Il soggetto femminile e “l’altro”
Nel giorno in cui si ricorda la data di nascita di L. Onerva, vero nome Hilja Onerva Lehtinen (Helsinki, 28 aprile 1882 – 1 marzo 1972), riproponiamo un breve saggio di Viola Parente-Čapková dedicato alla grande scrittrice finlandese. Di cui oggi abbiamo una traduzione italiana del suo romanzo più celebre, Mirdja, nelle edizioni Vocifuoriscena.
In uno dei miei primi studi riguardanti la tensione tra l’estetica decadente e la “Donna nuova” nell’opera dell’inizio del ventesimo secolo della scrittrice finlandese L. Onerva, ho citato la nota di Regenia Gagnier su monologismo e dialogismo nell’opera di scrittori, critici ed estetisti britannici e continentali di fine diciannovesimo secolo, aderenti all’estetica decadente. [1]
Sulla base della sua distinzione tra l’estetica pratica di “estetisti” quali Ruskin, Morris e Wilde, e di “decadenti” come Huysmans e Rolfe, una distinzione alla quale tornerò in seguito, Gagnier sostiene come il discorso degli estetisti sia “formalmente dialogico”, mentre quello decadente “formalmente monologico” (Gagnier 1994, 270). Pur consapevole delle critiche a tali concetti (v. Constable, Potolsky, Denisoff 1999, p. 9), continuo a considerare la discussione di Gagnier sull’estetica pratica utile alla mia indagine sulla scrittura femminile finlandese decadente; vorrei comunque approfondire le questioni del monologismo e del dialogismo nei testi decadenti di L. Onerva, vale a dire nel quadro dell’appropriazione femminista della teoria bachtiniana.
La mia definizione di estetica decadente è piuttosto ampia, e comprende sia la teoria dell’arte sia la pratica, vale a dire la somma delle norme d’arte, dei valori, delle teorie e del loro impiego nelle opere d’arte; a mio parere, questo concetto è particolarmente congeniale al confine indistinto tra critica e arte esistente nel periodo a cavallo tra XIX e XX secolo, oltre ad essere ben compatibile con la definizione di estetica pratica di Gagnier, sia come praticata nelle opere d’arte sia in relazione alla disposizione etica o ‘habitus’ (Gagnier 1994, 264), ovvero all’estetica legata agli aspetti etici e sociali. Gagnier si occupa di due possibili funzioni estetiche all’interno dell’estetismo di fine Ottocento e inizi Novecento: da un lato, la “rivolta individualista e appassionata” degli estetisti, e d’altro la “convinzione escapista [dei decadenti] che solo l’arte renda liberi, perché la società non lo farà mai” (Gagnier 1994, 265). Il monologismo della scrittura decadente è caratterizzato dai suoi “confini rigidi”, cioè dalla paura della libertà degli altri e dalla necessità di mantenere una gerarchia e, in questo modo, lo status quo (Gagnier 1994, 271-275); il dialogismo degli estetisti, da parte sua, dall’esplicita preoccupazione per i modi in cui l’arte può essere di aiuto nella vita quotidiana, dalla preoccupazione di fornire condizioni che permettano di vivere con la libertà dell’arte (Gagnier 1994, 271). Dal momento che mi sembra piuttosto problematica la divisione inequivocabile dei singoli scrittori e/o critici in “puri decadenti” e “puri estetisti”, anche nel contesto dell’Europa occidentale e ancor più in altri contesti, preferisco interpretare la suddetta divisione come tendenze interagenti dialogicamente tra loro nell’opera di vari autori del periodo in questione.
