La crisi in atto tra Ucraina e Russia è, nelle ultime settimane, uno degli argomenti più sentiti in Finlandia, un Paese che condivide più di milletrecento chilometri di confine con la Russia, e che ha una storia secolare di conflitti, ma anche di intense relazioni economiche e culturali con Mosca. La recente serie di documentari sulla guerra fredda trasmessi dalla televisione di stato Yle, insieme alla nota del Cremlino mandata alla Finlandia a inizio febbraio 2022, hanno contribuito a riecheggiare quel periodo. Una nota del 1961 diede il nome alla “Noottikriisi“, un momento molto delicato della storia finlandese recente
In questo contesto, negli ultimi giorni si è parlato di “Finlandizzazione dell’Ucraina”, anche grazie a un articolo di Jason Horowitz: “Finns Don’t Wish ‘Finlandization’ on Ukraine (or Anyone)” pubblicato il 9 febbraio sul New York Times.
Per capire meglio gli effetti della finlandizzazione nella vita politica della Finlandia abbiamo chiesto a Liisa Liimatainen, nota giornalista e saggista finlandese, una sua testimonianza.
Abbiamo letto alcune sue dichiarazioni sul concetto di finlandizzazione, insieme a suoi ricordi concreti del periodo storico nel quale questa parola cominciò ad essere usata. Può raccontarci cosa si intende con questo termine?
Vorrei provare a spiegare come una finlandese con la mia storia vede il concetto di finlandizzazione, tornato oggi nel dibattito pubblico, dopo tanto tempo. Adesso si usa questa parola per parlare dell’Ucraina.
Non ricordo chi ha usato il concetto di finlandizzazione nel contesto attuale per la prima volta ma ricordo bene che fu il politico tedesco Franz Josef Strauss ad usarlo per denigrare la politica di Willy Brandt, leader dello SPD tedesco, quando questi cominciava a creare dei rapporti con la DDR, la Repubblica Democratica Tedesca, e con l’Est in generale in un’Europa in piena guerra fredda.
Strauss ammoniva che la Germania, sotto la guida di Brandt, sarebbe finita come la Finlandia: malissimo e sottomessa all’URSS.
Per noi finlandesi la politica che Strauss chiamava finlandizzazione voleva dire prima di tutto la politica di non svegliare l’orso che dorme. L’orso ovviamente era l’Unione Sovietica.
Spesso, quando si parla della situazione della Finlandia dopo la guerra, è evidente che molti non conoscono gli elementi della storia. Eravamo stati alleati con la Germania nazista – e non è proprio una bella storia – con le truppe tedesche ancora in Finlandia alla fine del conflitto. La Finlandia aveva perso la guerra con l’Unione Sovietica. Si era sull’orlo del precipizio, nel senso che molti non credevano che la Finlandia sarebbe potuta rimanere indipendente.
La soluzione fu quella tentare di mantenere l’indipendenza in una situazione difficilissima. Dovevamo praticare una politica di non provocazione con l’URSS, stare buoni, rispettare i suoi interessi. Per un Paese che ha perso la guerra ed è stato alleato coi nazisti era l’unica via. Si stava buoni, si accettavano i ricatti, ma ci si ricordava che c’era una finalità più alta: mantenere la Finlandia indipendente.
Voleva dire ripagare in pieno i danni di guerra (la Finlandia fu l’unico Paese a farlo), accettare che l’URSS prendesse in affitto la penisola di Porkkala, un territorio vicino a Helsinki, e rispettare tantissime altre norme per salvare la Finlandia. Nonostante avessimo perso i territori in Carelia e nel Nord, il mio Paese cominciava comunque la ricostruzione della società.
Ovviamente la finlandizzazione nella politica interna c’era davvero. Ho avuto l’occasione di vederlo con i miei occhi. Ero una militante della sinistra del Partito Socialdemocratico (SDP), nelle sue organizzazioni studentesche e giovanili. L’ambasciata sovietica era frequentata da tutti i partiti. I rappresentanti dei partiti finlandesi avevano, a mio parere, dei rapporti troppo confidenziali con l’ambasciata sovietica e i suoi funzionari.
Praticamente tutti i partiti, ma in particolare il Partito comunista finlandese e una parte della SKDL (Lega Democratica popolare) ma anche il Partito del Centro (ex-partito agrario) avevano rapporti molto intensi con l’ambasciata. L’SDP un po’ di meno perché la sua ala destra veniva vista con sospetto. Una parte del sindacato – dove i socialdemocratici erano forti – aveva accettato dei fondi americani che in quegli anni venivano distribuiti con grande generosità in tutta l’Europa.
