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Pajtim Statovci: scrittore tra Kosovo, Finlandia e Italia. Intervista su identità e nazionalismo

Pajtim Statovci, Otava,

Scrittore finlandese, di origini kosovare, Pajtim Statovci si sta imponendo all’attenzione della critica internazionale. Ha pubblicato finora tre romanzi, e il secondo (Le transizioni) è in uscita in Italia nelle edizioni Sellerio. Dalla terra d’origine, il Kosovo, prendono le mosse personaggi giovani, animati da un forte senso di ribellione, privi di ideologie e in cerca di una loro via. Per qualcuno di loro, una via qualsiasi, purché lontano da quella “discarica d’Europa”. Passando da un paese all’altro, Bujar, il protagonista delle Transizioni, cambia continuamente identità, cambia genere, ruba l’identità altrui, è una creatura inquieta e proteiforme, smaniosamente in cerca di una sua collocazione, sempre difficile. Anche per il peso di un passato che non l’abbandona mai. I mostri della sua personale mitologia, apparentemente fantasie innocenti delle fiabe dell’infanzia, si incarnano in quelli ben più minacciosi della realtà. Non meraviglia che, parlando dei suoi modelli letterari, citi in primo luogo Bulgakov, Il maestro e Margherita, ma anche Toni Morrison e Isabel Allende, e tra i finlandesi, parli di una ammirazione “immensa” per Olli Jalonen e soprattutto Sofi Oksanen (cui lo legano, mi pare, anche aspetti strutturali dei suoi romanzi).

Gli abbiamo rivolto qualche domanda sulla sua idea di letteratura, sulle motivazioni che lo spingono a scrivere, sulle caratteristiche dei suoi personaggi, e sul rapporto tra vita e opere.

Le tue storie spesso toccano toni epici: alte montagne da scalare, mari aperti da attraversare, mete da raggiungere a rischio della vita. Traspare un fascino antico di leggende e miti. È così? Da dove ti viene questa ispirazione?

Io sono convinto che gran parte dei libri abbiano a che fare con la ricerca di pace e appartenenza, e la sopravvivenza, a volte anche a rischio di vita.
Il mio background, essendo di etnia albanese, emigrato dal Kosovo in Finlandia all’età di due anni, ha avuto un impatto enorme sulla mia scrittura. La mia storia personale è il motivo per cui scrivo di pregiudizio, migrazione, diversità, poiché anch’io sono stato vittima del razzismo. I miti e le leggende albanesi erano molto presenti nella mia infanzia.

Quando ero giovane, mi hanno raccontato storie che i miei genitori avevano ascoltato a loro volta da bambini. Queste storie celebravano la grandezza di una nazione, raccontavano una storia ricca di eroi potenti, di donne di inconcepibile compassione, divinità e creature simili a Dio. Era come se quelle storie cercassero disperatamente di rendere immortali i loro protagonisti, dare un ritratto di un territorio magnifico, e una descrizione di persone ugualmente magnifiche, quasi a fornire la migliore versione possibile di quel mondo a un pubblico che non aveva ancora familiarità con esso. Nelle mie Transizioni [titolo originario Tiranan sydän, “Il cuore di Tirana”], questi racconti popolari fondono e reggono il tema dell’identità, che non è mai statica ma in continua evoluzione. Come sempre con il folklore, chi racconta la storia spesso la modifica, come il mio protagonista.

Cambiare paese, cambiare pelle, cambiare lingua e genere. Il mondo che metti in scena si trasforma costantemente. Non hai l’aria di un convinto nazionalista.