Come è stato sottolineato più volte, in ambito bachtiniano l’idea dell’arte monologica è una sorta di contraddizione in adiecto poiché, in senso ampio, tutta l’arte può essere definita dialogica, essendo il dialogo il principio fondamentale della strutturazione del testo letterario (es. Pearce 1994, 37). Secondo il primo Bachtin/Voloshinov, anche le rappresentazioni solitarie e asociali dell’esperienza personale e il pensiero post-romantico individualistico dipendono da “un forte senso di noi stessi come parte di una particolare comunità: un particolare sottogruppo culturale e socioeconomico” che gode di un tale comportamento (Voloshinov 1986/1929, Pearce 1994, 41). Inoltre, l’uso frequente dell’intertestualità, dell’ironia e della parodia, di pastiche e stilizzazione, compresa la citazione parodistica dei codici di genere (cfr. Felski 1991, 1995) rende i testi decadenti intrinsecamente dialogici, almeno a “livello formale”. Sembra quindi vitale mantenere la categoria di dialogicità come valore relativo (Pearce 1994, 200) e differenziare tra vari tipi di dialogismo (più o meno dialogici). Per quanto riguarda la categoria del monologismo, la espando per il mio scopo specifico per indicare la maniera decadente di resistere al dialogo produttivo sui temi sociali, ai loro attacchi all’idea di uguaglianza, al loro modo di creare nuove gerarchie e confini, sovvertendone altri, ad esempio la misoginia decadente e, in generale, la paura dell’altro (cfr. Felski 1991).
Nel contesto dell’Europa occidentale del XIX e del XX secolo, la ribellione contro la società borghese attraverso il succitato escapismo radicale fu più redditizia che nelle piccole nazioni della periferia europea che andavano “risvegliandosi”, dove l’arte e la letteratura spesso sostituivano la funzione politica e servirono alla “causa nazionale”. Mentre nei paesi dell’Europa occidentale, come l’Inghilterra o la Francia, il nazionalismo veniva per lo più identificato con lo sciovinismo borghese e fu opposto e disprezzato sia dagli estetisti sia dai decadenti, la situazione dell’”euro-periferia” fu alquanto diversa (Töttössy 2012): il sentimento di nazione, anche se solo in misura limitata, si intrecciò a quello sociale, e le evasioni estetiche significarono spesso un atto di liberazione da ciò che veniva percepito come ruolo e dovere morale dell’artista, per alcuni inteso come una missione, per altri come un onere. L’elitismo esacerbato fu da molti considerato una sorta di tradimento della costruzione della nazione, e assunse quindi la funzione di protesta contro il provincialismo nazionalista e gli sforzi didattici per rendere l’arte al servizio della politica nazionalista.
In questo contesto, le scrittrici interessate alla questione femminile e influenzate dall’estetica decadente si trovarono in una posizione ancor più paradossale poiché, nel loro processo del divenire scrittrici, dovettero compiere delle scelte complicate, dovendo tener conto delle priorità di genere (talvolta percepito come base della suddetta “rivolta estetica appassionata”), delle loro preoccupazioni sociali, del loro dovere di promuovere la causa nazionale e dell’infatuazione con l’estetica decadente (Parente-Čapková 2014). Le qualità dialogiche delle loro opere, da questo punto di vista, sono potenzialmente considerevoli, e la tensione tra le due direzioni sopraccitate di “estetica pratica” è amplificata da varie relazioni tra genere e potere.
Da questo punto di vista, la scrittrice finlandese L.Onerva, le cui prime opere sono fortemente segnate da Simbolismo e Decadentismo, è un caso particolarmente significativo. Attraverso il suo interesse per la questione femminile, Onerva si ritrovò decisamente più vicina agli estetisti che si occupavano dell’arte come “trasformazione della vita quotidiana”, ma, d’altro canto, il concetto decadente dell’arte per l’arte e l’elitismo venivano sentiti come trasgressivi non solo nel contesto della società borghese, ma anche all’interno del “Neoromanticismo nazionale” finlandese, con le sue radici nell’identità popolare. Che tipo di dialogo intrattennero le due succitate tendenze dell’estetica pratica di fin-de-siècle nell’opera di Onerva?
Il testo più consono a fornire una riposta a tale domanda sembra essere il ‘romanzo di formazione decadente’ Mirdja (1908), la storia di un’aspirante artista, una figura di Donna Nuova, e della sua ricerca dell’identità attraverso l’arte, attraverso varie proteste contro la società, attraverso le relazioni con gli uomini e quella con l’Assoluto e con Dio.