Nell’estate 1968 a Sofia, in Bulgaria, aveva avuto luogo un evento enorme conosciuto con il nome il Festival della Gioventù, un evento organizzato e finanziato dai sovietici. Dalla Finlandia arrivò una delegazione di ben seicento partecipanti. Erano presenti addirittura anche le organizzazioni giovanili della Coalizione Nazionale, il nostro partito di destra. Anche loro accettavano perfettamente il quadro organizzativo gestito dai sovietici e dei loro alleati.
Ma nella nostra delegazione c’erano anche delle persone critiche della linea ufficiale. In quel festival, tra le altre delegazioni nazionali trovammo altri che la pensavano come noi. Con loro organizzammo degli eventi e delle manifestazioni fuori programma, fummo spesso ostacolati e spintonati da uomini muscolosi che noi chiamavamo “spontaneous Bulgarian workers“, gli operai spontanei bulgari. Questa attività fuori programma ufficiale era basata sulle nostra esperienze in Finlandia in quel periodo. Molti di noi avevano avuto esperienza della politica delle nuove idee della sinistra, che ha caratterizzato anche la Finlandia negli anni ’60.
Questo spirito si risvegliò subito quando, poco dopo essere rientrati da Sofia in Finlandia, durante la notte del 20 agosto 1968 arrivò la notiza dell’invasione della Cecoslovacchia da parte dei sovietici. Già la mattina successiva si organizzò una manifestazione davanti all’Ambasciata sovietica a Helsinki.
Ma bisognava considerare quello che io chiamo la “liturgia della finlandizzazione”, vuol dire rispettare certe regole, nel senso del rispetto dei sovietici. Abbiamo chiamato l’ambasciata sovietica e abbiamo chiesto un incontro, ottenendolo. Il risultato: c’era una grossa manifestazione davanti all’ambasciata sovietica ma fummo ricevuti dal quarto segretario dell’ambasciata. Io gli chiesi: “Perché avete occupato la Cecoslovacchia”? La risposta fu: “Per la minaccia dell’imperialismo tedesco”. Ovviamente sia quelli che ci avevano ricevuto che noi sapevamo che si trattava della pura liturgia della finlandizzazione. Ma la manifestazione davanti all’ambasciata era grossa e vera. Per noi finlandesi l’occupazione della Cecoslovacchia fu veramente molto spaventosa, si pensava “ora sarebbe toccato anche a noi?”
Racconto questi eventi dell’estate del ’68 per dire che la Finlandia era davvero finlandizzata. Nel senso che una buona parte della società aveva veramente perso la ragione e non si rendeva più conto fino a che punto eravamo finiti a fraternizzare con i sovietici. E una parte di questo comportamento era strumentale per avere dei vantaggi anche nella politica interna. In questo modo l’ambasciata sovietica aveva un ruolo molto grande nella politica interna finlandese. Questo dipendeva della complicità dei partiti, e delle persone in quei partiti, che volevano sfruttare le conoscenze nell’ambasciata e spesso contraccambiavano dei favori con pettegolezzi e informazioni su avversari politici.
Una generazione più anziana della Finlandia ricorda ancora il YYA (sopimus Ystävyydestä, Yhteistoiminnasta ja keskinäisestä Avunannosta – Trattato di Amicizia, Collaborazione e Aiuto reciproco), un accordo negoziato e firmato a Mosca il 6 aprile del 1948 dal primo ministro finlandese Mauno Pekkala e il viceprimoministro e il ministro degli Affari Esteri Vjatsheslav Molotov; ma presente alla firma c’era anche il capo supremo sovietico, Josef Stalin. Questo trattato pesava sul destino della Finlandia. Tra le altre cose, la Finlandia si impegnava a difendere il proprio Paese nel caso in cui fosse stata attaccata dalla Germania o da un suo alleato ma anche in caso che l’attacco fosse stato diretto contro l’Unione Sovietica attraverso la Finlandia. Se necessario l’URSS avrebbe aiutato la Finlandia a difendersi contro l’attacco ma le parti avrebbero dovuto concordare la misura e le modalità di questo aiuto.
Simili trattati furono firmati nel 1949 anche con dei paesi dell’Europa centrale e orientale che poi più tardi diventarono vere e proprie collaborazioni fisse. Alla fine questi Paesi, nel 1955, formarono il Patto di Varsavia, un’Alleanza in contrapposizione alla Nato.
Così la Finlandia dopo la secondo guerra mondiale era certamente stretta in un angolo, e rischiava il destino della Cecoslovacchia. In quella situazione noi finlandesi abbiamo saputo fare una politica sottile che ci ha salvato. Ma contemporaneamente abbiamo lasciato i sovietici infiltrarsi nella politica interna, e quello era sbagliato.
