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Timo Mukka: I bambini di Sibiria

Laulu Sipirjan lapsista

In questo breve romanzo, Mukka ci consegna una descrizione naturalistica di una Lapponia (e dei suoi abitanti) ben poco vicina all’idillio che oggigiorno viene di solito presentato di quella regione. Temeva, Timo Mukka, che l’incontrollato sviluppo del turismo avrebbe finito per stravolgere le caratteristiche di un mondo bello e fragile come quello che lui aveva conosciuto.

Era il pensiero di uno dei più grandi scrittori della Finlandia moderna, tristemente e colpevolmente poco noto fuori dei confini nazionali, forse perché nemmeno troppo amato al loro interno. Ce lo conferma Panu Rajala, da noi consultato al momento della pubblicazione in italiano (solo nel 2021)  di L’urlo della terra (“Maa on syntinen laulu”). Dice il noto critico letterario: “Mukka non ha mai sfondato i confini del suo paese come avrebbe meritato. Questa traduzione italiana costituisce al riguardo una corroborante eccezione, come un messaggio in bottiglia da mondi lontani.”

Ecco perché dobbiamo continuare a mandare messaggi, verso editori finora poco recettivi (con un’unica eccezione), e qui lo facciamo presentando questo romanzo, la cui storia ruota attorno ad avvenimenti per lo più tragici, di un villaggio prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale.

Il narratore, fiiglio di una donna di facili costumi  che è morta assassinata, svela aspetti reconditi delle relazioni sociali e sessuali di un remoto paesino, dove ritroviamo descritti tipi umani comuni e familiari a ogni latitudine. Oltre alla descrizione storica dei finlandesi che scappano in Svezia per evitare la guerra, anche in questo testo, Mukka non lesina particolari sui rapporti sessuali che suscitarono un’ondata di polemiche negli anni Sessanta, all’uscita del romanzo, per la rappresentazione ritenuta eccesivamente cruda e naturalistica. 

Sibiria (Sipirja) è un mondo paralizzato dalla guerra e dall’odio. Tuttavia, c’è anche tanta bellezza, sia nella natura arcigna che nei suoi abitanti piagati dalle asprezze della vita. Un discorso audace a favore dell’umanità.

Traduciamo in italiano le prime pagine del testo.

Dipinto di T. MUkka (foto P. Määttälä/Hs)

I bambini di Sibiria

Gummerus, 1966, pp. 180

Il cielo sopra e al di là del fiume rimane limpido e senza nuvole ancora per un po’, ma con l’avvicinarsi della notte si oscura gradualmente fino a che il sole, che a momenti scompare dietro le colline, risale all’orizzonte e ricomincia a scaldare l’aria. Gli alberi al chiarore notturno si chinano verso nord e rimangono così, muti e inespressivi, fino al mattino.

È allora che per strada si vedono le prime automobili, che attraversano il villaggio ancora tranquillo, lentamente, senza fretta, gli autisti al volante con le narici e gli occhi spalancati per cogliere tutto ciò che la natura qui ha da offrire. Poi nei cortili e sul ciglio della strada sale il rombo dei camion messi in moto: sono le sei. I conducenti delle scavatrici e delle terne arrivano sui camion, le giovani addette ai controlli in bicicletta: il lavoro inizia dappertutto lungo i quasi dieci chilometri del cantiere. Il rumore delle macchine cresce sempre più, e a quello si uniscono le voci umane, tutto un traffico e un brusio nel quale infine si perde il rombo dei macchinari – e persino la quiete sovrana della notte è ormai solo un ricordo.

La sera rimasi a lungo seduto in cortile, nel recinto costruito dal calzolaio Soldatkin, aspettando che Ulla uscisse e magari mi rivolgesse una parola. Ma la serata passava e di Ulla non c’era traccia. Più volte alzai uno sguardo circospetto verso la sua finestra intravedendo un riflesso dei suoi capelli chiari e la camicetta arancione: stava facendo qualcosa, da sola.

Più tardi, scesi con cautela sulla riva del fiume e udii le automobili che transitavano sulla strada a una quarantina di metri da me: sfrecciavano di gran carriera, poi il rombo si smorzava a poco a poco. Non feci caso alla brezza che saliva dal fiume, per quanto magari abbastanza fredda: immobile, rimasi seduto su un masso piatto e liscio, lo sguardo fisso sull’acqua, sulla sponda opposta, dove non c’erano case, nemmeno un prato, solo un bosco antico e selvatico.

Erano le undici passate quando Ulla uscì di casa. 

Sentii la porta aprirsi, poi i suoi passi: stava scendendo i gradini. Girai la testa e la vidi. Indossava una camicetta arancione senza maniche e i pantaloni bianchi e, presa la bicicletta dietro l’angolo, iniziò a pedalare verso il centro del paese. Anche se non poteva non aver notato che ero rimasto seduto sulla staccionata tutta la sera e che ora ero vicino alla riva, si allontanò dal cortile come se non mi avesse visto affatto. Sarebbe stato bello se mi avesse fatto un cenno di saluto, o scambiato una parola, anche da lontano. Sapevo però di essere io stesso un tipo chiuso, inaccessibile quanto lei.

Dopo che si fu allontanata, rimasi ancora un po’ sulla riva, soffiando nell’acqua dallo stelo di un dente di leone la sua lanugine grigia; poi mi alzai dirigendomi verso casa. Nel corridoio mi fermai davanti alla sua porta, rimanendo lì a lungo immobile, come in ascolto, anche se l’avevo appena vista uscire.

