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Il canto dei Sámi – II

I resoconti ottocenteschi del nord della Scandinavia, come della penisola di Kola,  non sono sempre privi di pregiudizi, in quanto rispecchiavano i più ampi atteggiamenti coloniali dell’epoca e talvolta ritraevano i Sámi attraverso lenti romantiche o esotiche. Rimangono comunque preziosi documenti storici, che offrono un’istantanea della vita e della cultura sámi in un periodo di profonde trasformazioni e influenze esterne.

Presentiamo qui la seconda parte dell’articolo Canti popolari e racconti dei Sámi, pubblicato anonimo nel 1874 nella sezione ‘Feuilleton’ del giornale “Národní listy”, numero 14 (di cui abbiamo pubblicato qui la prima parte).

Terribile è il destino della razza nordica in Europa. Un tempo ne erano i signori assoluti, e le loro ceneri rendevano fertile la terra da cui oggi traiamo il nostro pane. Ora il volto dell’Europa è cambiato.

L’immenso mare che ricopriva quella che oggi è la piana sarmatico-germanica si è prosciugato, lasciando soltanto il lago di Chvalinsk e il lago d’Aral, simili a due piccole pozze residue dopo la pioggia. Così si aprì una strada asciutta che dall’Asia, patria degli Areiti, conduceva direttamente in Europa, strada che gli stessi Areiti non tardarono a percorrere.

Il fondo dell’antico mare sahariano si sollevò, formando un vasto mare di sabbia, culla di correnti ardenti e secche. L’area attorno al Mar Caspio, un tempo fertile, privata dei venti benefici provenienti dal mare sahariano, si trasformò lentamente in deserto. Oggi il livello del lago di Chvalinsk si sta abbassando, e il deserto di Ustyurt continua a espandersi, costringendo gli abitanti di queste terre a cercare nuove patrie.

Così, anche gli uomini del Nord furono spinti a lasciare l’Europa centrale per raggiungere le regioni più settentrionali. Ma nemmeno nelle fredde e umide pianure del nord, tra rocce gelide e rive di mari ghiacciati, trovarono pace: anche lì i russi e gli svedesi li seguirono, dividendo con loro le scarse elemosine che Madre Natura riserva ai suoi figli.

A volte, ai signori di un tempo non è nemmeno concesso dormire tranquilli l’uno accanto all’altro; il fratello strappa al fratello l’ultimo boccone dalla bocca e lo caccia dal suo ultimo rifugio. Sono fratelli anche i Finni e i Sámi, entrambi figli dello stesso ceppo, seppur indebolito; un ramo di esso è ancora vivo e rigoglioso, mentre l’altro è avvizzito e ingiallito, perché la linfa vitale scorre ormai soltanto in uno di essi.

È difficile tener conto delle parentele quando la fame stringe alla gola.

I racconti e i canti dei Sámi non sono altro che un unico grande lamento, una continua denuncia dell’oppressione subita dai Finni. Ed è triste constatare che i Sámi non oppongano più resistenza agli attacchi dei loro nemici. Ovunque risuonano i canti sulle invasioni della Fennia, quasi fossero un rituale. Questo è certamente uno degli aspetti più caratteristici della tradizione orale sámi. Solo di tanto in tanto sorge un uomo coraggioso che osa affrontare Finni, Svedesi o Šuši, ma si tratta di rare eccezioni. Solitamente, infatti, i soli alleati che egli riesce a trovare sono gli incantesimi e le tempeste, raramente la sua stessa forza.

Costeggiavamo il fiume Kola, lungo le cui sponde si estendevano numerose collinette dall’aspetto curioso. «Cosa sono?» chiesi.  «I nostri padri vivevano lì durante l’inverno, per sfuggire ai Finni». Arrivavano in primavera seguendo le scie quando il ghiaccio si scioglieva e poi rigelava, massacravano i Sámi del lago Not e tendevano imboscate ai nostri. Quando la neve cominciava a sciogliersi, per i Finni era difficile portare via il bottino razziato in Lapponia. Scavavano un’enorme fossa, vi deponevano i loro tesori e la ricoprivano con una roccia. Lì, proprio sulla tundra, quella roccia giace ancora oggi, e il tesoro sarà scoperto da chi, con un solo colpo, riuscirà a uccidere cinquanta cervi selvatici.

I Finni non uccidevano le donne e i bambini con la spada; li radunavano invece tutti in una capanna dandole fuoco. Gli uomini che osavano ribellarsi venivano passati a fil di spada, mentre chi si arrendeva subiva il rogo.