Lo sfondo sociale delle eroine di Onerva è per lo più la classe media (pertinente alla natura della Donna nuova come costrutto della classe media), ma la definizione non è così semplice, dal momento che molte di loro sono delle cosiddette “arriviste”[2] rispetto alle donne “vere” della classe media. In un certo senso, anche Mirdja è un’arrampicatrice sociale, anche se lei, istruita dai suoi “insegnanti” decadenti, cerca di sfuggire questa etichetta presentandosi come una artista bohemien, “fuori da tutte le categorie della società borghese”.
In quanto tale, cerca di sfuggire ogni vincolo della “realtà”, a volte anche attraverso i sogni del Superuomo nietzschiano. È attraverso il confronto dell’eroina con le “classi inferiori” che possiamo osservare più da vicino la relazione tra l’interesse estetizzato per la vita quotidiana dell’altro e il suo rifiuto. A questo proposito svolgerò una breve analisi di una scena del romanzo Mirdja, dove l’eroina partecipa ad una festa di paese (Onerva 1908/1982, p. 134-137), sperando di poter trovare la sua “vera identità”, della quale è in cerca per la maggior parte del romanzo. “Cosa era il cosiddetto popolo [3]? “chiede Mirdja (Onerva 1982/1908, 134). Quello che segue è uno dei suoi tipici monologhi, un soliloquio ricco di cliché estetici astratti sul “popolo” (la gente) e la sua “anima”, con cui potrebbe fondersi e arrivare a strettissimo contatto con l’anima estrema del mondo o l’anima di Dio… (Onerva 1982/1908, 135). Tuttavia, il “vero” contatto con la “gente”, con il loro sudore, i loro vestiti sporchi, il tabacco e i bambini le provoca sentimenti di nausea e disgusto, amplificati dai commenti ironici della gente sul suo “bell’aspetto”, e dalla loro “risata selvaggia”. Mirdja sente addirittura grida come “abbasso i signori!” e più tardi è testimone di un litigio tra un poliziotto locale e due ubriachi che, in modo rivoluzionario, difendono il loro diritto ad un “circolo operaio”, ma che vengono rapidamente “portati via”. Il rumore circostante le provoca dei capogiri, e Mirdja si sente sempre meno a proprio agio, quasi vittima di uno stupro, sottoforma delle occhiate avide, ardenti degli uomini della folla. Nessuno sembra preoccuparsi della sua “anima”, che lei era pronta a donare. Convinta che l’unica cosa alla quale la “gente” è interessata sia il denaro, fa scivolare la sua borsa nella mano di qualcuno e scappa via. Già lontana dal luogo della festa, sente una canzone patriottica cantata dal popolo, cosa che la rende ancora più alienata, estranea, orgogliosa e sola, ma che conferma la sua convinzione che la gente ordinaria sia l’unica forza vitale dell’umanità.
Presenterò ora tre brevi letture della scena in questione: una lettura “superficiale“, una lettura più contestualizzata e una di genere.
Il modo in cui Mirdja presenta “il popolo” può essere facilmente letto come il rispecchiamento del suo elitismo estetico decadente e del suo modo “arrivista” di distanziarsi dalla “folla”, così come il suo essere racchiusa nel cerchio del narcisismo monologico e improduttivo. Il dialogo tra la polizia e gli ubriachi, una delle poche scene eteroglossiche del romanzo (cfr. Bakhtin 1981 / 1934-41) scompare nel baccano e “nel tumulto generale” e le voci della “gente reale” sono soffocate dalle “voci interiori” di Mirdja, che parlano per il “popolo”: “… I tuoi soldi, la tua bellezza, le tue forme armoniose, la tua carnagione delicata, tutto appartiene a noi… ” (Onerva 1982/1908, 136). La paura del “vero” confronto con l’altro, i confini duri e impermeabili e una posizione disinteressata verso la “vita quotidiana” sono tutti aspetti del “monologismo decadente” dell’escapista.
