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Al confine tra Finlandia e Svezia caccia all’untore

In questo periodo di pandemie mediatiche e virali, i frontalieri vengono attivamente scoraggiati dal continuare la loro normale vita di attraversatori impavidi di confine. Questo dipende senz’altro dalla Svezia, che, cocciuta, si ostina a non chiudere l’intera nazione per un virus, e porta avanti le sue politiche di diffusione controllata della malattia. Il capo epidemiologo Anders Tegnell è convinto di quello che sta facendo, e il governo del pur mediocre Löfven gli sta dando spago, forte anche dei sondaggi che premiano questa politica. Ecco quindi che quelli come chi scrive, che hanno fatto la scelta più o meno libera di lavorare nel lato oscuro di TornioHaparanda, sono oggetto di particolare attenzione, in quanto rischiano di diventare untori del resto della Lapponia.

Guardando le statistiche, sembra esserci un fondo di verità. Il dipartimento sanitario di Länsi-Pohja, che fa capo all’ospedale di Kemi (l’unico completamente privatizzato della Finlandia) ha cifre di contagio che sono seconde solo a quelle della regione di Uusimaa, dove ci sono stati indubbiamente molti contagi dovuti ai collegamenti internazionali aerei e marittimi. Verrebbe spontaneo incolpare i frontalieri, e invece pare che tutte le catene di infezione siano riconducibili a movimenti nazionali. Neanche una dalla Svezia – che delusione!

Eppure il fronte occidentale aveva fatto scomodare addirittura il primo ministro, che durante le conferenze stampa in cui annunciava prima lo stato di emergenza per un mese, e poi il suo prolungamento fino al 13 maggio, aveva menzionato sempre la volontà di ridurre il più possibile il traffico da e per la Svezia.

Secondo le statistiche pubblicate dai Rajavartiolaiset (guardie di frontiera) ci sono riusciti: il traffico di persone da e per la Svezia si è ridotto di oltre il 95% in questo periodo, sia attraverso il confine terrestre che via mare. Si era parlato a lungo anche della possibilità di chiudere il confine, ma questa azione avrebbe creato problemi non indifferenti al sistema scolastico e sanitario del Norrbotten: in alcuni ospedali oltre il 20% della forza lavoro è composta da frontalieri che vengono dalla Finlandia, e chiudere il confine avrebbe significato la chiusura di quelle strutture, o comunque una notevole riduzione della loro capacità di ricezione. Questa prospettiva scatenò le ire dei deputati eletti nel Norrbotten, che minacciarono la Finlandia di ripercussioni a lungo termine sulle relazioni tra i due stati nel caso in cui dovessero decidere di chiudere il confine. Il governo Marin ci pensò bene e tutto si risolse poi in un nulla di fatto: le misure già prese quando fu decretato lo stato di emergenza sono rimaste praticamente invariate, nonostante le paventate minacce di “tiukentamista”.

Quindi vediamo in pratica come si attraversa il confine. Anzitutto, bisogna avere una buona ragione lavorativa – gli acquisti di nuuska (snus, tabacco da fiuto) e vino in pacchi da 3 litri non figurano tra i motivi di stretta necessità elencati dal governo. Il rajavartiolainen di turno normalmente chiede il passaporto, il contratto di lavoro e una dichiarazione da parte del datore di lavoro che il frontaliero in questione è “välttämätön työntekijä”, cioè lavoratore indispensabile. Chi, come me, ha un’azienda di proprietà, può portare semplicemente un verbale di assemblea recente in cui risulti la percentuale delle sue quote e il suo ruolo.

Le domande fatte dai doganieri sono più o meno da sempre le stesse: Dove stai andando? Perché ci vai? Non puoi lavorare da casa? Torni in giornata? (davvero a volte non resta che piangere…). La maggioranza di loro, dopo qualche minuto, si convince che essendo il proprietario qualche volta in ufficio ci devo pur andare, e mi lascia passare. Fin qui tutto bene, i rajavartiolaiset della nostra epoca sono solitamente molto gentili e disponibili, e devo dire che le attese non superano mai qualche minuto.

