Ci sono date che ti svegliano la mattina presto e ti dicono senza ombra di dubbio “Era oggi!” Su questo sito abbiamo l’abitudine di ricordarne alcune, per ragioni di civiltà, a volte anche personali. L’una e l’altra congiurano in me nel ricordare quel 2 agosto da studente a Bologna. Quarant’anni fa, il luogo e il giorno della strage più sanguinosa della storia repubblicana. Strage fascista, ricorda la lapide posta sullo squarcio della stazione ferroviaria, ma di cui sono ancora ignoti i mandanti. Anche se, come ci ammoniva Pasolini, più o meno tutti dovremmo saperlo.
Col tempo il ricordo si fa selettivo, e ogni anno un particolare affiora alla memoria e si impone. Quest’anno la lettura dei giornali mi ha aiutato a fissare il ricordo di un grande uomo. Uno di quegli emiliani dai nomi impossibili, che dicono di un’identità civile più radicata di ogni credo. Agide Melloni, autista di autobus, uno che quel giorno non si sarebbe mai sognato di passare alla storia. Autista d’autobus, era di servizio sulla linea 37 che aveva una fermata in centrale.
«Ero a Ponte Galliera quando un autobus si fermò davanti a noi aprendo le porte. Il collega era agitato e ci disse solo: ”È saltata in aria la stazione”». All’inizio Melloni pensò si trattasse di una battuta. Cinquanta metri dopo capì che non era così e che la stazione era saltata in aria per davvero, portandosi con sé 85 vite. Essendo donatore di sangue, la prima cosa che fece fu di correre alla sede Avis, vicino al piazzale. «Visto che mi dissero che al momento non avevano bisogno e che comunque il mio contatto ce l’avevano, feci l’unica cosa che potevo fare: guidare un autobus».
I mezzi pubblici disponibili in quell’ora tragica erano tre, tra cui il suo 37, e partirono verso l’Ospedale Maggiore per portare i feriti. Al loro ritorno, Melloni, un vigile del fuoco e un tecnico dell’azienda di trasporti Atc pensarono di utilizzare il 37 per trasportare i morti. «Non ci fu una programmazione, agimmo e basta. Davanti a una tragedia del genere hai due possibilità: o ti tiri indietro o fai quello che puoi. E io ho fatto il mio mestiere». Vedendo che i feriti erano molti, sul momento si decise che fosse «obbligatorio destinare a loro le ambulanze», a chi era ancora vivo. «Era impossibile caricare le barelle», ricorda l’autista all’epoca trentunenne, «non passavano a causa del mancorrenti, le sbarre a cui ci si aggrappa per salire, così li tagliammo a mano, con la sega».
Da mattina alle 3 di notte Melloni continuò, sempre accompagnato da un poliziotto e da un infermiere e scortato, a trasportare i corpi verso gli obitori della città a bordo di quel 37, a cui dopo pochi viaggi vennero messi lenzuoli bianchi ai finestrini. Un’ultima forma di rispetto per quei morti.
Non possiamo fare molto, ma quarant’anni sono troppi per non dare un nome a quanti hanno tramato dietro la mano degli attentatori. Ci resta la memoria, possiamo farne buon uso, ma pensando ai sopravvissuti col loro carico di angoscia, pensando ai parenti delle vittime, ai troppi morti, non mi sento di dire “ho fatto il mio dovere” come Agide Melloni. In questo non sono solo.