Con largo anticipo sull’invasione dell’Ucraina, la scrittrice finlandese Sofi Oksanen è intervenuta con un lungo articoricorreslo su “Ilta-Sanomat” dal titolo “Immaginatevi un’Europa finlandizzata” in cui pronosticava quel che sarebbe successo ma partendo da una visione della cosiddetta “finlandizzazione” tutt’altro che strategica e occhiuta, per dire invece che si è trattato di un modello che la Russia di Putin ha intenzione di estendere ai paesi confinanti. Nell’articolo ricorda le compromissioni anche del mondo culturale nei confronti della potenza sovietica e poi russa.
Poi è arrivato l’attacco militare all’Ucraina, i bombardamenti sulla popolazione civile, le minacce ai paesi confinanti. E la scrittrice finno-estone non ha perso l’occasione di dire la sua, come sempre fuori del coro. L’autrice de La purga, Le vacche di Stalin, trova i legami profondi che legano la Russia di Putin a quella di Stalin. L’articolo è apparso su “Helsingin Sanomat“, e noi lo presentiamo in italiano ai nostri lettori con l’autorizzazione dell’autrice.
Vladimir Putin non è pazzo, e speculare sul tema fa solo perdere di vista l’essenziale
“Vladimir Putin non ha perso il senno. Possiamo escludere che abbia un cancro al cervello nonostante i dubbi avanzati negli ultimi tempi; sulla stampa abbiamo visto psichiatri e psicologi da salotto commentare il suo stato di salute mentale. Le diverse ipotesi avanzate non fanno che distogliere l’attenzione dalla sostanza: le azioni di questo tiranno, giudicate dal punto di vista della Russia, non sono che l’espressione di una logica continuità.
Nei media russi la vicenda dell’Ucraina acquista, agli occhi del pubblico, un senso ben preciso. Per i telegiornali le truppe stanno liberando il paese dal giogo nazista e salvando gli abitanti del Donbass dal genocidio perpetrato dagli ucraini. Secondo l’organizzazione russa indipendente Levada il 68% dei russi giudica positivamente l’operazione, e chi la penserebbe in modo diverso quando c’è la convinzione che i propri ragazzi siano impegnati in una causa così nobile. La maggior parte della popolazione si informa seguendo canali controllati dallo stato. Nei paesi occidentali le motivazioni dell’intervento risultano totalmente irrazionali, in Ucraina non è avvenuto il genocidio di cui si è fatto cenno e il presidente Zelens’kyj, scelto dal popolo in libere elezioni, ha origini ebraiche. Per il diritto internazionale non vi è alcun elemento che possa giustificare l’aggressione.
Ma certe favole a me non risultano affatto ignote, perché la generazione di mia madre e dei miei nonni, vissuta in Unione Sovietica, si è trovata costantemente a farci i conti. Per la mia famiglia conviverci è stato un enorme problema: i miei parenti sono ed erano estoni. Quando, dopo l’occupazione sovietica, sono state trasferite nel paese masse di gente provenienti da diverse zone della Russia, i nuovi arrivati usavano apostrofare come fascista chiunque fosse del posto – la parola era semplicemente sinonimo di “estone”. Nel mondo sovietico gli estoni venivano stigmatizzati come banditi e nazionalisti, esattamente come gli ucraini oggi secondo i media russi. Se le autorità, la scuola, i canali di informazione e la giustizia ripetono le stesse bugie di generazione in generazione, esse diventano una verità collettivamente accettata. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica la Russia non ha mai fatto i conti con il proprio passato come, ad esempio, la Germania, e certi antichi preconcetti sono rimasti in vita. Rivitalizzarli per sostenere l’immagine di un nemico che possa essere utile alla guerra di Putin è stato un gioco da ragazzi. Allo stesso fine è servita anche la manipolazione della memoria dell’olocausto.
Mi sono trovata davanti questa stessa strategia nel 2007 allorquando l’Estonia è diventata l’obiettivo di un’operazione di così detta guerra ibrida. Per coloro che, come me, hanno trattato la vicenda storica dell’occupazione dell’Estonia, trovare nella rete i propri nomi accompagnati dall’epiteto di nazista o fascista era la norma e, nelle frequenti manifestazioni pubbliche, i seguaci di Putin tenevano in mano cartelli con le fotografie delle nostre facce corredate con svastiche e simboli delle SS. In Finlandia i putinisti hanno festeggiato la fine dell’indipendenza dell’Estonia, negato le deportazioni del periodo sovietico e organizzato iniziative di protesta contro l’Estonia. Oltre a un’attiva presenza nei social media, hanno pubblicato libri, promosso dibattiti e, nelle immagini utilizzate, hanno fatto continuo ricorso a elementi caratterizzanti dell’olocausto, filo spinato e baracche. Il risultato di tale campagna è stata la diffusione globale di una serie di falsità su presunte forme di apartheid in Estonia. In tutti i loro forum di discussione veniva ripetuto il messaggio secondo cui, in Estonia, venivano costruiti campi di concentramento per i russofoni.
