio vincerle che perderle.

La combinazione Greta + Covering Climate Now è vincente perchè unisce i due in un rapporto simbiotico che, in definitiva, rafforza il ruolo di entrambi. Se da un lato la spettacolarità dell’innocenza e determinazione di Greta aumentano l’audience del circo mediatico, dall’altro la visibilità e quindi il potere di Greta aumentano grazie alla visibilità dei media. L’efficacia politica della combinazione Greta + Covering Climate Now è provata dal fatto che, in poco meno di un anno, ha mobilitato e organizzato generazioni di solito escluse dalla politica in un movimento globale senza precendenti, un potenziale politico che in pochi anni potrà esprimersi in sede elettorale e altrove.

Ma se Bill Moyers e i promotori del World Economic Forum si preparano a gestire la questione del cambiamento climatico come una guerra combattuta sul doppio fronte della mobilitazione politica e copertura mediatica, c’è da domandarsi: chi è il nemico?

Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro e capire in cosa consiste la spendibilità o funzione politica dei simulacri. In estrema sintesi, questa funzione è di rivelare e celare: rivelare una verità che il simulacro fa apparire auto-evidente e celare le contraddizioni o i paradossi che inevitabilmente si accompagnano a tutte le questioni umane più importanti. In campo religioso, per esempio, i simulacri rivelano al credente il potere spirituale della fede e celano il potere secolare del clero. In politica, la funzione principale dei simulacri è di rivelare un destino utopico (fausto) o distopico (nefasto) e di nascondere proprio il fatto che i destini dell’umanità non sono predeterminati ma dipendono, nel bene e nel male, dalla politica: la competizione che viene vinta non da chi ha ragione, ma da chi è (politicamente) più forte.

La funzione di Greta è dunque quella di rivelare un destino distopico (la distruzione del pianeta) ma di celare la competizione per il controllo delle misure da prendere per evitarlo e gli interessi e le strategie degli attori che partecipano in questa competizione. Questa funzione è sotto tutti gli aspetti, la funzione ideologica dei simulacri.

La competizione ideologica sul futuro del pianeta

Se il potere di Greta è quello di   un oggetto di valore simbolico capace di attivare lealtà, mobilitare passioni, inspirare comportamenti e sacrifici etc. per capirne la funzione strategica bisogna guardare al contesto ideologico e alle sfide che ne hanno ispirato la creazione, quest’anno, al World Economic Forum di Davos.

Come è noto, il World Economic Forum (“la casa dell’élite della globalizzazione”) raccoglie élites internazionali accomunate dall’ideologia del capitalismo internazionalista, l’ideologia che almeno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ma in maniera più aggressiva dalla fine della Guerra Fredda, ha promosso la globalizzazione come processo di diffusione planetaria dell’economia di mercato e di relativa omologazione politica e socio-culturale delle comunità locali.

Questa ideologia considera le frontiere un ostacolo alla libera circolazione delle merci e le politiche sociali dei governi nazionali un ostacolo inaccettabile al funzionamento del ‘libero mercato’. Almeno fin dagli anni Settanta, un aspetto centrale della strategia politica del capitalismo internazionale è stato quello di ridurre la partecipazione politica, trasformando questioni politiche in questioni tecniche, da gestire all’interno di un ristretto nucleo di specialisti. In questa prospettiva, la gestione della questione ambientale è emblematica della tendenza all’esautoramento della politica, e dei tentativi di gestire in maniera tecnocratica i problemi socio-politici più scottanti. (Per esempio in E. Swyngedouw, “The Antinomies of the Postpolitical: In Search of a Democratic Politics of Environmental Protection”. International Journal of Urban and Regional Research. 33 (3) 2009: 606).

Nonostante la sua visibilità, tuttavia, la questione ambientale è solo una delle arene politiche dove il capitalismo internazionale deve affrontare la sfida delle ideologie che, da direzioni diverse se non opposte, si oppongono alla diffusione globale dell’economia di mercato, ovvero populismo nazionalista e socialismo.

Il nazionalismo populista si oppone alla globalizzazione perché questo processo esautora la nazione e la politica fondata sui simboli e i miti della nazione, a vantaggio dell’utopia, i simboli e i miti del libero mercato. La forza politica del populismo, in questa opposizione, consiste nell’offrire il senso di appartenenza fondato su razza, lingua e religione come risposta all’incertezza prodotta dagli effetti delle globalizzazione sulla vita di coloro che non sono in condizioni di avvantaggiarsene – i ceti medio bassi e le fasce di emarginazione ed esclusione sociale.