Comunque il bilancio generale è questo: abbiamo potuto salvaguardare una democrazia parlamentare, uno stato di diritto e un’economia di mercato. Ovviamente le imprese finlandesi hanno profittato largamente della situazione. Si dice che per un periodo una parte consistente dell’Unione Sovietica camminava con scarpe finlandesi ed erano vestiti con abiti finlandesi. Per la nostra economia era facile: un mercato non mercato che accetta una quantità enorme di prodotti standardizzati, che i sovietici compravano contenti perché erano di qualità migliori dei loro prodotti.
Questo per me era la finlandizzazione: una politica possibile in una situazione veramente difficile che ha funzionato, ma non priva di danni. I finlandesi hanno imparato ad autocensurarsi, a sorridere ai sovietici, hanno accettato molte cose, ma hanno salvaguardato l’essenziale: l’indipendenza.
E poi siamo entrati in Unione Europea e nell’euro. In quest’ultima scelta ci siamo comportati in un modo diverso dei due paesi nordici vicini, la Svezia e il Danimarca: loro sono entrati nell’UE ma non nell’euro. Forse la nostra scelta di entrare nell’euro raccontava ancora che noi sentivamo una necessità di segnalare in un modo forte che facciamo parte di una grande organizzazione, l’UE. Gli svedesi e i danesi non avevano questa necessità. Storicamente gli svedesi erano protetti anche dalla Finlandia. Il nostro vicino poteva permettersi il lusso della neutralità perché fra loro e l’Unione Sovietica c’eravamo noi, i finlandesi. Nello stesso modo il fatto che la Svezia era neutrale aiutava anche noi finlandesi a fare la scelta della politica di neutralità, anche se con un percorso storico diverso.
Non so dire se gli ucraini possono imparare qualche cosa della nostra storia: la storia dei finlandesi che hanno accettato la disciplina dura dopo la guerra di stare zitti, e lasciare i nostri leader di navigare in un percorso pieni di pericoli.
Questo metodo finlandese ha anche dei precedenti storici. Noi finlandesi e i polacchi eravamo entrambi sotto il dominio russo nel 1800. I polacchi si sono rivoltati, eroicamente. Johan Vilhelm Snellman lo disse subito: questa non è la nostra strada. I polacchi hanno fatto la rivolta e sono stati repressi, noi abbiamo avuto più tardi il primo suffragio universale in tutta l’Europa, mentre facevamo ancora parte della Russia degli Zar.
I russi questi diritti non li hanno ottenuti, il Granducato di Finlandia sì.
Dietro la finlandizzazione del dopoguerra c’è anche questa memoria storica: le rivolte non pagano, lunga pazienza e una politica di saper navigare in un mare pieno di scogli pericolosi forse sì.
Mi viene in mente il re dell’Afganistan rifiugato a Roma, Zahir Shah, che ho intervistato prima che lui ritornasse in Afganistan nel 2002. Mi disse che era felice di dare la sua prima intervista auna giornalista finlandese perché aveva molto rispetto per la capacità della Finlandia di cavarsela in una situazione difficile. I due Paesi, l’Afganistan e la Finlandia avevamo lunghe frontiere in comune con l’Unione Sovietica e prima ancora con la Russia ma secondo il Re Zahir la Finlandia aveva saputo gestire meglio che l’Afganistan la sua situazione.
Sicuramente la repressione di Budapest nel 1956 e poi della Primavera di Praga dell’agosto del 1968 da parte dell’Unione Sovietica furono vissuti in modo molto intenso in Finlandia ed ebbero degli effetti politici forti. Può raccontarci meglio come il concetto di finlandizzazione si esplicò in quella fase storica?
Vorrei tornare un attimo agli eventi legati all’occupazione della Cecoslovacchia nell’agosto 1968, per raccontare qualcos’altro di me e della posizione della Finlandia in quel periodo.
In quel periodo ero una militante nel Partito Socialdemocratico finlandese (SDP), nella sua organizzazione studentesca; ero coinvolta in numerose attività, per esempio organizzavo spesso delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Questo per dire che ero una persona conosciuta e dunque con un seguito non solo nello SDP. Facevo parte dell’ala sinistra del partico, e con altre persone seguivamo molto quello che succedeva nella nuova sinistra dell’Europa occidentale: una sinistra critica, non interessata al potere ma al dibattito su cosa é la sinistra in una società in forte cambiamento.
Ero anche la segretaria generale della Federazione delle Associazione degli Studenti per le Nazioni Unite. In questa veste andavo spesso a Ginevra per delle riunioni e conferenze. Proprio in aprile 1968 ero stata nella Conferenza mondiale delle Associazioni per le Nazioni Unite (WFUNA) a Ginevra con Paavo Lipponen, allora presidente della Federazione delle Associazioni per le Nazioni Unite (l’associazione degli “adulti”) e con la segretaria generale di quell’associazione, Hilkka Pietilä. Conoscevo Paavo Lipponen benissimo sia dal partito sia perché avevamo lavorato insieme nelle associazioni: lui faceva parte della generazione che le aveva fondate, io ero la leader della seconda generazione.