È così. Reagisco e mi rapporto a storie che esplorano questioni di identità e nazionalità, e questo forse perché io stesso non ho un chiaro concetto di identità nazionale. Cosa significa essere finlandesi? O italiani? Quanto tempo si deve vivere in Finlandia per essere considerati finlandesi? Quanto devi conoscere una lingua affinché diventi una lingua madre? Mi è stato chiesto della mia “finnicità” e della mia “albanesità” tante di quelle volte che ormai non lo so più e nemmeno mi interessa ad essere sincero se io sia considerato finlandese o albanese, e quale definizione o nazionalità mi attribuiscano i media, cosa dice il mio passaporto finlandese, perché il mio rapporto con la Finlandia e il Kosovo è e rimane quello di nessun’altra persona con il suo paese o i suoi paesi. Il modo in cui siamo collegati al nostro genere, alla nazionalità, al retroterra religioso, ecc. è sempre unico e distintivo.
Le etichette (di etnia, sessualità, religione) sono sempre difficili perché le persone usano parole come “gay” o “rifugiato” o “cattolico” o “americano”, cercando di includere grandi masse. In un certo senso, è come cercare di spiegare o definire un’esistenza comune o un’esperienza generale, in una parola. Oltre che impossibile, è anche un po’ scorretto e ridicolo, perché arrogandoci il diritto di dire, ad esempio, “Questo è il mio amico gay”, stiamo invadendo lo spazio personale di qualcuno, sottraendogli il diritto alla sua storia personale, alla esperienza della sua sessualità, alla sua libertà di esistere. Nazionalità, genere, sessualità sono questioni così complesse e astratte che nemmeno gli specialisti riescono a comprenderle appieno.

Nei tuoi libri il passato e il presente dell’Albania e del Kosovo non mancano mai. Non credi che la vita di questi territori sia ancora ignota al resto dell’Europa?

Penso che, nel complesso, la vita in questi paesi non è stata sufficientemente rappresentata in campo artistico, questo è certo. Ma ci tengo a sottolineare che con il mio lavoro non sto cercando di “colmare un vuoto” o “rappresentare” nessuno. Il mio unico intento è di scrivere su ciò che sento che vicino, su ciò che mi interessa e attrae.
Al giorno d’oggi, gli scrittori si trovano ad affrontare questioni tali per cui si chiedono se abbiano il diritto di raccontare, dal momento che le storie raccontate hanno un’eco diffusa, una risonanza che a volte va al di là  dell’invenzione letteraria. Sono soprattutto gli scrittori che non vengono dal mondo occidentale e scrivono dei luoghi di provenienza a condividere questa preoccupazione, almeno nella mia esperienza; come vengono lette le loro opere di narrativa, quanto il pubblico sia portato a generalizzare su un dato paese, su una cultura, a partire dal testo prodotto.

Anch’io sento di essere diventato una specie di portavoce degli “immigrati albanesi” quando ho pubblicato il mio primo libro. Le riviste hanno scritto articoli su di me e sul mio romanzo con titoli come: “Vivere la Finlandia attraverso gli occhi di un immigrato”, “Ecco cosa significa essere straniero in Finlandia”, “Per un immigrato la Finlandia è fredda e razzista”. Una volta mi è stato persino consigliato di non scrivere sulla guerra in Kosovo perché la mia famiglia era fuggita dal mio paese d’origine e io non l’avevo sperimentata di persona. Inutile dire che, anche se non ero in Kosovo durante la guerra, ciò non significa che non abbia influenzato la mia esistenza. E come se lo ha fatto. Per quanto ne so, in maniera drammatica.

Nel corso della mia breve carriera di scrittore, diversi giornalisti mi hanno posto domande su migrazione, razzismo, nazionalità e situazione in Medio Oriente. Ascoltare queste domande è piuttosto frustrante, perché so che mi vengono poste solo per via del mio background, perché una volta ero un profugo anch’io. E ciò mi rattrista molto, perché essere uno straniero non ti rende un esperto di culture e migrazioni. Non lo fa scrivere una storia su una famiglia albanese che chiede asilo in Finlandia.
Tutto ciò è conseguenza dello stesso problema, fondamentalmente, di come uno scrittore venga visto come rappresentante del mondo in cui ha ambientato le sue storie. Per me, la creazione letteraria è uno scenario in cui ambientare una questione che mi preoccupa, mi pesa, e mi frustra. Non racconto una storia per spiegare niente a nessuno, per fornire al mio pubblico una chiave di lettura. Quello che posso dare è una storia, una storia in mezzo a milioni e milioni di altre storie, e i miei personaggi sono personaggi miei, le loro storie sono storie scritte da me senza eccezioni, e queste persone, e le loro origini, hanno diritto a questo punto di vista.

La nave “Vlora” al molo di levante di Bari, 8 agosto 1991

L’Italia è molto presente nei tuoi romanzi. Per alcuni dei tuoi personaggi è una meta da raggiungere, la salvezza, ma è anche un posto ambiguo, a volte pieno di minacce. Qual è la tua idea oggi dell’Italia, ancora un posto da sognare, oppure te ne sei fatto un’immagine più realistica?

