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Minna Canth: Hanna, che voleva fermare il mondo

Il 19 marzo, in Finlandia, si festeggia il “giorno di Minna Canth” (Minna Canthin päivä): sotto il nome della scrittrice e intellettuale, tra le più grandi drammaturghe dopo Aleksis Kivi e prima giornalista donna di Finlandia, viene celebrata l’uguaglianza, una virtù dal significato più ampio di quello che l’autrice stessa avrebbe saputo immaginare: oltre a quella tra uomo e donna e tra le classi sociali, per cui la penna della Canth ha gettato le basi della parità dei diritti sociali e individuali nel paese, attraverso le forme del realismo e i contenuti della critica la sua scrittura sembra avere accompagnato e formato lo sviluppo della società civile e della coscienza collettiva, preconizzando i mutamenti del secolo che non ebbe il tempo di conoscere (il Novecento) e le nuove diseguaglianze delle quali non fu diretta testimone.

Nata Ulrika Wilhelmina Johnson (Tampere 1844 – Kuopio 1897), autrice di novelle e di circa quindici tra romanzi e drammi, alcuni dei quali hanno ispirato pellicole ormai parte della storia del cinema (ricordiamo il film muto Anna-Liisa per la regia di Teuvo Puro, e Sylvi, 1944, dramma a tre diretto da Toivo Särkkä), esegeta di autori quali Ibsen, Zola, Strindberg, traduttrice dello scrittore norvegese Arne Garborg e del filosofo danese Georg Brandes, nella sua dimora di Kuopio, Kanttila o il “salotto di Minna“ (Minnan salonki), si sono incontrate e formate le personalità che hanno disegnato l’identità della Finlandia: dagli scrittori Juhani Aho, Hanna Asp, K. A. Tawaststjerna, Arvid Järnefelt ai compositori Jean Sibelius e Armas Järnefelt, dal poeta J. H. Erkko al pittore Pekka Halonen fino al teosofo e utopista Matti Kurikka.

Nel 2016 la casa editrice Vocifuoriscena ha pubblicato il romanzo Hanna (1886) prima traduzione italiana di un’opera della Canth: una cruda, coinvolgente autopsia dell’istituzione familiare dell’epoca attraverso gli occhi di una donna appena adolescente. Proponiamo ai lettori de La Rondine la postfazione scritta dallo stesso traduttore, e ricordiamo che della stessa autrice abbiamo già presentato il dramma La famiglia del pastore.

“Hanna”

Nel 1907 la Finlandia, ancora Granducato dell’Impero russo, fu il primo paese d’Europa ad estendere il diritto di voto alle donne: non vi è dubbio che, tra i molteplici focolai dietro il risveglio civile che portò a quel risultato, i libri, gli scritti, gli articoli e i discorsi di Minna Canth abbiano svolto un ruolo decisivo. Un quarto di secolo prima, la diffusione nel paese delle opere di Tolstoj, Bjørnson e Ibsen impresse uno spostamento nel cono d’interesse del pubblico, dalle allegoriche figure popolari delle saghe storiche in lingua svedese di Runeberg (1) e Topelius, come dai paladini rusticani della prosa finlandese di Kivi, alla nascente classe sociale della borghesia, che si poneva ora come nuovo faro morale e civilizzatore di un popolo ancora in larga parte recalcitrante ai processi di urbanizzazione. Centrale, nell’organizzazione del nuovo ceto dominante, è la famiglia, tema su cui Minna Canth sentiva di dover offrire la sua visione, chiara e innovativa, attraverso la lente del realismo, non già soltanto per istanza di denuncia, ma come servizio ad una sincera ideologia riformatrice: quanto di più necessario, per un popolo martoriato dalla storia e avvilito dalla povertà. Per gli esponenti coevi della letteratura naturalista e realista, Flaubert, Zola, Strindberg, la psiche femminile costituiva un mistero, una nebulosa polimorfa che stimolava lo scrittore all’esplorazione, e il lettore alla comprensione. Per Minna Canth l’indagine doveva essere svolta all’interno della società in cui viveva, nella polpa viva e cangiante delle istituzioni.

