Tomáš Boukal (1977-) è un etnologo del Dipartimento di Antropologia Sociale e Culturale dell’Università di Pardubice (Repubblica ceca). Le sue ricerche riguardano soprattutto le popolazioni indigene del Nord, in particolare il rapporto di cacciatori, pescatori e raccoglitori della taiga con l’ambiente circostante, il modo in cui si riflette non solo nel loro stile di vita e di sostentamento, ma anche nella loro cultura spirituale e nella loro religione.
Oltre ad essere autore di articoli e diverse monografie, ad esempio, Antropologia ecologica (Ekologická antropologie, 2013) e Il sentiero del bosco: i Mansi nella prospettiva dell‘antropologia ecologico-riflessiva (Cesta lesem: Mansové v perspektivě reflexivní ekologické antropologie, 2018), scrive anche prosa documentaristica, ed è proprio di questa che parleremo qui. La sua ultima opera La via dei morti (Cesta mrtvých, 2021), ha come sottotitolo “Vita e morte di Alexandr Nikolaevič, cacciatore della nazione Mansi”. Boukal ne fa un racconto molto toccante già nella prefazione:
Avevo un conoscente, forse potrei definirlo amico, un cacciatore della piccola nazione siberiana dei Mansi. Viveva nella parte alta del fiume Pelym, che nasce ai piedi dei monti Urali e scorre verso sud attraversando foreste e paludi. Fino a venti anni fa, sulle sue rive si ergevano gli insediamenti di diverse famiglie mansi, lontano dalla civiltà, in una terra che non serviva più a nessuno: gran parte della taiga, un tempo quasi infinita, era già stata disboscata. Gli enormi tronchi venivano caricati sulle ferrovie a scartamento ridotto che tagliavano la foresta, attraversando torrenti e fiumi su ponti di legno. Anche i campi penali e le colonie dove il regime sovietico imprigionava i taglialegna coatti si erano ormai svuotati, finendo per essere di nuovo inghiottiti dalla vegetazione e dagli alberi. E un po’ alla volta, anche gli abitanti originari della taiga, i Mansi, cacciatori e pescatori, scomparvero, morti ad uno ad uno, e alla fine rimase solo Alexandr, Sasha. Continuò a cacciare alci e orsi nelle foreste, e pesci, di cui il fiume abbondava; speravo che ci saremmo incontrati di nuovo.
Forse perché fu l’ultimo a lasciare quei territori di caccia ancestrali, vorrei raccontare di lui. Naturalmente, scrivendo della sua vita, dovrò scrivere anche della sua morte, così come di quella dei suoi parenti e conoscenti. La triste figura di Sasha è anche una guida all’atto finale dell’insediamento indigeno della regione locale. Il suo destino riflette la sfortunata storia dell’intera nazione Mansi, vittima sia dell’era sovietica sia della sua successiva scomparsa.
Nel descrivere la storia della vita di Sasha, ho attinto non solo al suo racconto, ma soprattutto ai ricordi delle persone che lo hanno conosciuto. Sfortunatamente, in molti casi queste informazioni erano solo abbozzate, ma nessuno dei motivi che qui riporto è completamente inventato. Ho cercato di attingere il più possibile ai miei appunti di quando vivevo nella foresta. Tuttavia, sono stato costretto ad approfondire alcuni passaggi sulla base della mia conoscenza della cultura mansi e della letteratura disponibile.
Sono andato per la prima volta nei luoghi abitati dai Mansi nell’inverno del 1999. Sasha era allora solo un diciottenne, ma già intraprendeva solitarie spedizioni di caccia di più giorni nella taiga circostante. Viveva nel piccolo insediamento di Urajpaul con i genitori, il fratello minore e anche lo zio Petr, al quale sono particolarmente grato per avermi introdotto alla cultura e alle tradizioni mansi.
Vidi Sasha l’ultima volta durante una breve visita al suo insediamento nella primavera del 2014. A quel tempo viveva lì da solo. Ben presto, dalle foreste uraliche mi giunse notizia che era finito in prigione. Calcolai che nel 2019 sarebbe potuto essere rimesso in libertà. Andai perciò a trovarlo a Pelym, ma arrivai circa quattro mesi troppo tardi…
La via dei morti è un testo di particolare interesse non soltanto per la documentazione in prosa del destino del protagonista, ma anche perché la narrazione è arricchita da vari miti mansi raccolti dall’autore durante i suoi soggiorni nella Taiga. Ad esempio, quasi subito, a pag. 22, troviamo il mito delle origini.
