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Tanti auguri, Antti!

Primo ottobre, è il compleanno di Antti Tuuri, nato nel 1944 a Kauhava, Ostrobotnia meridionale, autore tra i più prolifici di Finlandia (una quarantina di romanzi pubblicati, molti dei quali tradotti in ventiquattro lingue, oltre a novelle, sceneggiature e soggetti per documentari), traduttore delle saghe islandesi e rigorosa, autorevole penna della sua terra natale, l’Ostrobotnia cui ha dedicato opere apprezzate e celebrate come Pohjanmaa (“Ostrobotnia” 1982), Talvisota (“Guerra d’inverno” 1984) e la trilogia Rukajärven tiellä (“Sulla via di Rukajärvi“  1990 – 1992). Da poco ha pubblicato una raccolta di racconti di mare e di costa, intitolati Yksinpurjehdus Hankoniemen ympäri.

Nel 2017 il pubblico italiano ha conosciuto Antti Tuuri attraverso un’opera piuttosto eccentrica nella produzione dell’autore, il dittico Gli Alchimisti, pubblicato dalla casa editrice viterbese Vocifuoriscena (Gli Alchimisti I – Un amore terreno e Gli Alchimisti II – Le nozze celesti), un’oscura e intrigante vicenda che, nello scenario della Finlandia gustaviana, vede il nobile August Nordenskiöld e il suo assistente, Carl Bergklint, due opposte incarnazioni dell’utopismo teosofico, alla disperata ricerca della fabbricazione dell’oro per liberare l’umanità dalla tirannia del denaro.

L’anno scorso la stessa casa editrice ha pubblicato La via eterna (Ikitie 2011), romanzo da cui è stato tratto l’omonimo film diretto da Antti-Jussi Annila e prodotto da Ilkka Matila, presentato a Roma nel 2018 in occasione del Nordic film fest. Nel libro l’autore ha condensato accortamente una grossa fetta dei temi centrali delle opere precedenti: l’immigrazione finlandese, il cortocircuito tra la questione etnica e le ideologie del Novecento, le utopie infrante e l’umana disillusione, affrontando una delle vicende più laceranti e meno conosciute della storia recente, il tragico destino degli immigrati finlandesi negli Stati e Uniti e in Canada, convocati da Lenin e poi da Stalin nella nascente Repubblica di Carelia per costruire il “paradiso dei lavoratori” e spento nel sangue con l’inizio del terrore staliniano allorché i compagni volontari di Finlandia sono improvvisamente diventati una minaccia per l’Unione Sovietica. L’autore ha preso spunto da una fonte orale, la testimonianza del figlio di un piccolo proprietario terriero di Kauhava che, emigrato in America prima della guerra civile, una volta ritornato in Finlandia si è avvicinatosi al movimento operaio e, rifiutatosi di prendere le armi per combattere a Tampere al fianco dei bianchi, ha per anni portato il marchio infamante di nemico della patria prima di venire accompagnato al confine e spedito “dai suoi simili”, in Unione Sovietica.

Il protagonista del romanzo, Jussi Ketola (personaggio centrale nei romanzi “Grattacieli”, Taivaanraapijat 2005 e “Il vetturino dei defunti”, Kylmien kyytimies 2007) è la quintessenza dell’ “homo tuurens”, un diligente, eradicato figlio dell’Ostrobotnia per i cui ideali di pace ed eguaglianza non sembra esserci posto in alcuna società possibile perché, a differenza dei compagni conterranei con i quali, nel kolchoz, è chiamato a costruire il sogno socialista, non è arrivato oltre confine per propria scelta ma, prelevato a casa nel cuore della notte, come il “vero Jussi”, Nestor Saarimäki, è stato espulso con la forza da una squadra del Lapua, il movimento fascista del suo paese.

Proponiamo ai lettori un toccante estratto del libro, il capitolo 8 della sezione “Grande collera”, la deportazione dei lavoratori del kolchoz Argento in una caserma di Petrozavodsk prima di venire giustiziati sotto i pini del bosco di Krasny Bor.  