Il solo nome Popolo dei Finni bastava a seminare terrore. Non c’è da stupirsi se la memoria di quei Finni furiosi sia rimasta impressa nella mente della gente, soprattutto quando le tempeste polari agitano il mare e le tempeste di neve spazzano con il sibilo del vento le gelide scogliere spoglie delle coste della Kola. Persino i russi dicono: “La Fennia monta in furia”. E io chiedo: “Quale Fennia?”. – “Viveva lassù, su quelle montagne”, risponde il vecchio Sámi, “quella  pagana; alcuni di loro furono uccisi dai cristiani altri si rifugiarono tra le rocce. È ancora lì che dimorano, e se ti avvicini, puoi sentire la Fennia parlare tra le rocce. E gridare, fino a farti perdere l’udito. È qualcosa di terribile: di notte intona i canti, e ci sono giorni in cui irrompe dalle rocce urlando con una furia sconfinata, finché non scoppia la tempesta e la bufera di neve inizia la sua danza”.

          All’improvviso, il vento turbinò così violentemente da incrinare le pareti. “Oh, silenzio! La Fennia non tollera quando si parla di lei”, gridò il Sámi.

          Sui monti Chibiny vi sono due rocce ripide, come un enorme masso erratico spaccato in due, nel mezzo del quale si trova una pozza scura senza fondo. Su questo luogo mi hanno raccontato una bellissima leggenda.

«Arrivarono i Finni, e i Sámi fuggirono nella foresta. Ma i Finni li inseguirono anche là. I Sámi salirono sui monti, e i Finni li seguirono ancora. Non c’era speranza di salvezza, nessun luogo dove rifugiarsi. Già molta della nostra gente era stata massacrata, quando improvvisamente apparve uno stregone. Pronunciò un incantesimo sulla montagna, e la montagna si aprì. Tutti i Sámi entrarono nella montagna. I Finni si guardarono intorno, ma non videro nessuno. Solo uno dei loro capi aveva udito le parole magiche dello stregone.

Durante la notte i Finni si sdraiarono per dormire, e allora il nostro salvatore pronunciò un altro incantesimo: la montagna si aprì, lasciò uscire i Sámi e si richiuse dietro di loro. Al mattino i Finni si svegliarono, e quel capo, già pregustando il bottino dei Sámi, pronunciò le parole che aveva ascoltato. La montagna si aprì, fece entrare i Finni, ma subito si richiuse. Tutti morirono lì, perché non conoscevano davvero l’incantesimo, né la profezia che permetteva di uscire dalla montagna.

In mezzo a loro c’era però anche una ragazza Sámi, rapita con la forza. Suo padre supplicò lo stregone di liberarla. Lo stregone inizialmente rifiutò, ma l’anziano insistette tanto che infine l’ammaliatore cedette: «Farò come chiedi, ma bada che questo non porti sventura.» Pronunciò allora le sue parole magiche, la terra tremò, la montagna si aprì, e così è rimasta aperta fino ai giorni nostri, perché nessuno è più riuscito a richiuderla. Il vecchio trovò la figlia ormai morta tra mucchi di cadaveri dei Finni. Ancora oggi, dicono i vecchi cacciatori, si possono trovare là delle ossa bianche…».

Che variante simile alla leggenda boema di Blaník, o alla storia russa di Il’ja Muromec e dei suoi guerrieri che, inseguiti dai Tartari, trovarono rifugio nelle viscere della montagna e ancora oggi aspettano il momento propizio per uscirne!

Gli stregoni della Lapponia non fanno mai del male ai Sámi; al contrario, agiscono sempre come loro protettori e aiutanti. Il ruolo della Furia è stato qui assunto dai Finni. Il seguente racconto l’ho udito a Padun, sulle rive del fiume Tulom:

Un vecchio Sámi viveva con sua moglie, e non avevano figli. Era solito camminare nei boschi, sempre assorto nei suoi pensieri. Un giorno andò verso il Padun e là notò un punto senza neve. Rimase sorpreso: «Ovunque nevica, perché mai qui non c’è traccia di neve, ma solo terra nuda?» Si fermò e osservò con attenzione, domandandosi se qualcuno abitasse lì sotto. Attese, e all’improvviso vide qualcosa uscire dalla terra: erano bambini che iniziarono subito a giocare. Si divertivano, agili come scoiattoli. Ma cosa erano? Diavoletti, oppure spiriti del bosco? Solo il Signore poteva saperlo.