Nel quarto numero del periodico Valvoja (1884) comparve il primo di una serie di suoi articoli sulla condizione della donna (Naiskysymyksestä), nel quale troviamo condensato il pensiero della scrittrice, nonché le linee generali della sua utopia letteraria: quella per l’emancipazione della donna non è una battaglia di natura esclusivamente morale, ma una rivendicazione sociale che attiene alla coscienza del ruolo che il popolo deve esercitare nella storia. Nelle ultime righe dello scritto l’autrice si pone una domanda fondamentale: “l’obiettivo dell’istruzione (femminile) è dunque garantire che la donna sviluppi le caratteristiche fisiche e spirituali idonee perché essa possa mettere al mondo una nuova generazione? Pensiamo ciò sia un vantaggio nella tutela dei figli, porti beneficio al progresso, alla ricerca della felicità umana?”

Minna Canth scrisse Hanna, il suo romanzo più complesso e rappresentativo, per tentare di dare una risposta ad una questione, centrale nella sua attività intellettuale, che non poteva essere confinata nelle pagine di un quotidiano. Non stupisce che il romanzo sia ricco di elementi autobiografici (2): ella sentiva il bisogno di condensare pensieri e stati d’animo propri in un “testamento attivo” che, come il discorso al popolo oppresso di Carelia nel Canto di Mantsi di Eino Leino, suscitasse nel pubblico il risveglio di una sensibilità che era opportuno venisse a galla, a rischio di ridimensionare il peso delle istituzioni, in questo caso il patriarcato, mettendone in crisi l’aspetto dominante: la totale subordinazione sociale ed economica della donna al proprio ruolo di moglie. La descrizione del paesaggio interiore di una ragazzina nella ricca, sfuggente età dello sviluppo, lo spaccato delle dinamiche psicologiche all’interno di una famiglia borghese dell’epoca (3), “più ordinaria che normale”, erano gli elementi per mettere in crisi un sistema che andava smontato a partire dal vertice: il padre. Ciò che, infatti, distingue Hanna dalle coetanee, è proprio il crescente senso di responsabilità che ella prova verso di lui: una pressione che, dai meandri dell’inconscio, si propaga fino ad abbracciare l’io, nella forma di sfoghi e perturbazioni della condotta esistenziale.

Il contabile Mellin è una figura opaca, scelta tra mille uguali, come testimonia il fatto che, nonostante gli sbalzi umorali dettati dall’alcol, risulti, tutto sommato, bene integrato nella società che lo circonda. L’episodio iniziale, che scatena in Hanna una reazione emozionale mai provata, è solo il confuso riverbero di un’emozione nella coscienza della figlia (4). Per il resto, egli non alza le mani, si limita a pretendere con pugno chiuso e a dare sfogo della propria rabbia; quando decide di dare in moglie la figlia al signore di Laajasalo, lo fa per riservarle la medesima sorte toccata alla moglie, un destino che egli non ritiene buono o cattivo, ma solo appropriato alla lex moralis, preponderante rispetto alla lex naturalis, il principio che anima la sensibilità di Hanna e che, per Bachofen, è ascrivibile al simbolo femminile (5). È un uomo che non vede con i propri occhi: si arrabbia per la gonna imbrattata di Hanna, ma è indifferente al peccato che macchia la coscienza del laido pretendente. L’insoddisfazione della madre, che la spinge a consigliare alla figlia di opporre un netto rifiuto alla proposta matrimoniale di Sassa Wiik, non era così facilmente leggibile dal lettore dell’epoca, per il quale alcuni codici di comportamento era bene fossero tenuti separati dalla sfera soggettiva delle donne. Del pari, la madre protegge la figlia da quell’atroce, insopportabile verità, rivelata poi ad Hanna dalle domestiche, affinché, ancora una volta, non venisse a mancare il rispetto verso il padre, istanza prioritaria rispetto alla virtù pedagogica del dialogo.

Stridente, ma anch’esso in sintonia con il costume, è il trattamento riservato all’educazione del fratello, per il quale indipendenza e spavalderia sono propedeutiche alla vita adulta; quanto a quella sorta di socialismo primitivo che trapela dai suoi approssimativi discorsi, non è niente più di uno sfogo esteriore, innocuo come un foruncolo. Eppure quella famiglia, così convenzionale nella sensibilità dell’epoca, incise un solco profondo nell’animo dei lettori, anzitutto perché la prima e più importante istituzione sociale non era mai stata innalzata agli onori di una narrazione analitica, tanto precisa e fedele quanto ancorata a gesti e comportamenti apparentemente privi di rilevanza.