Quando il giornalismo estone e finlandese ha cominciato a considerare inaccettabile la demagogia di quelle allusioni, costoro hanno continuato la loro attività di propaganda rilasciando dichiarazioni ai media russi. Sulle prime quella massa di menzogne ha avuto spazio anche sui nostri canali di informazione: nei paesi occidentali le campagne di disinformazione della Russia erano ancora un fenomeno sconosciuto e la narrazione sovietica del nuovo millennio era per i finlandesi un fenomeno ancora da scoprire. L’attività dei putinisti non ha peraltro subito condanne nonostante confutare i massacri e le deportazioni di massa degli estoni sia di fatto paragonabile al negazionismo dell’olocausto e il nazismo non appartenga affatto all’eredità ideologica dell’Estonia. Quello della prima repubblica d’Estonia fu un periodo di tranquillità per la minoranza ebraica ma, nel periodo tra il primo e il secondo insediamento dell’Armata Rossa (1941-1944) il paese dovette subire l’occupazione della Germania nazista. Norvegia, Danimarca e Francia sono gli unici paesi occupati dai tedeschi i cui cittadini, nella Russia di Putin, non vengono abitualmente bollati come fascisti.
Con il banco di prova degli Stati Baltici la Russia ha saggiato la reazione dei paesi occidentali constatando che il ricorso al genocidio per scopi politici suscitava preoccupazione solo tra coloro i quali avevano le proprie radici nell’Europa orientale. Non c’è quindi da stupirsi che Putin considerasse efficaci tali strategie manipolatorie anche nel caso dell’Ucraina del 2022. Attraverso il proprio atteggiamento d’indifferenza i paesi occidentali hanno tacitamente suggerito a Putin che la retorica caratteristica della Russia fosse tutto sommato un fatto tollerabile. Alla fine di febbraio l’Ucraina si è rivolta alla Corte Penale Internazionale affinché fosse impedito alla Russia di ricorrere alla manipolazione della memoria dell’olocausto per giustificare l’invasione del paese.
In Occidente le sistematiche distorsioni della Russia possono far ridere qualcuno ma i miei parenti non hanno goduto di questo privilegio: in Unione Sovietica contestare le bugie di stato era un crimine, esattamente come oggi nella Russia di Putin. Nell’URSS il nazionalismo era considerato un fenomeno controrivoluzionario e, come tale, oggetto di severa condanna. Chi si macchiava di questo crimine poteva finire in ospedale psichiatrico con una diagnosi di schizofrenia incipiente. Per essere ricoverati e rinchiusi bastava sostenere l’indipendenza degli stati liquidati, utilizzare simboli quali la bandiera, criticare la legittimità dell’occupazione sovietica o la diffusione di fatti storici taciute come il patto Molotov-Ribbentrop. L’unica forma di patriottismo consentita era l’amore verso l’Unione Sovietica. Nella propaganda di Putin il senso nazionale degli ucraini verso lo stato, la lingua e l’indipendenza del paese costituisce una malattia dalla quale si può guarire solo grazie al messia Putin, diventando così un sano membro della grande famiglia slava.
Per la Russia di Putin definire gli ucraini nazionalisti è un argomento della massima importanza perché, per le orecchie dei russi, la parola ha lo stesso suono negativo del neonazismo presso i paesi nordici. Con il lessico della calunnia si spoglia il popolo-oggetto della propria umanità: eliminarlo diventa pertanto più facile, le case rase al suolo o l’occupazione di un paese non sono più una questione morale bensì il risultato di un obiettivo che merita di essere perseguito. Il seme della persecuzione germoglia nella subalternità e disumanizzazione di un determinato gruppo sociale.
Echi della segregazione etnica degli ucraini si trovano anche nel passato dell’impero. Lo scrittore Nikolaj Gogol’, nato in una famiglia ucraina, dovette combattere per guadagnare il rispetto dei suoi colleghi russi. Quasi due secoli dopo, le domande poste da un amico giornalista ucraino in alcune conferenze stampa in Russia sono state definite stupidaggini laddove le stesse frasi, uscite dalla bocca di un occidentale, avevano ricevuto grandi elogi. L’eradicazione del razzismo non è comunque mai stato uno dei compiti della Russia che, al riguardo, non ha una tradizione propria. L’Unione Sovietica era ufficialmente antirazzista: il razzismo riguarda solo gli Stati Uniti. Nella guerra in corso la posizione d’inferiorità che il “popolo eletto” attribuisce agli ucraini ha in realtà giocato a loro favore: nessuno credeva che sarebbero stati capaci di opporre resistenza all’invasione. La realtà sta dimostrando il contrario.