Per i due adolescenti albanesi delle Transizioni, i ragazzi che lasciano tutto, la loro casa e la famiglia, inseguendo il sogno di una vita migliore, l’Italia rappresenta il nuovo inizio che si auspicano in un paese occidentale. Una delle frasi più significative del libro, secondo me, è questa: “L’Europa era la nostra America”. Quindi i due ragazzi si sono innamorati di questa idea, spesso molto falsa, che la vita in un paese occidentale sia automaticamente migliore della vita al di fuori dell’Occidente. Il desiderio di “scappare” / “raggiungere l’Occidente” è ancora molto comune nel mondo di oggi.

Racconti di migrazioni drammatiche dai Balcani. Dall’inizio del decennio 1990 l’Italia è stata raggiunta da profughi albanesi e kosovari in grande numero. Ma non abbiamo scrittori italiani che abbiano scritto pagine memorabilia su questa tragedia decennale. Come ti spieghi questa distrazione?

Confesso che la cosa mi sorprende, poiché, come dici tu, si tratta di una storia tragica e di lungo periodo che ha avuto conseguenze immense sui destini di tanta gente. Anche perché si tratta di eventi accaduti al confine con l’Italia, e sono parte integrante della sua storia moderna…

Nei tuoi testi c’è una grande presenza di simboli, anche se dopo il primo romanzo si nota una certa rarefazione. Si tratta di una scelta consapevole o di una evoluzione naturale del tuo stile?

Non so se ci sia una diminuzione dei rimandi simbolici, oppure se oggi sto utilizzando il simbolismo animale in maniera diversa rispetto agli esordi. L’ispirazione mi è venuta da un ambito di ricerca detto degli “Studi animalisti” che ho conosciuto studiando letterature comparate all’Università di Helsinki (e che è oggi il tema del mio dottorato di ricerca.) Questo filone di ricerche indaga in che modo gli animali siano “alienati” dagli umani. Noi collochiamo gli animali in contesti alieni, come le opere letterarie, dove vengono interpretati attraverso l’occhio umano, ad esempio come simboli di esseri umani o di caratteristiche umane. Lo facciamo ripetutamente, anche se non abbiamo idea di cosa sia essere un animale. Questa è la differenza tra “animal others” e altri “reietti culturali” della società. Poiché gli animali non possono difendersi allo stesso modo degli altri “diversi” (come le minoranze etniche o religiose) o condividere un comune sistema di comunicazione, l’atto di “rubare una voce” è molto più complesso e molto più immorale. Leggere gli animali come nostri simboli è un modo per sminuirli, e viola il loro diritto di rappresentare se stessi, il loro diritto a non essere interpretati rappresentanti della loro specie.

Volevo giocare con questa teoria nel mio primo romanzo [Kissani Jugoslavia, nell’edizione italiana “L’ultimo parallelo dell’anima”, ma il titolo originario significa “Il mio gatto Jugoslavia”] usando gatti e serpenti perché così volevo dire che non tutti sono in grado di difendersi o abbastanza forti da ribellarsi alla violenza, non tutti quelli che sono in grado di parlare riescono a farsi sentire.
Diversi paesi esaltano la loro potenza  scegliendo di essere rappresentati da animali in cima alla catena alimentare – aquile, leoni, bisonti, tigri e cavalli. A un certo punto del libro il protagonista Bekim dice: “Perché una cosa è dire di essere svedese o tedesco o inglese, altra cosa è dichiararsi turco o iraniano. La patria d’origine di una persona, tranne in pochi rari casi,  non è una questione banale.”
Il gatto nel mio romanzo Kissani Jugoslavia  interpreta diversi ruoli. Il suo mutare d’aspetto e la sua natura contraddittoria, spero, danno spazio a diverse interpretazioni e consentono approcci diversi.