Come osserva dettagliatamente Lucina Hagman (6), amica e biografa di Minna Canth, con Hanna si è strappato di netto il velo dell’ipocrisia che celava un sistema di condotta, un codice rigido e inoppugnabile il quale, nella sua iniquità, non era solo contrario alla morale, ma anche alla logica: attraverso l’educazione, l’uomo imponeva la pudicizia della giovane donna, presupposto  per l’integrità virginale della futura moglie (7), ma era poi egli stesso a violare tale purezza nei troppo spesso tollerati rapporti extraconiugali (8), con la conseguenza che il mondo femminile si ritrovava, suo malgrado, diviso in due caste: le future mogli illibate, e le etère, entrambe le figure, ognuna a proprio modo, destinate al soddisfacimento dei bisogni dell’uomo.

Ciò si proiettava ineluttabilmente sull’ordine sociale: le donne dei ceti più bassi non avrebbero potuto ricevere una formazione civica uguale a quella delle donne d’alto censo, neanche in un contesto di apparente uguaglianza (9), proprio perché l’equilibrio tra i generi si reggeva sulla doppia morale dell’uomo. Vi era, inoltre, la casta trasversale delle nubili (la signorina Savenius), sorta di paria, emarginate dal mondo ma, per un verso, scampate al cortocircuito dell’impari arbitrarietà di cui sopra: il destino di Hanna, la soluzione dell’attrito tra l’espressione della personalità femminile e il ruolo della donna nella collettività, viene accolto dalla stessa con rassegnazione: del resto, nel doloroso percorso del suo sviluppo, Hanna è consapevole fin da subito dell’inadeguatezza del proprio vestiario caratteriale (10). Che le nubili siano delle reiette lo conferma, nel proprio ambito, anche la religione, per la quale tale status costituisce il rifiuto di accettare la norma secondo la quale la sottomissione alle lussuriose intemperanze del marito debba prevalere sulla tutela della dignità e della reputazione, la stessa reputazione che, nelle giovani, è investita di tale importanza.

Questo principio è rappresentato attraverso la figura di Salmela, lo studente di teologia che, se da un lato seduce Hanna con la condanna del relativismo culturale (11), e con mediocri considerazioni di natura metafisica, come con un perentorio, piatto elogio della sacralità del matrimonio, dall’altro manifesta il suo interesse per lei in modo fin troppo sensuale, finendo poi per inaugurare l’esercizio della libido tra le pareti di una casa chiusa: un rituale mondano parte integrante nella costruzione dell’identità di genere maschile.

Questi temi vennero proposti per la prima volta al pubblico finlandese in un’epoca nella quale, nel resto d’Europa, il mondo della cultura era impegnato ad esplorare i vicoli tortuosi della famiglia borghese, mettendo a nudo i meccanismi attraverso i quali le istituzioni, con una sapiente veste narrativa, mascheravano le molte contraddizioni della morale sessuale per conservare una concordia utile solo  al buon funzionamento dell’apparato di regole e costumi. La claustrofobica fuga dalle pareti della “trappola domestica”, il male oscuro dell’animo, la depressione di Osvald, protagonista degli Spettri di Ibsen (Gengångare 1881), il suo ingrato destino, tutto ciò fu, per le classi dominanti, un pugno sferrato contro convenzioni mai messe in discussione prima d’allora. I teatri di Oslo, Copenhagen e Stoccolma si rifiutarono di mettere in scena il dramma che, dopo il debutto a Chicago, venne finalmente apprezzato in Europa, a Helsinborg e, lo stesso anno (1883) al Teatro Svedese di Helsinki dove, come in altri paesi, divise il pubblico, suscitando un acceso dibattito. Lo stesso destino toccò, in modi e forme diverse, ad Hanna.

Quando Minna Canth consegnò al suo editore, l’allora ventiseienne Werner Söderström, le bozze della sua opera più introspettiva, sapeva di toccare un nervo vivo della coscienza collettiva finlandese, ma non immaginava di sbattere contro una palizzata di pregiudizi e falsi moralismi, sorvegliata dalla subdola sentinella della censura. Nel 1886 Söderström aveva già pubblicato tre opere dell’autrice, Furto (Murtovarkaus 1883), Nella cascina di Roinila (Roinilan talossa 1885) e La moglie dell’operaio (Työmiehen vaimo 1885). Nell’estate del 1886 l’editore consegnò in lettura il manoscritto al pastore Elis Bergroth, fervente conservatore, predicatore missionario e futuro vicario di Räisälä. Teologo prolifico, Bergroth era, all’inizio della sua carriera, una delle figure più influenti nella chiesa evangelica finlandese; negli anni a venire avrebbe esercitato influenza su giovani intellettuali di ogni orientamento, dal filosofo Rolf Lagerborg alla scrittrice Aino Kallas. Eppure il pastore, verso cui l’editore nutriva una fiducia mal riposta, confuse la descrizione del vizio con il male stesso, ed espresse un giudizio di condanna verso il romanzo, tanto articolato quanto poco ponderato. La lettera inviata all’autrice, che aveva avuto modo di conoscerlo personalmente l’estate precedente durante un ciclo di prediche tenuto a Kuopio in occasione del giorno della sobrietà (raittiuspäivä) rivela quanto l’impatto del realismo su una mente incapace di distinguere tra cronaca e narrazione producesse effetti destabilizzanti, quasi ai limiti del nonsenso:

