“Le tasse” in finlandese, è quasi un “lo voglio” nuziale, una confessione di fede a quella dottrina riformata e conciliare che è lo stato sociale (hyvinvointivaltio).
La parola ha remote origini finnovolgaiche e sembra essere in relazione più al “dove” che al “quanto” (ceremisso wär, “luogo”). Nella Finlandia feudale il termine indicava non solo la quota dovuta dal manente al proprietario terriero, ma anche il dono di nozze versato dai paesani alla sposa e più estesamente, nelle regioni orientali (Carelia, Olonec), un pasto, una portata, una porzione, come a ricordare che la pancia piena è sempre il risultato di un sacrificio collettivo.
Dall’antica unità di misura fiscale, la pelle di scoiattolo (veronahka) in uso prima dell’introduzione della decima fino a espressioni più recenti (verokarhu, autorità fiscale, letteralmente “orso delle tasse”; verokeidas, “paradiso fiscale” ovvero “oasi delle tasse”; veronhuojennus, “esenzione fiscale” ovvero “sollievo dalle tasse”; verorasitus, “pressione fiscale” ovvero “sforzo tributario”; verohelvetti, “economia ad elevato carico fiscale” ovvero “inferno delle tasse”) la parola ha ispirato un lessico fiorito ed evocativo, tra l’eufemismo, il disfemismo e la presa per il sedere, la cui funzione è più o meno quella di un bicchiere d’acqua fresca per ingerire un lassativo.
In Finlandia pagare le tasse è un rito espiatorio. La dichiarazione dei redditi sostituisce i rimorsi, scrisse Flaiano: vero o non vero, alla fine è l’ufficio delle entrate (verotoimisto) a decidere quando e in che misura sentirsi più leggeri. (m.g.)