La nascita della terra dei Mansi
[…] Ricordò la storia di zio Petr. Aveva spiegato a Sasha e a suo fratello minore Gavril come era nata questa terra, coperta da foreste e paludi. I Mansi si erano tramandati questa storia per generazioni. La consideravano sacra. Quando lo zio, con un’espressione grave, avvertiva la loro madre che, secondo la tradizione, le donne non dovevano assolutamente ascoltarla, loro ridevano sempre. Palina sfoderava un timido sorriso, ma poi non andava da nessuna parte. Lo zio iniziava comunque. Gli piaceva molto parlare. Sapeva tratteggiare un mondo di storie antiche, così che Sasha poteva davvero ‘vedere’ un’isola nelle acque infinite e su di essa due vecchi soli, ai quali sarebbe nato un figlio. Sotto forma di anatra, si tuffa nelle profondità infinite e risale con un po’ di terra nel becco. L’argilla che diventerà la loro terra.
Una piccola terra. C’è solo una casa. Vissero per molto o per poco tempo. Avevano un corvo bianco. Ebbe una vita lunga o breve, diventò completamente nero. Questo perché trovato un uomo morto da qualche parte ne mangiò la carne. Ebbero una vita lunga o breve, erano vecchi. A casa, il nonno dorme e Ekva topka, sua moglie, è alla porta. Dormì a lungo, dormì poco. Sua moglie diede alla luce un figlio. Quando il nonno si svegliò ed uscì, il figlio si trasformò in un uccello chiamato Luli.
“Perché sei uscito?”, gli chiede la moglie. “Ho partorito un figlio, tu hai guardato e lui si è trasformato in Luli.”
Cosa fare? Luli rimase a casa loro per qualche tempo.
Un giorno dice: “Allora, padre, madre. Non possiamo vivere su una terra simile. Cercherò di trovarne un’altra”.
“E come?”
“Abbiamo bisogno di una terra grande. Una terra dove far vivere gli animali. Perché io, Luli, dovrei viverci da solo?”
Si mise in viaggio. Andò. Camminò per molto o poco tempo. Lo guardarono fino a far lacrimare gli occhi. Ma non videro Luli. Improvvisamente egli saltò a terra.
“Ecco la nostra terra”, si fermò accanto alla casa. Sputò una volta, due, tre. Dice: “Padre, madre, chiudete gli occhi. Copritevi e dormite. Non guardate”.
Dormirono per molto o per poco tempo, si svegliarono. Si guardano intorno. Una terra sconfinata. Si rallegrano, ridono. “Dov’è Luli?”
“Perché vi guardate intorno, chi cercate? Noi viviamo su questa terra!”
Si guardano alle spalle, c’è un ragazzo, il loro figlio. Furono contenti. Lo baciarono. Riapparve come uomo. Era Luli, ma era diventato umano. Lo baciarono e vissero insieme.
Riguardo a questo mito, Boukal, in un altro scritto, nota: “Ho trascritto questo racconto nell’inverno del 2000-01 nelle foreste della Siberia nord-occidentale. Me lo raccontò Pjotr G. Kurikov. Resta per me, tuttavia, la questione se – date le molte storie che ho sentito da lui – la sua memoria non fosse più così efficiente, come cercava di convincermi. Probabilmente sapeva bene che, secondo gli etnografi, questo è uno dei miti mansi più importanti e si comportò di conseguenza. Fortunatamente, la storia della creazione della terra e degli esseri umani mi fu riferita da altri suoi colleghi, in versioni meno lacunose di questo fondamentale mito cosmogonico.
Il mito dell’origine della terra era considerato sacro e raccontato nel rispetto di certe formalità. Il narratore sedeva in un angolo della casa, gli ascoltatori di fronte. Sul tavolo doveva esserci un coltello, e nell’angolo che nascondeva oggetti religiosi sacri si accendeva la chaga (una sostanza legnosa fatta di betulla). Quando la narrazione arrivava ad un punto cruciale, alle donne veniva chiesto di lasciare la stanza. Sembra che lo facessero senza protestare.
Anche se nel nostro caso questa è solo una forma molto semplificata del mito, tuttavia contiene il motivo di base della terra che viene portata dal fondo delle acque. Nel mito mansi, a fare ciò è Luli, un uccello acquatico (forse una strolaga, gavia). Lo stesso mito lo troviamo nella tradizione degli Nganasan, i cacciatori di renne che abitano la penisola di Taimyr:
All’inizio c’era solo acqua. Gli Nguo si riunirono, e dissero: “Bisogna cercare la terra. Cosa fare?” Invitarono una strolaga e le dissero: “Trova la terra”. La strolaga scomparve nell’acqua. Rimase lì a lungo, poi disse: “Ho esaurito le forze, non ho trovato nulla”. Si riposò e scomparve di nuovo – portando l’erba e la terra.
La via dei morti è un testo di particolare sensibilità, che tenta tra l’altro di metterci in guardia dalle politiche che hanno portato i Mansi sull’orlo dell’estinzione.
(Foto di Tomáš Boukal, che ringraziamo per i diritti di riproduzione)