“[…] Ciò che avete fatto, è fotografare la famiglia del contabile Mellin e metterla davanti al pubblico, per stimolare in esso ammirazione o disgusto. Il padrone di casa è descritto in modo approssimativo. Entra in scena ubriaco, minaccia la moglie che, con eccessiva abnegazione, lo ha atteso fino alle due di notte. L’uomo si ammala e rimane a letto per due settimane. Quando, per la seconda volta, torna a casa sbronzo, il programma è cambiato: la moglie non lo aspetta più, “gira la testa e si nasconde sotto la coperta” mentre lui tenta di baciarla, rapito dalle sue “gote rosse … come quelle di una bambina”. Se la moglie avesse tenuto, fin da subito, un atteggiamento di tale segno, avremmo motivo di pensare che egli sarebbe rimasto un buon marito. Quanto meno, non è un tiranno: lo si evince peraltro dal comportamento del figlio Jussi, ribelle ad ogni autorità; se il padre si arrabbia con Hanna, per esempio quando torna a casa dalla gita con la gonna imbrattata, o quando costei rifiuta la proposta di matrimonio del signor Sassa, ebbene cose simili avrebbero irritato molti altri. Quanto al figlio che egli avrebbe avuto dalla domestica Miina, ritengo che Liisa, al riguardo, non abbia detto il vero. Per i costumi che, grazie a Dio, si sono consolidati nel nostro paese, è sempre bene diffidare di illazioni come questa. L’età del signor contabile e il carattere di Miina confermano i miei dubbi. Del resto, se il padrone di casa si fosse davvero macchiato di una tale colpa, Miina non avrebbe prestato servizio così a lungo in quella casa, ma sarebbe stata cacciata da tempo. Liisa mente, ne sono certo! […]”

In particolare, il biasimo del pastore si sfoga sulla figura della madre di Hanna, incapace di coltivare la fiducia dei propri familiari: credendo di essere contagiata da un morbo sconosciuto, la figlia si fida solo del medico, e quando decide che avrebbe sposato Salmela, si guarda bene dal confidarsi con lei. Il pessimismo e l’incipiente depressione di Hanna non sarebbe dunque frutto della sua responsabilità verso la condizione del padre, ma della presunta indifferenza della madre.

L’ossessiva attenzione verso la verosimiglianza del racconto, segno di uno spiccato coinvolgimento personale nella vicenda, genera alcune considerazioni sull’argomento religioso, attorno alle quali, in tutta evidenza, il pastore concentra la sua vis critica:

 “[…] Grazie al catechismo Hanna matura una fede accesa che, pur tuttavia, rinnega, voltando le spalle a Dio. La sventurata ignora che è lo stesso Dio ad averla preservata da un matrimonio infelice con Salmela: è Dio, e non lei, ad averlo visto in quella casa presso Tarkk’ampujan katu, e poi dopo, con quella “fiacchezza del corpo che traspariva sotto i vestiti sciupati”. […] Con quale trasporto avete descritto le emozioni di Hanna durante la celebrazione eucaristica, concludendo però che “a casa la attendeva una cena squisita”: ogni vero cristiano avrebbe ad inorridire, mentre i lettori di Nya Pressen (12) attenderebbero di leggere nella vostra prossima opera, a chiare lettere e, magari, in finlandese, come si cucina la carne di Cristo e quanto costa un litro del suo sangue. […] In ogni uomo vi è qualcosa di buono, una traccia del divino: è su ciò che dovreste concentrarvi. Nella vita, come nella letteratura, non abbiamo bisogno di interrogarci sul perché Dio abbia creato anche le miserie umane. Dio governa il mondo, è il padre e la sua opera lo conferma. Il suo radioso amore scalda anche i fiori della signorina Savenius, i suoi vasi sul davanzale di Rännikatu. […] Popoli più grandi del nostro ammutoliscono d’innanzi al propagarsi della miscredenza, una maledizione che, fortunatamente, per ora risparmia la nostra gente. Tuttavia, anche da queste parti, si odono voci che annunciano la rovina: facciate in modo di non essere una di esse.”