Silenzio…

Mukka: Autoritratto (Ateneum)

Mi tormentava la sciocca idea che lei fosse dentro, sdraiata sul divano, con le gambe, quelle cosce, coperte dai pantaloni bianchi, ad ascoltare a occhi chiusi la musica che saliva dalla radio. Ma dietro la porta c’era solo silenzio.

Scivolai nella mia stanza, accesi la radio e rimasi a gingillarmi a letto fino a mezzanotte. Poi tirai fuori dalla cartellina i fogli su cui avevo scritto di Soldatkin – lessi tutte le otto pagine (alcune più volte) e feci alcune correzioni nei punti in cui menzionavo l’aspetto del calzolaio. L’avevo raffigurato come un tipo basso e tarchiato, ma ciò non corrispondeva al vero. Perché avevo scritto così, quando sapevo che era del tutto diverso? E così riscrissi tutto, in una maniera più aderente alla realtà. Quel che ricordavo di lui era una sagoma allampanata, esile, una postura piuttosto sgradevole, le articolazioni gonfie per via dell’età avanzata, forse a causa dei reumatismi che lo affliggevano. Scrissi per mezz’ora, ma riuscii a riempire solo una pagina: mi fu difficile concentrarmi sulla scrittura in quel momento, pur essendo le condizioni propizie e la casa tranquilla. Poi si udirono dei passi sulle scale: Ulla stava rientrando. Si fermò all’ingresso, forse per togliersi gli stivali o per ascoltare il ticchettio della macchina da scrivere che proveniva dalla mia stanza. 

Smisi di scrivere e rivolsi lo sguardo alla finestra, al cielo impallidito. Non si scorgeva nemmeno una nuvola. Sollevai la mano dai tasti della macchina da scrivere, con cautela, come se fossero di vetro, ed estrassi la pagina dal rullo facendo attenzione a non far rumore, e con altrettanta meticolosità la infilai nella cartellina.

Avanzando nel corridoio Ulla era arrivata alla porta, che aprì per entrare, richiudendola subito senza fare il minimo rumore, tanto che quasi non me ne accorsi. 

L’orologio segnava l’una.

Osservai le sue lancette muoversi con infinita lentezza da un numero all’altro, constatai come si trovasse vicino al bordo della scrivania, tanto che anche una minima spinta l’avrebbe facilmente fatto cadere a terra, e ciò nonostante sicuro e consapevole della sua importanza, dal momento che il mio orologio da polso era già rotto da tempo.

Dove era andata?

Ed era stata da sola?

C’era stato qualcuno a farle compagnia? E se l’avessi scoperto?

Mi lasciai cadere sul letto e rimasi immobile e in silenzio per sentire cosa stesse facendo nella sua stanza. I suoi passi tamburellarono lievi il pavimento, poi accese la radio. Improvvisamente realizzai che dopo essere entrata non aveva chiuso la porta. Non ci avevo mai pensato prima. Riflettendoci, mi resi conto che non aveva chiuso la porta a chiave nemmeno una volta nei due mesi in cui avevo vissuto qui, sicuro! Il pensiero mi eccitò a tal punto che sdraiato sul letto presi ad ansimare come un cane che ha rincorso a lungo e senza successo una lepre. Quindi non aveva paura di lasciare la porta aperta, nemmeno quando andava in paese. Non temeva che le rubassi qualcosa, anche se ero finito in prigione per furto e rapina.

Poi la sentii spogliarsi e mettersi a letto; si rigirò un po’, quindi spense la radio. Poi non si sentì più nulla, anche se ero rimasto immobile, con tutti i muscoli e i sensi tesi,  pronti a cogliere il minimo rumore.

Altrove la gente dormiva, o si era appena coricata e presto si sarebbe addormentata, ma io ero consapevole solo che dietro la parete Ulla giaceva a braccia spiegate: così immaginavo che dormisse. Poi la tensione si allentò lentamente, un po’ alla volta mi calmai ed ero sul punto di addormentarmi, quando il motore rombante di un camion carico di tronchi mi svegliò bruscamente. Che ora era?

Mi alzai, andai alla finestra a guardare il mezzo che ballonzolava lungo la strada sconnessa, che in molti punti era così stretta che le automobili, incrociandosi, dovevano rallentare per poi procedere lentamente. Dalla luce riverberata dalle finestre delle case, realizzai che il sole si stava levando. La maggior parte delle finestre esposte a nord ne riflettevano la radiante luce dorata. Quando mi affacciai nel cortile, vidi Ulla seduta sul coperchio del pozzo. Mi ero quindi appisolato per un attimo, e per questo non l’avevo sentita uscire? Cosa ci faceva lì?

Era seduta a guardare il fiume. Le spalle chine quasi fino alle ginocchia, la schiena e il collo protetti da una sottile maglietta di lana – doveva fare freddo là fuori.

Sedeva immobile, ma dopo averla fissata per qualche minuto, la vidi voltarsi, guardarmi dritto negli occhi e poi sorridere. Che cosa significava?

Mi mossi contro la mia volontà, sorpreso e confuso da tutto ciò che vedevo e sentivo, da quel che pensavo, sfoderando un sorriso ebete. Mi scostai dalla finestra, perché non avesse motivo di pensare che la stessi osservando.

La mattina seguente mi svegliai dopo le dieci e Ulla non c’era più.

La luce del sole ora colpiva l’acqua nera del fiume facendola lampeggiare. Mi venne in mente una frase, che un tale di Tampere mi aveva detto in carcere: “L’argento ferroso dell’acqua e il gelo dell’acquavite in bocca. Tutta qui la vita.”

(Per le foto utilizzate, siamo pronti a far fronte alle richieste di diritti)

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