Il gatto parlante è anche ciò che spinge Bekim a crescere. Inizialmente Bekim lascia che il gatto gli stia accanto anche se è molto irrispettoso e offensivo nei confronti delle persone che lo circondano. Il gatto può dire e fare tutto ciò che vuole, commettere abusi e insultarlo come gli pare. Il gatto occupa il suo appartamento e lo aggredisce, e Bekim gli permette di farlo perché ha una forma di razzismo interiorizzato e pensa di meritarselo. O forse questo accade perché Bekim sente che quell’attrazione, l’amore occasionale e il calore che riceve dal gatto significhino anche altro perché lui, un immigrato e un gay, rappresenta tutto ciò che il gatto odia. Forse Bekim pensa che l’amore di qualcuno come il gatto sia un tipo di amore diverso, più forte di qualsiasi altro amore e più potente perché questo amore ha attraversato confini e barriere. Forse pensa che se riesce a convincere uno del genere a concedergli amore e accoglienza, allora starà bene. Forse ha bisogno di sentire che è possibile, per le persone che pensano in modo simile al gatto, vederlo come qualcosa di più di un profugo o un gay, e innamorarsi di lui.

Tuttavia, anche se il gatto vuole essere percepito come detentore del potere, inizia presto a ingrassare e per di più a soffrire di depressione. Improvvisamente, dopo aver miseramente fallito nella vita, il gatto non vuole più uscire di casa perché pensa di avere un aspetto orribile e sgradevole, teme che la gente noti i suoi artigli lunghi e sporchi e il suo pelo unto. Inanella una serie di fallimenti, finché finisce per diventare chiaro il perché dei suoi comportamenti stravaganti: anche lui è un “diverso” e si sente escluso, alla fine è un animale che vive in un mondo di umani. Lui stesso discrimina perché ha paura di essere vittima di ciò che colpevolmente fa. Immagino che per le persone come il gatto sia più facile combattere le insicurezze e le pene dell’autodenigrazione costringendo le persone amate a provare le stesse sensazioni.

(foto da aamulehti.fi)

Spero di non essermi dilungato troppo. In sostanza, volevo continuare a usare simboli animali sia in Le transizioni che in Bolla, ma in maniera più sottile. Tutti i racconti popolari di Le transizioni, ad esempio, hanno un tema in comune: l’onore. Durante la loro educazione, i due ragazzi protagonisti – Bujar e Agim – ascoltano in continuazione storie di conquiste, di albanesi vittoriosi e trionfanti, mentre poi la realtà, con la caduta del comunismo, la povertà, la lotta quotidiana, è così lontana da ciò che le storie raccontavano che porta a una crisi dei protagonisti con la propria identità nazionale, seguita da un rifiuto totale di quella nazionalità perché ne provano vergogna, perché iniziano a soffrire di razzismo interiorizzato e odio per se stessi. Sono stati feriti in così tanti modi, che pensano che la cosa più saggia da fare sia creare storie alternative che li aiutino ad arrivare dove vogliono.

Col senno di poi, pare che lo scenario costruito in Albania e Kosovo nelle Transizioni costituisca una sorta di prova generale per l’ultimo romanzo, Bolla. Da dove ti è venuta l’ispirazione per quest’ultima opera? Che ricerche hai fatto?

Preparo la mia narrazione leggendo (narrativa e saggistica), facendo interviste, chiedendo in giro e viaggiando – niente di speciale. Ho lavorato al mio ultimo romanzo Bolla per oltre 8 anni, ma anche se ho scritto i miei tre libri in qualche misura contemporaneamente, ciascuno di loro è stato un progetto indipendente, molto diverso l’uno dall’altro. L’idea di Bolla mi è venuta in mente per la prima volta quando stavo scrivendo Kissani Jugoslavia, e mi sono ispirato al personaggio del padre, Bajram. Volevo esplorare una mente complessa e contraddittoria: un uomo le cui azioni – la violenza nei confronti di moglie e figli – sono molto difficili da capire e da accettare, facili da considerare “malvagie”.

Ma non credo che nessuno nasca malvagio. Le cose di rado sono semplicemente in bianco e nero. A volte le persone scivolano nel male, senza volerlo, per qualche accidente. Volevo mettermi alla prova scrivendo di un personaggio come questo: qualcuno intrappolato, chiuso, traumatizzato e coatto, e in un modo che non conduce necessariamente all’espiazione, o come dici tu, alla salvezza. Volevo scrivere della violenza direttamente, e senza alibi, perché la quantità di violenza nel mondo non si riduce ignorando quanta violenza ci sia. Inoltre, tutti conosciamo persone come Arsim – persone che sono così incapaci di esprimersi, che sono così distaccate dalle loro emozioni, che finiscono per ferire le persone intorno a loro.
In generale, il mio bisogno di capire le persone è sempre stato più grande del mio bisogno di giudicarle. Penso che sia per questo che sono uno scrittore, per questo ho scritto Bolla, anche se è stato il libro più difficile da scrivere.