La missione di redenzione messianica di epoca bizantina della Russia è stata ereditata dall’Unione Sovietica, che ha giustificato l’occupazione degli stati baltici affermando di liberarli dai lacci dei fascisti, anche se il destino della regione era già segnato dal Trattato Molotov-Ribbentrop. Il mito della liberazione rafforzò anche l’aggressione militare al confine finlandese nel 1939. Nella Guerra d’Inverno, la Finlandia doveva essere “liberata dall’oppressione dei conquistatori fascisti bianchi”.
La stessa liturgia di liberazione viene sfruttata dalla Russia di Putin, che segue le dottrine di guerra di Stalin. Secondo Stalin, una guerra legittima non mira alla conquista, ma alla liberazione. In Unione Sovietica, a scuola si giustificava così generazione dopo generazione l’aggressione e l’occupazione di un paese. Negli anni ’90, l’istruzione ha avuto momenti di apertura, ma nell’era di Putin è stata ricondotta sul terreno del patriottismo e la politica ha inasprito la sua presa sulla storia. Mettere in discussione la versione ufficiale della Grande Guerra Patriottica è criminale.
All’inizio di marzo, la Duma ha deliberato quello che si può scrivere sulle ostilità in Ucraina. L’uso delle parole guerra o aggressione può comportare una pena detentiva di quindici anni. I media devono utilizzare solo fonti ufficiali.
In Unione Sovietica, i programmi scolastici e il trattamento del passato erano sistematicamente omologati in tutta la federazione. Il repertorio della propaganda veniva costantemente aggiornato e i bambini porgevano omaggi floreali ai rappresentanti dell’esercito sovietico un decennio dopo l’altro. Quando la Russia ha strappato la penisola di Crimea all’Ucraina, il Paese di Putin era pieno di fotografie dello stesso genere. Non c’è da stupirsi che Putin si aspettasse un’accoglienza simile dall’Ucraina, e qui, spinto dalla macchina propagandistica, è caduto vittima delle sue stesse bugie. Questo è esattamente ciò che accade quando gli dai retta abbastanza a lungo e non hai familiarità con altre fonti.
Il flusso di informazioni online era abbastanza libero prima della guerra. E tuttavia non ha inciso abbastanza nella percezione dell’Ucraina da parte dei russi. La generazione più giovane utilizzava Internet come principale fonte di notizie, ma secondo l’istituto di ricerca Levada, le parole scelte nelle domande a risposta aperta erano le stesse indipendentemente dall’età dell’intervistato. Perché le giovani generazioni, che avevano accesso all’informazione gratuita prima della guerra, non sembravano mettere in discussione la propaganda di Stato?
Se la ricerca di informazioni è pericolosa e mettere in discussione le percezioni dominanti comporta problemi, solo i genitori più coraggiosi possono incoraggiare i figli a porre domande su argomenti inappropriati. Quando la scuola segue la linea dello stato, questo compito viene lasciato solo alla dimensione domestica.
La nozione occidentale di verità non è una cosa ovvia in un paese in cui lo stato ha adottato un sistema concettuale sovietico sui fatti. Le dottrine del marxismo-leninismo non riconoscevano la verità oggettiva o assoluta. Tutti sapevano esattamente che le elezioni sovietiche non erano libere. Tuttavia, i risultati di quelle elezioni venivano trattati come dei fatti.
Quindi alla maggior parte delle persone è sufficiente che la giustificazione della guerra suoni familiare e corrisponda a ciò che il pubblico vuole sentire: Putin ripristinerà la gloria passata della Russia e allo stesso tempo salverà qualche sfortunato paese occidentale dai cattivi.
La Russia ha ripetuto questa grande narrazione in varie forme da quando Putin ha iniziato a prendere il controllo dei media nei primi giorni del suo governo. La stampa e l’istruzione più libere degli anni ’90 sono un’anomalia nella storia russa, un’eccezione, poiché il paese è stato autoritario da un secolo all’altro.
Lo Zar aveva sempre ragione e l’opposizione finiva nei campi di lavoro o in esilio.
Alla base delle storie dell’identità russa ci sono ricostruzioni storiche stratificate. La loro decostruzione non basta per staccare la presa di Putin, poiché i valori e le strutture di potere di un intero Stato non dipendono da un unico leader. Senza un loro cambiamento, la Russia continuerà le sue attività espansionistiche. Si potrebbe evitarlo se la Russia potesse fare i conti con i crimini causati dal suo colonialismo. Ma Stalin è diventato una superstar nel paese e le sue violazioni dei diritti umani in Russia sono viste come un problema da una minoranza sempre più piccola.
Se pensassimo a quanto tempo e in che misura il mondo occidentale ha fatto i conti col suo passato coloniale, sarebbe più facile capire la portata di un progetto simile per la Russia. È più probabile che la stessa Federazione Russa si disintegri prima che un futuro del genere sia possibile.”
(Traduzione di Nicola Rainò)