Tuttavia, se esaminiamo la scena più da vicino, in dialogo con le altre opere di Onerva e con la letteratura e la cultura finlandesi del XIX e XX secolo, l’interpretazione diventa molto più complessa. In primo luogo, il monologo esaltato di Mirdja sulla “fusione delle anime” ad inizio paragrafo può essere letto come una parodia dell’idea del fondersi nel “mare della vita”, tipico del Simbolismo finlandese, nonché una parodia del costrutto di fin-de-siècle della “gente ordinaria” come promessa di “nuova umanità”, l’unica possibile salvezza dall’umanità corrotta, malata e “decadente”. Questo desiderio nostalgico per i tempi premoderni, che i decadenti condividevano con molti dei loro contemporanei, fu un fenomeno popolare anche in Finlandia, insieme alla ricerca delle “radici nazionali” e dell’identità nazionale. Tuttavia, serviva per lo più a tenere l’altro (gli altri) saldamente ancorato al proprio posto, mentre si manifestava una delusione amara quando “il popolo/la nazione/la gente” non si comportava nel modo in cui si supponeva dovesse, non conformandosi alle rappresentazioni idealizzate che ne venivano fatte. Visto da lontano, come avviene all’inizio del paragrafo in questione, il popolo appare come la promessa estetizzata della “nuova umanità”, ma osservato a distanza, come nelle righe di chiusura della stessa sezione, si ode soltanto la “vera” canzone patriottica; quando, però, lo si “sperimenta e sente” direttamente, il popolo si trasforma in avida folla. Il fatto che non vi sia uno scambio verbale diretto tra Mirdja e la folla, come pure il modo in cui le voci della “gente reale” e la loro “risata selvagia” svaniscono lasciando il posto al “dialogo interiore” di Mirdja mentre gli ubriachi vengono “portati via”, suggerisce che l'”ordine” viene ristabilito prima ancora che sia stato effettivamente turbato, prima che il “carnevale” (cfr. Bakhtin 1971/1929, Bakhtin 1965), possibile espressione della libertà attraverso l’arte, possa perfino iniziare.
L. Onerva col marito Leevi Madetoja
Una lettura di genere rivela come, dal punto di vista dello sviluppo di Mirdja come soggetto femminile, il suo egoismo e narcisismo possano essere considerati come una protesta contro le restrittive costruzioni della femminilità, ad esempio nell’ambito del discorso nazionalista. [4] Anche il problema dell’equilibrio di potere è complicato dal fatto che il soggetto in questione sia una donna. Il timore di essere violata, che Mirdja prova per lo sguardo della gente, richiama l’attenzione sulla dimensione di genere del soggetto e può essere letto in dialogo con il costrutto di fin-de-siècle delle “classi inferiori” e del “popolo” come “puri”, asessuali e moralmente superiori alla classe degenerata urbana/superiore (come era il caso del discorso nazionalista in Finlandia), oppure ipersessualizzato attraverso il corpo delle donne delle classi inferiori (per lo più in Naturalismo e Decadentismo). Anche se nella Finlandia del periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo la divisione tra spazio pubblico e spazio privato non fu affatto così rigorosa come ad esempio in Gran Bretagna, la scena dimostra coma una donna “impropriamente” sola negli spazi pubblici possa ancora rischiare l’etichetta di “sessualmente disponibile”. [5]
I testi di Onerva rivelano la sterilità dell’approccio decadente, ma anche l’ipocrisia dell’approccio di quegli “estetisti neo-romantici” finlandesi i quali, loro stessi spesso di origine contadina, sembrano fortemente preoccupati della democratizzazione dell’arte e dalla “trasformazione della vita quotidiana” della gente/nazione/popolo; tuttavia, allo stesso tempo, molti di questi scrittori/intellettuali prendevano le distanze dal “popolo”, percependolo come “altro”, soggetto quindi alla possibilità di essere incolpato di non sopravvivere all’ideale. [6] Analizzato attraverso il processo del “divenire” del soggetto femminile basato sul concetto di soggettività dialogica, pur riconoscendo la specificità culturale e storica, lo scambio dialogico tra le due tendenze dell’estetica del periodo di fine secolo nell’opera di Onerva offre nuove visioni degli aspetti intricati del potere dinamico e della differenza nel contesto in questione. L’analisi delle ambivalenze di questo scambio è uno strumento utilissimo per esaminare le possibilità di sovversione nei testi delle donne, evitando sia le interpretazioni superottimiste, o direttamente ingenue, sia l’impasse pessimista della “comunità fallita”.