La forza del nazionalismo populista sta quindi nella forza dei simboli e dei miti della nazione per mobilitare le masse escluse dai benefici della globalizzazione economica e vulnerabili ai suoi effetti politici, socio-economici e culturali. Il discorso di Trump alle Nazioni Unite, poi, più che rilevante per i contenuti ideologici, dimostra come questa ideologia sia uno strumento flessibile per gli interessi politici di personalità politiche opportuniste.

La violenta reazione del nazionalismo populista allo “spiegamento” di Greta da parte del capitalismo internazionalista (vedi Kate Connolly, “The Guardian, Germany’s AfD turns on Greta Thunberg as it embraces climate denial” e Aditya Chakrabortty, si spiega, a mio avviso, col fatto che con questa mossa il secondo è oggi in grado di mobilitare le masse in maniera altrettanto efficace del primo. Grazie a Greta, e all’apparato mediatico che si nutre e dà visibilità al personaggio, il capitalismo internazionale si sta creando una propria base politica trans-nazionale tra le generazioni che in pochi anni voteranno. Non solo, ma grazie alla rabbia di Greta, la questione ambientale diventa anche l’occasione per creare il conflitto generazionale necessario ad abbattere una volta per tutte il potere della tradizione e il valore politico della nazione, dei suoi miti e dei suoi simboli. Il rischio evidente di questa operazione è di sottovalutare la resistenza dei simboli nazionali e quindi che le generazioni di giovani escluse dai benefici della globalizzazione si mobilitino a loro volta in sostegno di questi simboli e di forme di nazionalismo radicali per difendere il futuro della nazione con toni altrettanto aggressivi di quelli usati da Greta per difendere il futuro del pianeta.

Per la sinistra, l’improvvisa passione ambientale del capitalismo internazionale non è credibile per almeno due ragioni. La prima, abbastanza ovvia, è che il capitalismo è una forma di produzione basata sul consumismo e il consumismo è la prima cause del deterioramento dell’ambiente. La seconda è che il consumismo, oltre a non essere sostenibile sul piano ambientale, è anche socialmente insostenibile e dannoso in quanto serve un sistema socio-economico che produce inugualianza, ingiustizia e quindi anche le paure e la rabbia di cui si nutrono i movimenti della destra nazional-populista.

Per la sinistra, per il pensiero socialista,  l’attivismo ambientalista dei miliardari è una mossa populista che cerca di affrontare i rischi sociali associati agli effetti del capitalismo internazionale (inuguaglianza sociale, nuove povertà, rinascita del nazionalismo, etc.). Da almeno un decennio (e soprattutto dalla publicazione del libro di Thomas Piketty  Thomas Piketty, Le Capital au XXIe siècle, Editions du Seuil, 2013, questo futuro desta apprensioni anche negli ambienti del capitalismo internazionale, come dimostrano la riscoperta di Karl Marx da parte di Christine Lagarde quando era a capo del FMI/IMF, e  l’idea di “capitalismo inclusivo”. (Sullo stesso tema, si veda anche, Dominic Rushe, “I re del capitalismo si stanno finalmente preoccupando del crescente divario tra ricchi e poveri”, The Guardian, 24 Aprile 2019).

Per l’ambientalismo di sinistra, Greta è essenzialmente una opportunità che conviene usare piuttosto che contrastare per almeno due motivi. Primo, perché serve a fermare l’avanzata politica della destra nazionalista e populista. Secondo, perché il potere di Greta si può usare anche per sfidare il capitalismo internazionalista sul terreno ambientalista. Un segnale che avvalora questa ipotesi sono i numerosi articoli comparsi su The Guardian, testata di sinistra che partecipa all’iniziativa Covering Climate Now.

Phil McDuff, per esempio, su The Guardian afferma che “per fermare il cambiamento climatico bisogna fermare il capitalismo” ma si chiede “Abbiamo lo stomaco per farlo?” 

Julian Brave NoiseCat, è ancora più esplicito: “No, le iniziative per il clima non si possono separare dalla giustizia sociale” (No, climate action cannot be separated from social justice”,  The Guardian 11 giugno 2019. )

In giugno, Kate Aronoff critica il ruolo dei miliardari nella lotta al cambiamento climatico in un articolo dal titolo provocatorio: “Il problema con i miliardari che lottano contro il cambiamento climatico? I miliardari”. Magnifico che i filantropi versino soldi per la causa ambientalista, scrive Aronoff, ma sarebbe ancora meglio per il pianeta se i miliardari non esistessero proprio.

Senza nominare Greta ma con un riferimento abbastanza esplicito ai contenuti dei suoi discorsi, Martin Lukacs osserva che la strategia di colpevolizzare gli individui è la strategia del Neoliberalismo e suggerisce di superare i nostri complessi di colpa ambientali e di unirci invece nella lotta contro il potere delle corporations (The Guardian, 17 luglio 2017)

A conferma della tesi di Aronoff e di Lukacs, lo scorso 17 settembre, Edward Helmore riporta che i giganti degli investimenti finanziarii di Wall street hanno votato contro risoluzioni chiave per il cambiamento climatico.