Il vecchio rifletté, poi tornò da sua moglie e disse: «Filami un lungo retino». Lei così fece. Prese poi il retino, legato a una corda, e tornò sul punto senza neve. Lo gettò a terra e aspettò. Quando iniziò a imbrunire, e gli ultimi raggi del sole illuminarono quel terreno scoperto, i bambini emersero dalla terra correndo e giocando. Uno di loro vide il retino, iniziò a giocarci e vi rimase impigliato, mentre la corda gli si attorcigliava attorno ai piedi. Il vecchio gridò forte: gli altri bambini fuggirono, lasciando il compagno intrappolato. Il vecchio lo prese con sé, lo portò a casa e disse alla moglie: «Non avevamo figli, ma ora eccone uno!»

Lo allevarono con cura, ed egli crebbe bene e sano; solo che ogni primavera dovevano stare attenti affinché non fuggisse. Una volta, tuttavia, proprio in primavera, il ragazzo riuscì a scappare. Corse per montagne e foreste finché si imbatté nei Finni, che lo catturarono e gli chiesero da dove venisse e chi fosse. Ma il ragazzo rispondeva usando esattamente le loro parole. «Buttiamolo nel fiume!», decisero i Finni. Lo afferrarono e lo gettarono nell’acqua. Subito però videro che ad annegare non era il Sámi, ma uno di loro, mentre il ragazzo si trovava di nuovo lì accanto. Ripeterono il tentativo, ma il risultato fu identico.

«Lo uccideremo con la spada!», consigliò allora l’atamano. Sguainarono le spade, ma furono i tre Finni a rotolarsi nel proprio sangue, mentre il ragazzo rimase illeso. A quel punto anche i Finni cominciarono a spaventarsi e gli ordinarono di portarli dove abitavano i suoi genitori. Lui li condusse per quattro giorni fino all’isola di Tulom, ma avvicinandosi disse: «Dobbiamo fermarci per la notte; non è prudente giungere quando fa buio». Arrivati sull’isola, si addormentarono. Il ragazzo slegò allora la barca e fuggì da solo. Al mattino, i Finni si svegliarono: la barca era sparita, e così anche il ragazzo. Morirono tutti sull’isola. L’atamano sopravvisse appena abbastanza per seppellire i compagni e i loro tesori, ricoprendoli di pietre. Lasciò un’iscrizione: «Chiunque ucciderà qui il proprio figlio e scaverà un tumulo, troverà il tesoro, ma morirà anch’egli». Da allora i Sámi passano silenziosi davanti al tumulo, dicendo sottovoce: «Sarà terribile il giorno in cui quel tesoro verrà ritrovato».

Pochi conoscono ormai le antiche storie dei Sámi. Un tempo era diverso. Perfino l’epopea nazionale dei Finni, il grande Kalevala, racconta le loro eroiche battaglie, ma i Sámi stessi ne conservano solo poche tracce.

Un tempo, sulle rive del lago Imandra, viveva un uomo robusto in un terreno fortificato. Una notte mille Finni giunsero di sorpresa, sfondando il recinto. «Perché siete venuti?» chiese il Sámi. «Per catturarti!», risposero quelli. «Ebbene, che posso farci! Lascerò che entriate». Ordinò ai servi di portare dieci renne, le più grasse della tundra, e le offrì ai Finni. Poi, sradicò dal terreno un grosso abete, lo ripulì dai rami e disse a sua madre: «Vattene lontano, perché ora io affronterò i Finni!». La madre si rifugiò nel bosco. L’eroe mise poi sul fuoco grandi calderoni, uccise le renne e fece bollire la carne, invitando quindi i Finni a banchettare. Essi si sedettero e cominciarono a mangiare. Ma improvvisamente, l’eroe estrasse un coltello lungo due cubiti, fingendo di voler tagliare la carne, e con un rapido movimento tagliò via le dita all’atamano. Il sangue gli schizzò sulle labbra, e lui urlò con voce potente: «Com’è gustoso il sangue dei Finni!». Prima che gli altri potessero rendersene conto, afferrò il tronco d’abete e cominciò a picchiare i Finni, continuando a lungo. Non c’era via d’uscita, tutto intorno era ben recintato. Se i Finni cercavano di ritirarsi da una parte, proprio lì oscillava il tronco; se fuggivano dall’altra, l’abete li inseguiva. Continuò a brandire il tronco, anche se ormai erano tutti morti. Fu allora che si ricordò di sua madre. La chiamò, ma nessuna risposta. Pianse amaramente, pensando di aver picchiato persino lei e i servi. Ma la madre arrivò dalla foresta sana e salva. Gioiosa, seppellì i morti ammucchiandoli in tumuli; ancora oggi, passando lì accanto, si sentono rumori, botti e fragore di armi. I Sámi preferiscono evitare quel luogo.