Note
[1] Per estetica decadente, intendo l’estetica del movimento decadente nato verso la fine del XIX secolo in Francia e diffusosi rapidamente in Europa. Le sue caratteristiche principali sono il rifiuto della mimesi, il concepimento della realtà da un punto di vista “estetico”, non “realistico”, l’autonomia e la privacy dell’arte in relazione alla “vita” e alla “realtà”, l’adorazione di ciò che è innaturale e artificiale, la soggettività estrema e l’egocentrismo, l’eccentricità, il gusto per qualunque cosa bizzara, fantastica e mistica, l’esotismo, l’erotismo e la perversione, l’analisi dettagliata di sensazioni elaborate e raffinate (cfr. Cuddon 1977, Pierrot 1981).
[2] Nella sua raccolta di racconti Nousukkaita (Parvenu), Onerva divulgò nella lingua finlandese la parola per indicare l’arrampicatore sociale. Il fenomeno del nousukas fu importante nella Finlandia del XX secolo, quando la società finlandese subì un importante cambiamento strutturale.
[3] La parola finlandese “kansa” indica il popolo, la gente e la nazione.
[4] Cfr. il concetto di “costruttivismo essenziale” o “essenzialismo costruttivista” di Ebba Witt-Brattström nel contesto del discorso della Donna nuova all’inizio del XX secolo (Witt-Brattström 2002).
[5] Il grado di disponibilità è determinato dalla condizione sociale della donna: questa scena di Mirdja può essere letta in dialogo con il racconto Marja Havu (Onerva 1911), dove “un’arrampicatrice sociale” di classe inferiore, Marja, prende a passeggiare di notte, piena di sogni rivoluzionari. Il fatto positivo che una passeggiata notturna fosse possibile per una donna, tuttavia, è sovvertito dall’etichetta di “vecchia puttana”, affibbiatale da un passante, che immediatamente sopprime il suo umore rivoluzionario (v. Parente-Čapková 2013).
[6] Per la discussione del complesso rapporto tra l’intellighenzia di lingua finlandese e il “popolo” vedi ad esempio Rojola 1999a, 1999b e Lappalainen 1999, 2001.
Riferimenti bibliografici
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TESTO
L.Onerva, Mirdja, 1908/1982, Helsinki: Otava, pp. 134-7
Quando Mirdja giunse ai campi di Kannisto, la festa popolare stava per iniziare.
Aveva percorso cinque chilometri per assistervi. Perché in realtà? Nemmeno lei riusciva a spiegarselo. Ma da quando era stata in visita al casolare della moribonda Loviisa, proprio da allora l’inconsuetudine si era insediata nella sua mente. Qualcosa di strano che non la lasciava in pace, che la metteva a disagio, rendendola insoddisfatta e insicura. Mirdja si trovava sulla soglia di un’umanità nuova e sconosciuta, spaventosa e grande, della quale lei non sapeva nulla, lei, che si vantava di conoscere le persone…
Cosa era il cosiddetto popolo?