Questo per rendere l’idea che in Finlandia io ero contemporaneamente dentro le organizzazioni della società ufficiale ma anche dentro il movimento della contestazione degli anni ’60. Credo che questa caratteristica del ’68 finlandese è molto difficile da capire per gli italiani. Nello stesso autunno ’68 ci fu l’occupazione più significativa avvenuta in Finlandia: l’occupazione della Vecchia Casa degli Studenti al centro di Helsinki, cui partecipai anch’io.
Ma sento il bisogno di ampliare il contesto dei miei ricordi sugli eventi legati all’occupazione della Cecoslovacchia per inserire la manifestazione contro l’ambasciata sovietica in un contesto più largo.
Prima di andare all’Ambasciata sovietica ricevetti una telefonata di Paavo Lipponen. Diceva che era dal primo ministro Mauno Koivisto, anche lui socialdemocratico. MI passò Koivisto il quale mi chiese cosa stessimo organizzando. Io gli spiegai il nostro programma, compreso l’incontro con l’Ambasciata. Koivisto continuò: “Ti ricordi che abbiamo rapporti delicati con l’URSS?” Io risposi: “Certamente, ma bisogna reagire”. Non tentò di porre ostacoli.
Fummo ricevuti dal quarto segretario dell’ambasciata. Non il livello più alto, ma sempre un funzionario. Eravamo quattro persone, rappresentanti dell’organizzazione studentesca del SDP a Helsinki. Io ero vicepresidente di quell’organizzazione, c’era anche il presidente ed altri due membri del gruppo dirigente.
Io chiesi al quarto segretario dell’ambasciata sovietica: “Perché avete occupato la Cecoslovacchia?” La mia domanda era formale, non pretendeva una vera spiegazione, faceva parte della liturgia. La risposta fu anche molto formale: l’abbiamo fatto perché c’è la minaccia dell’imperialismo tedesco. Una volta conclusa la cerimonia (la liturgia), uscimmo dall’ambasciata. Davanti c’era tanta gente ma anche tanti giornalisti internazionali che volevano sapere cosa era successo dentro l’ambasciata. Io diedi interviste in inglese, francese e anche in svedese davanti all’ambasciata.
E poi cominciò la manifestazione. Abbiamo avuto piccoli confronti con la polizia che aveva il compito di difendere l’ambasciata, ma poca roba, importante era manifestare contro l’occupazione. Poi partì il corteo: inprima fila c’ero io ed altri che erano membri dell’organizzazione studentesca di Helsinki del SDP: tra cui Erkki Tuomioja (nella foto seguente terzo a destra), che allora era ancora molto giovane, attivo nell’organizzazione dei liceali.
Nelle nostre intenzioni era una manifestazione della sinistra contro l’occupazione della Cecoslovacchia. Per noi era importante che la sinistra reagisse perché in quei giorni la destra festeggiava. Per questo portavo in corteo la mia bellissima bandiera rossa presa da un muro a Sofia poco tempo prima. Andando verso Tehtaankatu ho traversato la Piazza del Senato con la bandiera rossa al vento.
Paavo Lipponen dice nelle sue memorie che senza quella manifestazione l’immagine della Finlandia sarebbe stata ancora più finlandizzata.
Sulla mia pagina Facebook molte persone hanno commentato – nel quarantesimo anniversario di quell’evento – che quella manifestazione fu una pietra miliare nella loro vita. Da ricordare che in seguito una parte importante della sinistra si innamorò di Brezhnev e nacque in Finlandia il fenomeno dei “taistolaisuus“, i comunisti che giuravano nel nome di Brezhnev. In quel corteo che si mosse da Tehtaankatu (la via dove ancora oggi si trova l’ambasciata russi) si delineò già una divisione della sinistra finlandese. I futuri taistolaiset marciavano già separati con i loro cartelli in favore dell’occupazione e dell’Unione Sovietica.
Spero che questa testimonianza personale aiuti a capire cos’era la sinistra finlandese in quel periodo della Finlandia finlandizzata. Io credo di essere stata l’unica abbonata alla rivista di Sartre Les Temps Modernes in tutta la Finlandia. Pertti Hynynen, un amico con cui facevamo molte attività politiche insieme in quel periodo, era abbonato alla New Left Review e alle riviste della nuova sinistra tedesca, in quel periodo del dopoguerra in cui fiorivano molte idee nuove.
Va ricordato che alla finlandizzazione si opponeva in quel periodo una parte della sinistra e l’estrema destra. Gli altri tacevano.