Nel 1997 un archeologo di Petrozavodsk, Yuri Dmitriev, ha scoperto le fosse comuni di Krasny Bor e Sandarmoh nelle quali erano seppelliti i corpo dei volontari finlandesi giustiziati e, con l’aiuto delle autorità finlandesi, ha tentato di identificare le salme. Nel 2016 è iniziato per l’attivista ed esponente dell’associazione Memorial un calvario giudiziario per sospetta detenzione di materiale pedopornografico e possesso illegale di armi, accuse su cui molti osservatori internazionali hanno posto legittimi dubbi. Per maggiori approfondimenti suggeriamo di consultare il sito di The Dmitriev affair.

Pjotr Belov, Belomorkanal, 1985

“Grande collera”

Cercai di vedere dove ci stessero portando, ma era troppo buio e non conoscevo tutti i quartieri di Petroskoi. Capii che i camion erano diretti a quella che, una volta, era la caserma delle brigate di Carelia e del battaglione di Petroskoi: ricordavo che, due anni prima, le brigate erano state sostituite con la Divisione di Fanteria di Jaroslav’.

Il camion si fermò e fece manovra davanti a una costruzione di mattoni, forse un magazzino: ci ordinarono di scendere. Era buio, nella caserma c’era solo qualche flebile lampada accesa. Soldati in uniforme, le armi in mano, erano disposti su due file; dal camion all’ingresso, ci fecero passare in mezzo fino al magazzino. Vidi gli altri camion partiti dall’”Argento” ma non potevo fermarmi per capire se stessero mandando nello stesso edificio anche le donne e i bambini.

All’interno c’era un corridoio, le pareti erano assi di legno con porte che davano su spazi divisi del magazzino. I soldati fecero cenno coi fucili di entrare nella prima stanza. Portavano uniformi e distintivi che non avevo mai visto prima.

Il locale era completamente buio, le finestre coperte; chiusero la porta, non vidi più niente. Rimasi in piedi con la stessa posizione delle gambe che avevo quando la porta si era chiusa e non mi mossi. Qualcuno premette sul mio fianco, chiese scusa, mi schiacciò i piedi e si spostò di lato. Riconobbi la voce di Hill. Allungai la mano, riuscii ad afferrarlo, gli suggerii di non muoversi.

Più lontano nell’oscurità, Eino Helm disse che ognuno doveva pronunciare il proprio nome per sapere chi c’era lì dentro, prima che qualcuno rispondesse si spalancò la porta e vidi le persone schiacciate contro le pareti, alcuni sistemati sul davanzale della finestra in uno spazio privo di mobili.

Qualcuno era seduto con le spalle contro il muro, dal corridoio altri venivano cacciati dentro. Lo spazio era talmente pieno che nessun altro poteva sedersi sul pavimento: Eino Helm pregò quelli già seduti di alzarsi.

Mi spostai verso la parete per lasciare spazio agli ultimi entrati. Hill era vicino a me, disse a bassa voce che non dovevamo preoccuparci: la legge, in Unione Sovietica, prevede che nessuna condanna possa essere applicata prima che ogni singolo caso venga esaminato dal tribunale che emetterà la sentenza. Avevamo la coscienza pulita, non eravamo spie e non avevamo commesso nessuno dei crimini contro i quali, in Carelia, era in corso una dura repressione.

Pjotr Belov, Gli occhi della moglie, 1988

La porta si chiuse di nuovo e tornò il buio. Sentii che portavano persone nelle altre stanze. Gli occhi si abituavano all’oscurità, cominciavo a vedere le figure intorno a me.

Eino Helm si mise in testa che bisognava organizzare la gente assiepata. Ordinò di tenere libero lo spazio vicino alle pareti, sistemò gli uomini al centro della stanza e dispose quelli più all’esterno, in modo che tenessero le spalle verso il muro. Chiese nuovamente i nomi di tutti e domandò se ci fossero persone che non appartenevano all’”Argento”. Qualcuno rispose, Helm ordinò di fare un censimento generale, con un po’ di sforzo riuscimmo a contare cinquantotto uomini.