Quali sono le tue abitudini di scrittore? Ti fai un piano prima di cominciare? Ti prefiggi un limite di pagine /ore ogni giorno? E quanto riscrivi in genere? Dove lavori di solito?
Scrivo solo quando ho voglia di farlo, quando sono ispirato, quando penso di avere qualcosa da dire. Non mi costringo mai a scrivere alcunché. Ci ho provato, a fare programmi giornalieri, fissare obiettivi, ma il risultato è qualcosa che non vale la pena di rileggere. Amo scrivere, mi dà pace e felicità e non vorrei mai sentirlo come una costrizione. È il mio mondo libero, dove posso sentirmi fiero e  coraggioso, dove non ho paura di dire ciò che voglio dire sulla gente, il mondo, la politica, l’umanità.

Faccio dei piani, ma spesso non mi attengo a questi piani. Direi che sono uno scrittore piuttosto caotico, tuttavia, in questo mio caos ci sono struttura e ordine, dato che in genere scrivo negli stessi ambienti: a casa, così come in alcuni caffè e biblioteche di Helsinki.

Scrivo principalmente la sera e di notte. C’è questa tranquillità, questa solitudine, che mi affascina. Essere completamente solo, sveglio a tarda notte, per qualche motivo mi dà modo di pensare, e ispirazione. Inoltre, durante la notte tutti dormono, quindi non devi preoccuparti di rispondere a e-mail o telefonate.

Che esperienze hai avuto col razzismo in Finlandia? Hai notato cambiamenti nel tempo? Hai mai avuto la sensazione che il tuo nome, diverso da un normale Matti Virtanen, abbia costituito un impedimento, creandoti problemi nonostante tu sia cresciuto in Finlandia? Oppure è stato un vantaggio, un marchio esotico, che ti è stato d’aiuto?
Mentre io crescevo, dopo che ci siamo stabiliti in Finlandia, la situazione in Kosovo è andata solo peggiorando, e molto presto bombardamenti, movimenti di truppe e omicidi erano le notizie di tutti i giorni. All’età di sette anni ho iniziato a frequentare una scuola finlandese e anche se non avevo ricordi della vita in Kosovo e ancor meno consapevolezza di ciò che stava accadendo lì, per i miei coetanei a scuola io ero la faccia della mia cultura.
I media insistevano col racconto di storie di albanesi oppressi, scrivendo di violenza e rivolte costanti, di persone costrette a lasciare le loro case, che avevano perso la famiglia, restando prive di ogni mezzo. Mi sono trovato a far fronte a domande su un mondo in balia di crudeltà e isteria.
Con mia sorpresa, queste domande non mi rattristavano. Né mi hanno fatto arrabbiare. Invece mi hanno fatto provare vergogna, facendomi sentire la necessità di desiderare un’altra nazionalità. Ricordo persino di aver chiesto a mia madre: Perché non ce la fanno a essere normali, come tutti noi? Piccolo com’ero, sentivo che queste notizie mi deprimevano, facevano sì che altre persone mi associassero alla guerra, facendomi vergognare di quella guerra, anche se io non c’entravo niente.

