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Pelko

Vuol dire “paura”, e vibra incessantemente tra l’inquietudine (levottomuus) e il terrore (kauhu), producendo uno sciame di parole composte e scomposte, da pelkopotilas, “paziente fifone” a pelkuri, “vigliacco”, da linnunpelätin, “spaventapasseri” a peloton, “impavido” a veropelko, “fobia delle imposte” fino a curiosi cognomi (Pelkonen) e toponimi (Pelkosenniemi): un paesaggio emozionale da tremarella.

A pensarci bene in un paese coperto per l’86% da foreste buie e impenetrabili, l’unico modo per sopravvivere al timor panicus è riflettere su quanto l’uomo sia più spaventoso di ciò che lo circonda, come nel quadro di Hugo Simberg Pelko metsässä, “Paura nel bosco” (1896) nel quale, in una tetra abetaia, un orso nero fissa terrorizzato un’anziana donna che gli sorride beffarda come a dirgli “non ti mangio mica ..!”

In tempi in cui le nostre sane paure hanno ceduto il passo all’ansia suscitata da minacce invisibili, la proverbiale lucidità finlandese è uno strumento efficace per il controllo delle emozioni congenite: negli Helkavirsiä o Canti di Pentecoste di Eino Leino (1903) il giovane Tumma (“Oscuro”), tormentato da atavici sgomenti, viene mandato dalla madre alla tomba paterna perché, dal regno dei morti, gli sia suggerita una terapia. La buon’anima risponde “s’atterrivan pure gli avi, ma scorreva il loro tempo” (säikkyivät isätkin ennen, toki aikansa elivät) concludendo, ci sia concesso, in modo lapidario: “paura o non paura, credimi, si sta meglio lì da voi!” (m.g.)

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