Due giorni dopo la tesi è rilanciata da George Monbiot che scrive che per salvare il pianeta dobbiamo mettere un limite alla ricchezza.

Declino inarrestabile? Il mutamento del clima sociale

Il potere di Greta, come quello di tutti i i simulacri, è polarizzante. Tra i suoi seguaci, da un lato, e i suoi oppositori dall’altro, non c’è più il cosiddetto ‘dialogo politico’: il confronto/scontro di idee e interessi diversi che, in democrazia, cerca di convincere per vincere. La genuina emotività di Greta, si trasmette all’ambiente politico del suo messaggio, avvelenandolo perché in politica le emozioni sono uno strumento per la manipolazione del consenso.

L’idea che Greta sia strumentalizzata fa sorridere perché è ingenua. I simulacri non hanno una esistenza indipendente dalle finalità di chi li crea. E il potere di Greta non è indipendente dalle forze che l’hanno creata come personaggio mediatico. Una volta creata, questa Greta viene continuamente promossa, attaccata, difesa e ricreata nella dimensione mediatica di un conflitto che non può risolversi con una mediazione a livello di principi.

L’aspetto preoccupante di questa vicenda non riguarda solo la Greta umana, quella per intenderci, sconosciuta ai più prima di Davos, ma tutte le giovani generazioni. La tendenza a coinvolgere i più giovani nella lotta politica dovrebbe destare apprensione negli adulti di orientamento democratico. Nella tradizione democratica, infatti, la partecipazione politica è un onore e onere della popolazione adulta, che si presume consapevole delle proprie scelte e capace di prendersene le responsabilità sul piano personale e collectivo.

Esposta come simulacro nell’agone politico, i limiti e i rischi del potere di Greta sono già evidenti.

Jochen Bittner punta il dito sui limiti del ruolo di Greta quando scrive che “pessimismo e allarmismo sono forse necessari ma non sufficienti”, che “sprecare la giovinezza nell’angoscia” certo non aiuta ad affrontare la crisi climatica e che, in definitiva “Greta Thunberg adesso ha la nostra attenzione. E allora?” …

Ancora più esplicito è Igor Ogorodnev, di RT, che scrive “Alcuni possono dire che è male attaccare una bambina. Ma l’adolescente ha usato apertamente la sua giovinezza per accusare noi adulti di ipotecare il suo futuro, e vuole per questo che prendiamo decisioni con implicazioni economiche per miliardi di adulti (quasi tutti più poveri di Thunberg) in maniera tale da diventare lei stesso un bersaglio politico legittimo”.

Sul piano della politica, piuttosto che un esempio, Greta rappresenta un pericoloso precedente. Come non aspettarsi, a breve, la comparsa di una Greta nazional-populista e magari anche una anarco-communista? Se le élites politiche di questo secolo e di varia estrazione ideologica non esitano a trasformare in un’arma gli adolescenti che leggi e cultura democratiche cercano ancora di proteggere dai rischi della vita adulta, come ci si può aspettare che le stesse élites abbiano veramente a cuore il futuro di questi giovani? Il ricordo va, per un verso, alla gioventù tedesca inquadrata nei reggimenti della Hitlerjugend e sacrificata nel ’45, quando ormai il progetto del Terzo Reich era sconfitto, e per un altro, alla Finlandia che, di fronte alla disfatta, esporta invece i propri figli in Svezia per proteggerne il futuro dalle sorti avverse dei propri genitori e della nazione stessa. Stessa catastrofe ma modi diversi di interpretare il ruolo della gioventù. Dovendo scegliere, io farei come i Finlandesi.

Il futuro della causa ambientalista dipenderà in ultima istanza dalla politica e dalle strategie adottate dagli attori in campo. Ma che ne sarà di Greta? Come reagirà questa adolescente onesta, ingenua, forse, ma integerrima come pochi, o probabilmente nessuno, tra gli adulti che incontra, e certamente convinta di quello che dice dal più profondo della sua giovane anima? Forse occorre riflettere sul fatto che il futuro dell’ambiente naturale e sociale dipende anche dalla capacità degli adulti di assicurare ai più giovani la possibilità di viversi in pace il proprio tempo: di crescere, di imparare a capire se stessi e il mondo, e di preparsi agli inevitabiliti compromessi e delusioni che la vita in generale, e la vita politica in particolare, non risparmiano.

Matteo Stocchetti è docente all’Università di Turku e all’Università di Helsinki, e Principal lecturer alla Arcada University of Applied Science.

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