Qualcuno dell’Argento doveva essere finito in un’altra stanza: non sapevamo dove avessero messo le donne e i bambini. Pauli morto, Ira e Mary trascinate via, quegli accadimenti avevano generato in me un senso di diffuso ribrezzo; non riuscivo a capire perché, in quel momento, Helm sentisse il bisogno di mettere le persone sedute contro le pareti e di spiegare che quelli già seduti dovevano prendere per mano quelli in piedi e farli sedere accanto a loro affinché potessimo sistemarci tutti per terra. Rimasi in piedi, sentii alcuni contestare Helm: erano già seduti ma non portavano via meno spazio di quelli in piedi. Qualcuno disse a Hill di smetterla con quella smania di organizzare lo spazio, tanto entro poco sarebbe arrivato Kallonen coi soldati: seduti o in piedi non faceva differenza, piuttosto bisognava chiedere un secchio per i bisogni, se avessimo dovuto aspettare; non eravamo a una serata di gala coi posti assegnati, esclamarono.

Tentai anch’io di sedermi, mi abbassai e incrociai le gambe, ma non c’era spazio e mi rimisi in piedi. Il pensiero di mio figlio steso sulla ghiaia mi si parò violentemente davanti agli occhi, mi sentii male, ebbi un conato e dovetti trattenere il vomito. Gli uomini accanto chiesero un secchio e mi pregarono di non vomitare in quello spazio stretto. Nell’oscurità si sentivano le imprecazioni di quelli seduti che venivano calpestati da chi era ancora in piedi. Helm si schiacciò contro la porta e chiese un secchio in russo e in finlandese ma dovette urlare a lungo prima che aprissero e buttassero dentro due secchi. Chiese se qualcuno stesse male e pregò che si avvicinasse alla porta. Ero riuscito a trattenere la nausea, non avevo più bisogno del secchio.

P. Belov, Mani sulla città, 1986

Era l’alba, la luce cominciava a filtrare attraverso le finestre oscurate. Non so quanto tempo eravamo rimasti in quella stanza, aprirono la porta e ci fecero uscire nel corridoio. La luce del giorno filtrata dalle finestre colpì i miei occhi abituati all’oscurità. I soldati erano in fila di fianco alla parete, le armi puntate.

Nel corridoio c’eravamo solo noi, dalle altre stanze non era uscito nessuno; riuscimmo a formare una fila pressoché regolare. Entrò un ufficiale che non avevamo visto prima insieme a due sottufficiali, rimasero un istante all’ingresso. Si avvicinò, aveva una Nagant M1895 in mano. Passò in rassegna la fila, ci guardò dritti in volto e disse in russo a ognuno: «Farabutto».

I sottufficiali lo seguivano, anche loro con la pistola in mano. Arrivato alla fine della fila, l’ufficiale tornò indietro, si fermò a metà del corridoio, fece un gesto con la mano per far capire che bisognava cominciare da lì e disse qualcosa in russo che non capii. I soldati mandarono avanti metà della fila, noialtri fummo ricacciati nella stanza di prima.

C’era spazio per metterci distesi, aspettammo tutta la mattina. Non riuscivo a dormire, sentivo i rumori dal corridoio, le persone fatte uscire dalle altre stanze e riportate dentro. Udii voci di donne, mi avvicinai alla porta ma non riuscii a capire se c’era anche Ira.

Laitinen era disteso di fianco a me, la ferita non sanguinava più ma il dolore era acuto. Era ormai certo che fosse il nostro ultimo giorno. Nella stanza c’erano ancora Helm e Hill, discutevano sui tempi della giustizia in Unione Sovietica tentando di capire quanto ci avrebbero tenuti dentro prima di portarci in tribunale. Parlavano così animatamente che qualcuno li pregò di fare silenzio: oramai tutti avevano capito come funziona la legge in quel Paese.

Il pomeriggio si accese la lampada, un soldato lasciò una pentola con della zuppa e portò via i secchi pieni.

Non ci diede cucchiai né piatti, solo un mestolo di legno che dovevamo passarci. Dopo il primo giro rimase della zuppa, qualcuno affondò ancora il mestolo. Non riuscivo a mangiare e non feci la fila che Helm gestiva con precisione davanti alla pentola.

Aspettavo che qualcuno venisse a spiegarmi per quale motivo avevano ucciso mio figlio e perché ci avevano portati a Petroskoi e chiusi in quella stanza, ma, fino alla sera, successe solo che il soldato tornò per portare via la pentola e il mestolo e lasciare due secchi vuoti.

(pp. 293-297)

(La foto del titolo è ripresa da wikipedia. Per le altre immagini siamo pronti a rispondere dei diritti di riproduzione)

La via eterna

Trad. it. di Marcello Ganassini

Vocifuoriscena, Viterbo 2019

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