La mente di un bambino è fragile, così ho iniziato a vergognarmi del mio passato. Dopo un po’ ho anche iniziato a evitare conversazioni che riguardavano la mia lingua, la nazionalità e la cultura, e alla fine, capito quanto mi sentissi a disagio quando il mio paese d’origine veniva evocato, ho smesso del tutto di parlare la lingua albanese, fingendo che di botto l’avevo dimenticata. La mia lingua madre era diventata un segreto umiliante. Non era più una forza, un di più delle mie competenze linguistiche, ma una prova del fatto che ero diverso dagli altri. Questo è il motivo per cui odiavo che mi chiedessero di parlare albanese a scuola.
Crescendo, ho imparato che certe lingue sono più utili di altre, e ho imparato che i miei colleghi svedesi non erano immigrati. Ho capito che erano fratelli e sorelle che vivevano nella società finlandese, erano membri del “mondo civilizzato”. Laddove io, un albanese etnico, ero un membro di un altro mondo, un richiedente asilo, un profugo di guerra.
Il mio paese d’origine non era noto per la produzione di auto veloci, telefoni cellulari o componenti di aeroplani, e quando dicevo a qualcuno da dove venivo, invece che di interesse, ero spesso oggetto di pietà.
Non mi sono reso conto che stavo soffrendo di razzismo interiorizzato fino a quando ho iniziato a lavorare al mio primo romanzo. Mentre facevo le mie ricerche, leggendo di barbari atti di violenza, guardando immagini di cadaveri in fosse comuni, uomini ammazzati e lasciati decomporre sul ciglio della strada, provai vergogna per me stesso, ancora una volta, ma adesso in modo diverso.


Mi sono reso conto che era questo, e solo questo, queste storie e queste immagini, che mi avevano relegato nella negazione e nella vergogna. Queste immagini e queste storie associavano regolarmente criminalità, violenza e morte con il luogo delle mie origini. Instillandomi il bisogno di nasconderlo, di provare vergogna, anche per la mia lingua madre, facendomi credere che, essendo un rappresentante di una certa nazionalità, ero in qualche modo responsabile della sua storia.

Ora, non sono sicuro di come vadano le cose in Italia perché non conosco l’italiano, ma è molto allarmante ciò che sta succedendo oggi. Come quando si usano certe parole, quando si parla di costruire muri in modo che certe persone di certi paesi vengano tenute lontane.
Ad esempio, nell’autunno del 2015 i media finlandesi hanno parlato molto della gente in fuga dalla Siria. I media hanno usato frasi come “un diluvio di profughi”. Alcune metafore, associate a disastri e catastrofi naturali, vengono utilizzate – quasi scelte con cura – per intonarsi al modo in cui (evidentemente) si è autorizzati a parlare di rappresentanti di determinate religioni e culture, delle loro tragedie e dei luoghi da cui potrebbero venire. È il caso di chiedersi, se accadesse qualcosa di così tragico (come la guerra) in un paese occidentale, diciamo la Svezia, per esempio, in quel caso i media descriverebbero le persone che fuggono dal loro paese in toni simili?

In Le transizioni, diverse pagine raccontano come questo tipo di discorso influenza un individuo. Là dove è descritto il clima politico nei primi anni ’90, come cambiarono gli atteggiamenti degli italiani nei confronti degli albanesi immigrati. Mi sono sentito molto attratto da questi eventi anche se erano un po’ lontani da me, perché mi ci sentivo legato in tanti modi.
Quanto al sentimento di vergogna per il mio passato, poi … mi rattrista dire che condivido l’emozione con molti come me. È anche il punto di partenza di Le transizioni. I due ragazzi del libro, soffrendo dello stesso tipo di vergogna, passano tutta la vita cercando di liberarsene. Uno di loro lo fa rendendosi disponibile a fare qualsiasi cosa per non esserne vittima, fino a “perdere la faccia”, mentire su ogni dettaglio del suo passato, persino rubare la vita, le speranze e i sogni degli altri.

Hai già raggiunto notevoli risultati ad un’età così giovanile. Vincere il Premio Finlandia per la letteratura ti ha messo sotto pressione, ha cambiato i tuoi progetti? Cosa vedi davanti a te?

Questo riconoscimento vale tutto per me. Ne sono così onorato e commosso, ne terrò conto per il resto della mia vita. Per il futuro spero di sentirmi ispirato a scrivere, proprio come lo sono stato fino ad ora. Il mio quarto libro, se e quando comincerò a scriverlo, avrà ben poco a che vedere con i miei lavori precedenti. Sarà un mondo a parte. Saperlo, mi permette di non sentire  troppa pressione. Penso comunque che potrei esplorare modi di raccontare storie in altri modi, altri generi e scenari, come scrivere per le scene. Ma non lo so, il futuro è sempre un punto interrogativo.

Alla consegna del Premio Finlandia 2019 per il romanzo “Bolla”

La foto del titolo è tratta da uusimaa.fi

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