È al ritorno, inaspettatamente, che le cose si fanno molto pù interessanti (o inquietanti). Dalla scorsa settimana, infatti, è stato introdotto nientemeno che un modulo di carta che tutti quelli che entrano in Finlandia devono riempire. Potete immaginare che con il mio passato di viaggiatore tra paesi del Medio Oriente, alla vista della carta mi si è acceso il cuore: solo il nuovo Coronavirus avrebbe potuto riportare un paese supertelematico, dove anche il denaro contante ormai gira pochissimo solo perché è fatto di carta, ai moduli da riempire a mano in dogana. Mi viene fornito un lapis temperatissimo, e vengo invitato ad accostare per facilitare il passaggio di chi è dietro. Chiedo se la cosa è nuova: mi rispondono che esiste da dopo Pasqua. Osservo il modulo prima di iniziare a compilarlo e chiedo: visto che qui ci sono tante informazioni sensibili, come vengono trattate? Ma mi viene data solo una risposta evasiva: samalla tavalla kuin aina, cioè come al solito.

Esamino con più attenzione il modulo: nella parte iniziale ci sono solo i dati personali: data, nome, cognome, codice fiscale, indirizzo, cittadinanza, numero di telefono e targa. E fin qui passi. Nella seconda parte si deve specificare dove siamo diretti: a casa, verso un altro punto di confine (TRANSIT, a lettere maiuscole), oppure un altro luogo da specificare. La quarta risposta è forse per i rifugiati: non ho un luogo dove vivere. Si deve poi indicare l’indirizzo del luogo dove si è diretti.

La terza parte riguarda il mezzo utilizzato per il viaggio: auto propria, taxi, autobus, qualcuno che ci viene a prendere, o altro. Se uno va a piedi o in bici come mia moglie presumiamo che debba scrivere altro.

La quarta parte contiene una sola domanda, un po’ più delicata: hai sintomi di malattie respiratorie e/o febbre? Sì o no. Già qui mi sono sentito abbastanza untore, ma non ho esitato a rispondere no nonostante sia afflitto da una settimana o giù di lì dalla mia solita allergia ai pollini.

Ma è alla fine del modulo che si trova la sorpresa più grande, per un paese libero come la Finlandia. Infatti, ti estorce un impegno (sitoudun) a fare una delle seguenti quattro cose: 1) andare subito a casa e stare 14 giorni in quarantena 2) andare subito a casa e stare in quarantena fino al prossimo viaggio di lavoro (se proprio si deve andare) 3) andare subito alla destinazione specificata sopra (se non è l’indirizzo di casa) e rimanervi per 14 giorni in quarantena 4) andare subito al posto di confine indicato e uscire dal paese.

Non ci sono alternative. L’untore non deve sgarrare. E se devo fare la spesa? Il rajavartiolainen mi risponde: non dovresti. Allora posso andare in Svezia a fare la spesa visto che lì è tutto libero? Non dovresti andarci a meno che tu non abbia un motivo di lavoro strettamente necessario. Quindi non per fare la spesa? No. E quindi chi non lo sa e firma questa roba che deve fare per non contravvenire agli impegni? Consigliamo di ordinare la spesa a domicilio o farla in Svezia la prossima volta che ci torni per una missione di lavoro inevitabile, risponde, apparentemente un po’ scocciato ma sempre gentile, il rajavartiolainen. E come verrà utilizzata questa informativa? Solo nel caso in cui tu sia sospettato di aver portato dei contagi, risponde il doganiere. Lo saluto e mi incammino verso casa.

Da frontalieri consumati come siamo noi, abituati a considerare Haaparanta come la strada accanto e luoghi come Tampere e Helsinki come paesi lontani ed esotici, usi al cambio di fuso orario e di valuta, tanto da riuscire a fare divisioni per 11 a mente, ci si sente davvero in colpa. C’è un motivo per cui abbiamo scelto di vivere qui, in una terra che si spopola inesorabilmente, da ambo i lati del confine.

Lasciateci pure ai margini di tutto: ve lo perdoneremo. Ricordatevi pure di noi solo quando dovrete portare i bambini al Castello di Neve o allo Zoo di Ranua: non ve ne faremo una colpa. Essere ai margini di tutto, in bilico tra due culture e due paesi così simili ma così diversi non ci dà fastidio, anzi oserei dire che ci piace, e non solo perché fa fico fare due volte il brindisi per Capodanno. Saremo ben felici di cadere nell’oblio fino alla prossima pandemia o crisi di rifugiati al confine. Ma non dateci dell’untore. Ne va della nostra dignità.

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