Guardandolo a distanza, lo aveva fino ad ora considerato con leggerezza e quasi casualmente, come persone superficiali sempre prone alla falsità, ed è per questo che era sempre stato così facile per lei ignorarle. Ma ora sembrava che avanzasse verso di lei dal suo stesso livello, alto e profondo come una lavina oceanica, imperativo, esigente e con lo sguardo duro come la questione vitale irrisolta…
Mirdja rallentò il passo. Di fronte e dietro a lei la folla si ingrossava, ragazze ridenti in abiti da festa iridescenti e uomini in cerca di compagnia, dai cui denti sporgevano papirose maleodoranti. A Mirdja sembrò tutto piuttosto ripugnante, e così abbandonò la via maestra e prese un sentiero solitario nel bosco. – Non appena iniziò a percorrerlo fu aggredita di nuovo da quella sensazione fastidiosa, strana. Non dovevi farlo; come potrai mai arrivare al profondo se già la superficie ti intimorisce, Mirdja, Mirdja, Mirdja…? – E sotto il peso di quei pensieri, si arrestò…
Ma dai campi si alzò la melodia di un inno. Si accrebbe solenne e suadente, come sprigionatosi da migliaia di anime che parlavano dalla stessa bocca e della stessa cosa… E in quell’istante non vi fu niente altro nel mondo intero! Solo quella voce imponente e l’infinito silenzio che la circondava.
La festa di Dio, la festa di Dio!, sospirò Mirdja.
E a un tratto, per la violenta emozione si inginocchiò bruscamente, come in preghiera, mentre le sgorgavano lacrime calde… Sentì devozione e sentì dolore… Provò una sensazione opprimente, dolorosa, il desiderio di sentire un legame con questo popolo, questo Dio, questa funzione… Sentì una fame di amicizia e comprensione, la fame eterna, martellante del contenuto della vita e del contenuto del cuore…
E se questo popolo, questo popolo che lotta per gli importanti bisogni primordiali, fosse dopo tutto qualcosa per Mirdja…? E se proprio lì si celasse quella forza vitale inesauribile di cui aveva bisogno?… e la completezza…? Gli andrebbe incontro… e lei d’un colpo diventerebbe enorme, sacrificale e buona … darebbe tutta se stessa, darebbe la sua anima… E l’anima del popolo si scalderebbe e si accrescerebbe anche per quel contatto, si eleverebbe, diventerebbe limpida, e fiammeggerebbe dai migliaia di occhi davanti a lei come un sole inestinguibile di benedizione… Questo sarebbe il più impersonale di tutti i legami personali, la più libera di ogni auto-schiavitù dei sogni sacrificali. Sarebbe come un segreto, il vicino brillio del contatto con l’anima universale che brilla lontana, o con Dio o…
Mirdja si alzò prontamente. Si affrettò quasi di corsa verso l’entrata del luogo di festa e comprò il biglietto con urgenza, come se si trattasse di una questione di vita o di morte… Ma subito dopo aver superato la recinzione ritornò come prima. Provò di nuovo un senso di disgusto…
L’aria pesante, torbida prese a soffocarle le narici, la gola, gli occhi, quell’odore così caratteristico del popolo, che in un istante ci apre gli occhi sulle sue condizioni di vita magra e dura: il sudore del lavoro, i vestiti sporchi, il tabacco, i bambini…
La gente andava ammassandosi curiosa intorno a questa signora solitaria ed elegante, alcuni timidamente, altri facendosi strada e spintonando di proposito.
– Su, su, allontanati ora, non vedi che si tratta di nobiltà?, bisbigliò una moglie al marito che si trovava proprio accanto a Mirdja.
– Abbasso i signori!, ringhiò l’uomo con una risata selvaggia.
