Askol’d Bažanov (1934-2012) è stato un poeta skolt sámi della penisola di Kola. Nato nel villaggio di Notozero, nella provincia di Murmansk, dopo la seconda guerra mondiale si trasferì a Leningrado per studiare presso il Dipartimento dei Popoli nordici, un settore speciale per le minoranze etniche creato sotto gli auspici dell’Università pedagogica statale di Gertsen.
Al ritorno a casa nelle terre storicamente Saami iniziò a scrivere poesie mentre lavorava come minatore, tecnico ferroviario, trattorista e pastore di renne. Le sue pubblicazioni più note includono Solntse nad tundroi (Il sole sulla tundra, 1983) e Belyi Olen’ (La renna bianca, 1996).
La poesia che qui presentiamo, tradotta dall’originale russo, offre la versione degli avvenimenti della guerra di Lapponia dal punto di vista di un abitante indigeno di quella penisola. Il motivo della fanciullezza perduta, che nel suo caso significò anche una perdita linguistica e delle tradizioni del suo popolo, si fonde con una diffusa miticità quotidianità, in un’espressione poco solare e piuttosto cupa della vita di ogni giorno.
Il fiore dell’infanzia
Poema epico
In un canto discreto della tundra,
recluso dal muschio di massi erratici,
sulla riva dell’ampio fiume
soltanto poche abitazioni,
erette chissà quando
da un artigiano sámi,
forgiate da possenti pini regali
impregnati di resina.
In questo margine settentrionale,
assopito nella vergine silenziosità,
fiabe e poemi mi portarono
più gioia di un giocattolo.
Ora oltre i monti cerulei
nella voltura granitica degli anni gelati,
scorgo sempre più spesso una radura
anche se da tempo svanita.
Tre decadi tra noi, a Nord
la ferita bellica non rimarginata,
l’estate trafitta da notti
luminose come sogni!
E poi il richiamo dei ricordi,
il fiume che ti battezza libero,
l’infanzia nel suo vestitino,
la distante invocazione.
E una volta lì, dimentichi
gli anni e l’amarezza delle avversità,
non più viva l’acqua
e pare non trattarsi di un miracolo.
E sia memoria un sentiero lacerato,
offuscato da una grandinata di giorni,
che mi conduce sempre a quella radura
chissà quanto reale!
A primavera monumentale il bosco,
la sua tenue fragranza di resina,
a serrarsi negli ingressi,
di lato, nelle canne.
E la foresta chiaramente non oltraggiata
dai colpi d’acciaio dell’ascia,
e le corride dei ragazzi,
protratte fino al mattino.
E neve e sole senza tramonto,
pioggia fredda e di nuovo neve.
La primavera polare portava ai piccoli
giochi e risate e divertimento.
A otto anni, in quell’epoca di eventi,
nessuno di noi poteva sapere
che nella nostra infanzia spensierata
l’ultimo di maggio con un tocco di primavera
avrebbe tramutato i nostri passi.
Che a giugno, luminoso e tenue,
sulla prima foglia indifesa
avrebbero soffiato i gelidi venti di guerra.
Gli esplosivi delle bombe
a squarciare l’azzurro del cielo,
i nostri padri al fronte morti
non prima di offrire riparo
con i loro corpi a noi figli, orfani!
L’avremmo capito troppo tardi,
maturando precocemente.
Diventammo duri con noi stessi
in quegli anni di gioventù spensierata.
Niente di nuovo da indossare:
a quell’epoca lo stile militare
era preferito alle novità alla moda.
Mi vantavo con tutti, perché ero felice
e contento che un soldato straniero
mi avesse donato la sua camicia.
Mi disse: “Indossala, figliolo, e ricordati
nonostante l’annosa sofferenza il nostro popolo
non è mai stato piegato
dalla ferocia disumana delle orde!”
E l’indossai davvero,
quel dono senza valore del soldato al fronte,
e ora posso confessarlo – mi andava grande.
E fui felice di seguire il consiglio del soldato.
Non l’ho svestita nemmeno per un’ora.
E ora eccomi qui su quello slargo
dove una quarantina di anni fa
sedetti alla trincea di quel soldato vero!
E mi sembra di sentirne ancora
il sereno tenore, e di scorgerne lo sguardo
gelido al pronunciare della parola
affettuosa – figliolo!
“Guarda, il cappello e gli stivali,
ti stanno proprio bene…
Ti calzano perfettamente… !
Sei proprio come mio figlio, Volodja,
lui ora farebbe la prima…”
Il soldato si zittì, e il suo sguardo
triste rivelò tanto, e non per caso
una lacrima amara mi solcò la guancia.
Peccato che avessimo otto anni, solo otto,
altrimenti avremmo accolto l’autunno al fronte.
Precipitandoci nel combattimento corpo a corpo,
forse la nostra ultima battaglia.
Proprio come i nostri padri
che non tornarono più a casa.
La guerra non seguì le regole dei nostri giochi,
solo sofferenza e fede a tenerci compagnia!
La memoria dell’uomo è infinita
e per l’intera vita non dimenticherò
la cucina della zemljanka, fredda,
durante il giorno era proibito alimentarle.
L’ordine risuonò chiaro e preciso:
“State sempre in guardia,
il fumo del camino è pericoloso
e può arrivare fino al nemico.”
E nei loro mantelli mimetici a coprire le spalle,
col fuoco a spaventare le bestie e gli uccelli,
su sci sottili i Bianchi finlandesi
scivolavano come ombre lungo il confine.
Ma i distaccamenti partigiani,
con gli sci ai piedi lasciavamo tracce
troneggiando come una barriera
invalicabile per la mia terra natale.
E costeggiando Tuloma i convogli
avanzavano da Murmaši fino alle rapide di Padun,
non di giorno – ma di soppiatto, la notte.
La notte polare li celava agli occhi
indiscreti del nemico. E come alleata
la tenue tempesta invernale a proteggerli.
Con ogni neve le nostre renne
procedevano senza impantanarsi,
e i partigiani a guidarle
nelle retrovie del nemico
di notte, alla fine del giorno!
Senza che gli avversi potessero presagire
le pattuglie degli jäger glorificati,
o le incursioni audaci delle truppe bogatyr.
Forse dagli acquitrini, dai boschi, dalla forra,
lontano dalle vie la slitta spedita
trainata dalla renna come un soffio luminoso.
E la scia lasciata dall’esile legno d’abete
sarà presto coperta da un candido
cumulo di neve, prova pure a vedere
se capisci dove siano andati i partigiani.
Non lo rivelerà mai, piuttosto
sarà una feroce tempesta
ad intimorire persino le bestie!
Farà turbinare i viandanti, instillando in loro
una paura mortale e seppellendoli
nell’oscurità del fuoco acceso all’alba.
La mia terra inaccessibile,
dura e spietata col nemico,
ma a noi stendeva un velo di neve
con una brezza frigida. E le bionde tempeste
soffiavano nella finestrella della fornace,
e cantavano a noi leoni del Nord,
sognando del sole la notte!