Ricorre oggi il quindicesimo anniversario della scomparsa di Giorgio Colussi. Era nato a Gorizia, «una propaggine italiana non prevista da storia e geografia», il 31 dicembre 1933. Morì dopo una grave malattia in Finlandia il 16 dicembre 2006.
Italianista di fama internazionale, è stato lettore di italiano presso l’Università di Helsinki, ma è stato molte altre cose, per quanti, come me, hanno avuto la fortuna di conoscerlo.
Prima di tutto un uomo con un grande senso dell’umorismo. «Il nativo di quella provincia chiama se stesso furlan, e il vicino di casa sclaf. Io ero nato tutto italiano e avevo fatto anche in tempo a essere figlio della lupa e poi balilla; a contemplare la disfatta dell’8 settembre, a subire di giorno l’occupazione tedesca, e di notte le sparatorie tra tedeschi e partigiani… L’italiano lo imparai a scuola; e, a maturità raggiunta, me ne andai via.»
Le sue competenze linguistiche erano fuori del comune. Oltre allo sloveno della madre (Antonia Rejc) e al finlandese, conosceva il russo e lo svedese. Una curiosità soprattutto linguistica, ma non solo, lo aveva spinto in Scandinavia, dove poi avrebbe scoperto un mondo affascinante che lo avrebbe legato definitivamente. La Finlandia.
«La scoperta di questo paese è uno dei più bei ricordi di nostra vita: sul principio di una estate degli anni Cinquanta avevo cabotato tutta la Norvegia fin sul confine dell’allora Unione Sovietica; e di lì avevo puntato verso sud: ciò è a dire Lapponia. Ero dunque approdato in Finlandia con la ferma intenzione di scoprire la lingua e la cultura di quel paese. Una sensazione irripetibile: un continuum fonico che, anche dopo sezionamento e analisi, è impenetrabile al forestiero. Mi iscrivo all’università con l’intenzione, altrettanto ferma, di studiare fenno-ugristica. E qui prima doccia fredda: “Lingue ugro-finniche? Ma sei matto, ma se è difficile anche per noi”. Sono i momenti della vita in cui ci sarebbe bisogno di un consigliere: e io invece, mosca cieca».
Tauno Nurmela, il romanista dell’Università di Turku, gli procura qualche ora d’insegnamento di italiano in quella città – vi si recherà da pendolare dal 1959 al 1964 – e lo incoraggia quando decide di occuparsi di filologia romanza.
Si laurea nel 1961. Ma deve pur campare, e senza problemi dal 1961 al 1979 fa il commesso nella più grande libreria nel centro di Helsinki. È in quel periodo, nel 1975, che la sua vocazione di interprete italo-finlandese arriva alla notorietà della stampa quando fa da interprete tra Urho Kekkonen e Aldo Moro, ospite della capitale nordica nell’agosto di quell’anno in occasione del cosiddetto Atto finale di Helsinki.
Intanto si dedica agli studi di italianistica, e pubblica i suoi primi lavori scientifici, dedicati prevalentemente all’italiano antico. E insieme una serie di opere relative alla didattica dell’italiano in Finlandia, fra cui il dizionario Suomi-Italia-Suomi (Porvoo-Helsinki, 1964; ristampato nel 1968 da Vallardi), seguito nel 1978 dal Dizionario finlandese-italiano per studenti, compilato con la collaborazione della moglie Pirkko Wass, e dal Prontuario dei verbi italiani, opera innovativa che ha nutrito generazioni di studenti.
Nel 1975 diventa lettore d’italiano all’università di Helsinki e ne approfitta per approfondire le sue ricerche nel campo dell’italiano antico, che sfocerà nella compilazione del progetto di una vita: il GAVI (Glossario degli Antichi Volgari Italiani). Il primo volume è del 1983. Una lunga avventura intellettuale, che Giorgio Colussi seguirà fino alla fine, di cui si può trovare una ricostruzione attenta nella commemorazione autorevole fatta da Massimo Fanfani, professore dell’Università di Firenze e Accademico della Crusca, sulla rivista “Lingua nostra” ( Vol. LXIII, Fasc. 3-4, 2007)
Proprio il professor Fanfani ricorda, in quel suo scritto, l’episodio che avrebbe segnato negativamente la vita di Colussi. Un episodio accademico, dipanatosi fra il 1997 e il 1998, che lo ferì profondamente. «Da diverso tempo era prevista a Helsinki una cattedra di Filologia italiana, ma le cose erano state trascinate per le lunghe, tanto che il posto fu bandito quando Colussi era ormai alla soglia della pensione. Tuttavia il risultato del concorso, sebbene non fosse negativo per lui, venne beffardamente capovolto: uno smacco finale, da lui lucidamente previsto e affrontato a testa alta e poi narrato con una certa allegria – ma non per questo meno amaro – che si aggiungeva ai tanti altri della sua carriera.»