La tracotanza di quel messaggio colpì Minna Canth, mettendo alla prova la sua proverbiale imperturbabilità, nonché la sua stima verso il pastore che, strano a dirsi, non venne meno negli anni successivi. In una lettera all’amica Hagman la scrittrice sfoga tutto il suo rammarico, affermando di non volersi assumere la responsabilità di spingere, con il suo romanzo, il popolo di Finlandia sull’orlo della decadenza. Scrive a Söderström, pregandolo di inviare il secondo capitolo (meno ”compromettente” dei successivi) alla redazione di Excelsior, rivista pubblicata dalla Società delle donne finlandesi (Suomen Naisyhdistys). La scrittrice è ormai certa che il romanzo non verrà mai dato alle stampe: pronta a mettere in discussione le proprie convinzioni, sopra ogni altra cosa si preoccupa di non fare un torto all’autorità di Bergroth. Il 27 settembre 1886 scrive al pastore, manifestando il proprio disappunto verso il severo giudizio espresso nei confronti della sua opera, così dissonante rispetto alle concilianti parole sul messaggio del Vangelo che aveva udito nelle sue prediche. Nonostante l’impertinenza delle argomentazioni, la Canth sente il bisogno di rispondere alle critiche punto per punto:

“[…] Liisa non si sbaglia: il bambino partorito da Miina è del padre di Hanna. La serva è una ragazza tanto riservata quanto sensibile: di quelle che, meno d’altre, resistono alla seduzione. Il contabile ha circa cinquant’anni: gli uomini di quell’età sono liberi dal richiamo della carne? Dite che non è un tiranno perché ha cresciuto Jussi senza dover ricorrere alla severità. In realtà, egli si cura ben poco della famiglia e, appena può, trascorre il suo tempo altrove. Il suo punto di vista sull’educazione dei figli è quello dei tempi andati: più libertà ai ragazzi che alle femmine. Jussi ha preso dal padre l’energia e l’indipendenza, Hanna dalla madre la fragilità e la cagionevolezza. […] La madre non è in grado di interpretare i bisogni spirituali della figlia; sebbene amata da essa, non è più, per Hanna, un ideale. Ovvio che non le confidi le sue turbe amorose. Di rado le ragazzine lo fanno, forse sentendo, per istinto, che le madri non manifesterebbero comunque indulgenza per quei sentimenti, spesso semplici illusioni giovanili. La madre non può comprendere il male che colpisce Hanna, perché è lei stessa malata (13), sfinita. […] In definitiva, pastore, voi detestate il mio stile realista. Vi capisco, ma non posso cambiarlo. Non è colpa mia se, nella vita, accanto al bello vi è anche il suo opposto. Lo scrittore deve essere sincero, descrivere la realtà per ciò che è, senza abbellimenti. La letteratura è uno specchio che mostra all’uomo il suo volto. […] Se la fotografia non è gradita, si modifichi la vita, se ne faccia qualcosa d’altro.”

Minna Canth chiese a Werner Söderström di inviare il manoscritto all’amica Lucina Hagman, la quale, a sua volta, lo fece avere ad un conoscente, Gustaf Wilhelm Edlund, libraio ed editore di importanti opere in lingua finlandese e svedese, tra le quali Maamme kirja o Il libro del nostro paese di Zacharias Topelius (Boken om vårt land 1875). Nel frattempo la fama del romanzo, prima ancora della sua uscita, si era sparsa per il paese: un editore di Vaasa propose di esaminare il manoscritto, subordinando però la pubblicazione all’esame della Commissione per la revisione della stampa (Painoylihallitus). La scrittrice desiderava ardentemente che il libro uscisse entro Natale del 1886, così com’era, e senza tagli: decise quindi di cedere i diritti a Edlund, che successivamente pubblicò altre sue opere (Popolo umile, Koyhää kansaa 1886, Intimo scoglio, Salakari 1887, Figli d’una sorte ingrata, Kovan onnen lapset 1888). Da allora la piccola Hanna non ha smesso di condividere entusiasmi e tormenti con intere generazioni di lettori.