Un’altra volta, i Sámi celebravano una festa tradizionale, il “giorno di Il’ja”. Giocavano all’aperto. Tra di loro c’erano anche due fratelli, che improvvisamente videro arrivare i Finni, allineati in numerose file. Uno afferrò il gancio dal fuoco, l’altro indossò rapidamente una pelliccia. Non avevano scampo: i Finni davanti, il fiume dietro. Giurarono di non abbandonarsi l’un l’altro e si lanciarono contro le fila nemiche, facendosi strada con furia. Ne uccisero molti con il gancio, superarono la prima, la seconda e la terza linea; ma a quel punto uno dei fratelli rimase indietro. Lo afferrarono per la pelliccia, che lui rapidamente si tolse riuscendo a scappare. Entrambi raggiunsero il fiume, largo quattro braccia, e lo attraversarono. L’atamano nemico non riusciva a passare a nuoto e, infuriato, lanciò la spada contro i fratelli. Quello con il gancio montò in collera, afferrò la spada appena lanciata, tornò indietro a nuoto e sfidò l’atamano. Combatterono a lungo finché, infine, il Sámi ebbe la meglio, gli tagliò la lingua e tornò da suo fratello. L’atamano, furioso per non essere stato aiutato dai suoi uomini, incendiò per vendetta una capanna piena di Sámi; tuttavia, i due fratelli tornarono in tempo per salvare la loro gente.

La natura delle donne sámi è descritta con cattiveria; l’infedeltà sembra essere un loro tratto comune. Si racconta che un Sámi fosse così potente da resistere facilmente ai Finni. Improvvisamente, però, arrivò sua moglie, gli tagliò la corda dell’arco e gridò: «Venite a prenderlo, ora è indifeso!». I Finni esitavano ancora e si limitarono a infilare la punta di una spada attraverso il recinto, per vedere se l’uomo avrebbe tentato di afferrarla. Disperato, il Sámi afferrò la lama con le mani nude e si ferì gravemente le dita. Solo allora i Finni osarono catturarlo e portarlo davanti allo zar, che ordinò di uccidere la donna, perché una moglie non avrebbe mai dovuto tradire il marito, mentre il Sámi fu accolto alla sua corte con tutti gli onori.

Un’altra fiaba narra di un Sámi che incontrò il diavolo nel bosco. «Vuoi del denaro?», chiese il diavolo. «Sì». «Allora portami ciò che ti è più fedele», pretese il diavolo. Il Sámi ci rifletté sopra e, tornato a casa, raccontò tutto alla moglie. «Porta me», disse lei, «io sono la più fedele di tutti». Così la portò nella foresta, ma lì il diavolo non c’era. «Intanto gioca un po’ con i miei capelli», le chiese l’uomo, addormentandosi poco dopo. Allora arrivò il diavolo e sussurrò alla donna: «Uccidilo! Verrai con me e sarai padrona di tutte le ricchezze». La donna dapprima esitò, ma alla fine prese il lungo coltello del marito e stava per trafiggerlo quando il diavolo svegliò l’uomo: «Chi mi hai portato? Vedi quanto è fedele? Torna a casa e portami davvero ciò che ti è più fedele!».

Il Sámi cacciò la moglie nel bosco e tornò a casa, dove ormai non c’era più nessuno, tranne il cane. Prese allora il cane e lo portò nella foresta. Di nuovo il diavolo non c’era. L’uomo si addormentò ancora. Il diavolo tentò di avvicinarsi di soppiatto, ma il cane iniziò ad abbaiare e gli si lanciò contro. «Ecco, questo è davvero ciò che ti è più fedele», disse il diavolo, pagando al Sámi tutto il denaro promesso, interamente in argento russo.

Ormai da tempo i Sámi si sono convertiti al cristianesimo. Mi hanno raccontato com’è avvenuto il loro battesimo: all’inizio non volevano farsi battezzare e fuggirono sulle montagne, sfuggendo al loro glorioso padre. Ma Dio mostrò allora la sua forza prodigiosa: afferrò due Sámi e li battezzò con la forza. Vedendo gli effetti benefici del battesimo, anche tutti gli altri decisero di farsi battezzare.

(Le foto dei Monti Chibiny utilizzate sono tutte tratte da wikipedia)

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