Un prezzo “troppo salato”, è stato ricordato, forse per l’unica colpa di essere stato «incontestabilmente l’italianista di maggiore esperienza, sapere e fama internazionale residente in Finlandia» (E. Garavelli, “Letteratura Italiana Antica”, 2008, pp. 469-70), in un Paese, ricordava Colussi non senza amarezza, in cui «da quarant’anni ormai [dal 1958] non v’è più ricordanza di filologia romanza. E quanto alla filologia italiana, provincia sottosviluppata della filologia romanza, peggio ancora: tra la performance giovanile di Tuulio-Tallgren e quella tardiva di Nurmela, non v’è proprio nulla che valga la pena di menzionare».
Gli si imputava, ricordo, non potendo far leva sui titoli accademici incontestabili anche fuori le mura, di avere un “cattivo carattere”. Ma chi così diceva, o non lo conosceva abbastanza, o ne conosceva fin troppo il valore, abbastanza per temere un confronto insostenibile.
Eppure le persone d’ingegno vivono anche oltre le Accademie (non è la cattedra, si sa, a dare una statura). Tanto per cominciare il GAVI, per quanto fermatosi “solo” a 44 tomi, per quanto inevitabilmente superato da opere più ampie e aggiornate, resta ancora per gli studiosi un valido strumento in sé fruibile: spesso indispensabile per quei lemmi che finora non sono stati trattati altrove.
Ma per una persona come Giorgio Colussi, al di là della fama dello studioso, restano i ricordi della persona. Resta il ricordo di una figura preziosa per quanti l’hanno conosciuto. I colleghi, soprattutto in Italia, che lo hanno apprezzato, da Firenze a Padova a Roma. Gli allievi, e dio sa quanti, che sotto la sua guida persino amorevole hanno conosciuto la lingua e la cultura italiana, apprezzando la scienza e la generosità del “propedeuta”, come amava definirsi.
Ma il ricordo di Giorgio resta, credo, soprattutto tra gli amici, che hanno in mente le invenzioni creative di una persona solo apparentemente ombrosa, in realtà capace di improvvise accensioni, uno che riuscì persino a trovarsi, proprio a casa sua, un doppio.
Sì, un altro Giorgio Colussi. Ho avuto la fortuna di conoscere questo suo omonimo, anche lui friulano, oggi ottantenne, che l’aveva incontrato per caso, e che aveva poi frequentato insieme con la famiglia.
Ripensando a quei loro incontri, mi ricorda l’Omonimo le volte in cui Giorgio passava il confine sloveno, da Nova Gorica andava in corriera per Tolmino, fino a Dolenja Trebuša, dove la madre possedeva una vecchia casa all’ombra di grandi noci, una casa circondata di fiori. Una stretta valle attraversata da un ruscello con un ponticello da attraversare. E le montagne attorno. Un idillio, poi perduto, che lo commuoveva al ricordarlo.
Gite, anche loro due soli, mi ricorda l’Omonimo, che era nato alle sorgenti dell’Isonzo, mentre l’altro era del basso corso del fiume. Eppure, l’amico linguista «non aveva mai visto l’estuario, finché una volta ce lo accompagnai. E lui, alla vista di quel confine tra fiume e mare, preso da ispirazione, senza dire una parola si svestì, e si calò nudo in acqua. E lo vidi sguazzare, felice, come avesse conquistato qualcosa».
Mi piace chiudere qui il ricordo di un amico, conosciuto troppo tardi, che proprio ai confini della scienza, delle accademie, delle culture, aveva trovato la sua acqua. Lì era a suo agio.
A quello di figli, colleghi, amici, aggiungo il mio rimpianto. Nicola