Mirdja aveva voltato le spalle alla coppia ed era sul punto di proseguire il cammino quando un nuovo spettacolo l’obbligò a fermarsi. Una guardia aveva gettato l’occhio su un paio di amici che avevano trovato riparo tra i cespugli, sdraiati a sorseggiare una fiaschetta panciuta. – “Qui non si può bere.” – “A noi non serve il permesso di nessuno” -. “Non fare storie o ti faccio provare il vitto e alloggio statale, in un luogo pubblico come questo non si può bere.” – “Chi può negarmi il diritto di mangiare e bere quello che mi piace e dove mi piace, oppure credi che non l’abbia meritato con il mio sudore, eh? Guarda queste mani, non sono le mani di un ladro. Ma forse le palme di un onesto operaio non meritano tanto…” – “No, l’agente vuole dire che dovremmo avere un circolo tutto nostro, per bere e gozzovigliare, come ce l’hanno i signori. Ma ora i tempi sono cambiati, e tutto il mondo ormai è un circolo operaio, e questa festa è la festa dei lavoratori, e tu, poliziotto, tu sei al nostro servizio, perché siamo anche noi a pagarti lo stipendio. Quale sangue e sudore credi abbia lustrato i tuoi bottoni d’argento, se non il nostro, e l’intera magnificenza dei signori, quale miseria credi abbia contribuito a raggiungerla, se non la nostra, e anche quella damigella lì con i suoi falpalà…”
Le voci scomparvero nel tumulto generale. Gli ubriachi furono portati via. A Mirdja sembrò come se d’un tratto il centro di gravità dell’intera scena si fosse spostato verso di lei, e come se ora centinaia e centinaia di nuovi sguardi d’invidia e di rimprovero si posassero su di lei. Una pioggia di scintille ardenti sulla sua pelle da gentildonna, sulle sue mani eccessivamente candide e piccole, che toccava i colori aristocratici del suo vestito, che strappava dal cappello la piuma preziosa, non lasciando inviolato nemmeno un punto… E tutti gridarono: “Bella signora pallida di Lumiluoto, cosa hai fatto mai per guadagnarti questo tuo dolce stile di vita, la tua ricchezza e prosperità? Le tue mani non sono quelle di una operaia, ma di una ladra. I tuoi soldi, la tua bellezza, le tue forme armoniose, la tua carnagione delicata, tutto appartiene a noi…”
Quasi in preda al panico, Mirdja si guardò intorno, oppressa dalle sue immaginazioni. I famelici sguardi cannibali la divoravano sempre più da ogni lato. Tutti bramavano ed esigevano il suo benessere materiale, non uno di loro che volesse la sua anima… E lei pazza che invece intendeva donargliela…
Improvvisamente Mirdja si voltò, depose la borsa nella prima mano vicina e corse via senza voltarsi.
Via, via! gridava la sua anima. Voi che così poco chiedete alla vostra sorte, non avete bisogno di me. E che cosa avrei mai da dare a voi, cui rimangono ancora i magnifici doni della fede e dell’immaginazione! Se non altro, siete le uniche persone ad avere la forza di vivere. La mia anima per voi sarebbe veleno, voi, anime sane! Non potrò mai, mai donarvi né ricevere nulla da voi, e il vostro istinto ha colpito nel segno, partorendo in voi una cieca rabbia nei miei confronti. Poiché la nostra inimicizia è innata, irrimediabile. La menzogna è stata il mio approccio, la menzogna la mia fede in voi, la menzogna la mia offerta altruistica come pure la mia richiesta egoistica di aiuto a voi, la menzogna, la menzogna! Io non sono fatta per voi né voi per me. Soffriamo di malattie diverse. Non siamo in grado di aiutarci e nemmeno di capirci a vicenda…
Dal luogo di festa si alzò lontano un canto patriottico. Mirdja si fermò ad ascoltare. Poi proruppe in una fragorosa risata amara per sopprimere il suo tormento. Era vera follia quel suo desiderio di sentire un legame, dal profondo del cuore, con quella canzone, quella gente, quella ideologia. Era follia, innaturalezza. Perché era un’estranea, lei, la bella signora pallida di Lumiluoto. Non era la sua gente quella che aveva schernito la sua mente malata, né la sua patria questa terra da lei battuta, non il suo Dio quello che dimorava sotto le bandiere in festa.
La bella signora pallida di Lumiluoto qui era un’estranea, malata e senza dimora. Dov’era nata? Dov’era la sua patria? Dov’era la sua famiglia spirituale e consanguinea? Questo popolo non era nulla di simile.
E ancora una volta Mirdja prese a camminare. Pesante e amareggiata la sua mente, e la vuotezza di esule fece pulsare il suo cuore fiero e solitario.
(Trad. it. di Antonio Parente)
La Rondine – 8.12.2017