NOTE

(1) Non possiamo negare che, con l’omonimo romanzo Hanna (1836), l’epica familiare descritta dal poeta avesse esercitato sulla giovane Canth un’influenza che ritroviamo anche in altre opere. Alle evocazioni idilliache degli esametri di Runeberg, la canonica nella quale la diciassettenne protagonista nasce e cresce, fanno eco, nell’Hanna di Canth, gli slanci prosastici nella descrizione di una natura rifugio dello spirito, come anche le metafore del primo amore, l’infatuazione per Woldemar come la corolla e i petali dischiusi di un fiore.
(2) Hanna era il nome della terzogenita di Minna Canth, morta di influenza due anni dopo la pubblicazione del libro (il nome ricorre anche ne La famiglia del pastore); i luoghi descritti, le vie di Kuopio, Väinölänniemi, la torre sul colle di Puijo, sono il teatro della giovinezza e della maturità della scrittrice.
(3) L’indagine sulla psicologia femminile aveva avuto inizio con il dramma La moglie dell’operaio (Työmiehen vaimo 1885), questa volta nel contesto, all’epoca inedito, del proletariato urbano.
(4) In Netočka Nezvanova (1849), romanzo incompiuto, Dostoevskij, attraverso l’io narrante della protagonista, fa coincidere la fine della gioventù con il risveglio nel cuore della notte per un litigio tra la madre ed Efimov, il padre adottivo. Come Hanna, Netočka è inorridita da una realtà che, prima d’allora, non aveva mai avvertito come sporca e inquietante.
(5) Das Mutterrecht: eine Untersuchung über die Gynaikokratie der alten Welt nach ihrer religiösen und rechtlichen Natur 1861.
(6) Minna Canthin elämäkerta I 1906
(7) Come osserva Minna Maijala in una recente biografia della Canth (Herkkä, hella, hehkuvainen 2014), l’educazione di Hanna è fondata sulla sistematica eliminazione di tutte le manifestazioni fisiche ed emozionali della libertà: non ci si arrampica sugli alberi e non si corre per le vie della città. A ciò è volutamente contrapposta la spontaneità di gesti e slanci vitali nell’iniziale, bucolica descrizione del soggiorno a Pölläkkä.
(8) Tra i sostenitori del partito liberale e borghese dei Nuorsuomalaiset o Giovani Finlandesi vigeva una visione della morale sessuale basata sull’asimmetria tra il comportamento di uomini e donne, una posizione rafforzata dalla diffusione delle teorie del sessuologo inglese d’orientamento malthusiano George Drysdale (The elements of social science, or physical, sexual and natural religion 1854), secondo cui, nei giovani uomini, la repressione delle pulsioni sessuali prima del matrimonio avrebbe potuto comprometterne la salute. La questione è affrontata nella raccolta di novelle “Sposarsi” (Giftas 1884) di August Strindberg, alla cui pubblicazione seguì il così detto processo-Giftas, nel quale Strindberg fu poi assolto dall’accusa di blasfemia.
(9) Nel già citato articolo apparso su Valvoja nel 1884, l’autrice richiama l’Educazione intellettuale, morale e fisica di Herbert Spencer (1861), secondo cui un’istruzione che prevedesse la detenzione e la trasmissione del sapere in una sorta di casta monacale fosse un sistema ormai vetusto e da riformare.
(10) Il contraltare è Olga, l’amica del cuore: conosce il linguaggio dell’amore, sa muoversi nei percorsi sinuosi dell’etichetta e, coerentemente con il suo carattere, alla fine conquista Woldemar, il primo amore di Hanna.
(11) Hanna è attratta proprio dall’anticonformismo di Salmela. I coetanei maschi erano interessati all’evoluzionismo, dottrina dalla quale, per paradosso, le giovani della borghesia dovevano essere tenute lontane. Salmela le offre, a suo modo, una tutela coniugale e intellettuale.
(12) Quotidiano in lingua svedese, d’orientamento laico, pubblicato a Helsinki tra il 1882 e il 1890, organo ufficiale del Partito Svedese e, successivamente, dei costituzionalisti.
(13) La malattia della madre di Hanna è la sifilide, contratta dal marito.

(La Rondine, 19.03.2022)

(Foto del titolo da Lehteri.fi. Per tutte le immagini siamo pronti a far fronte alle richieste di diritti)

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