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Anja Snellman: Sonia O. è stata qui

”Sonja O. kävi täällä”

WSOY, 1981, pp. 275

Romanzo

Romanzo culto della giovane generazione finlandese degli anni ’80, Sonia O. è stata qui descrive con sferzante ironia il radicalismo  politicizzato degli anni ’60 e ’70. In questa versione paradossale di bildungsroman, la protagonista rivela e denuncia l’ipocrisia e la doppia morale sia degli intellettuali conservatori sia dei giovani comunisti pseudorivoluzionari di origine borghese, i quali, in realtà, disprezzano i veri proletari.

Sonja O. è una ragazza che non non si accontenta di vivere una vita alla volta. In pochi anni (e poco più di duecento pagine) macina più uomini e più identità di quanto tante donne riescano a fare in una vita intera. Tutti trovano in Sonja quello che stanno cercando, ma Sonja non si ritrova nei ruoli che interpreta. Sonja O. non è la ragazzina gentile e disponibile che molti vorrebbero, non l’ intransigente proletaria che sua madre ha cercato di coltivare, e non è una piccola moglie nevrotica, né una musa misteriosa né una femminista lesbica.
Alla fine, Sonja O. è una donna irrequieta capace di eccitare le fantasie di uomini e donne ancora in qiesto secolo. Di certo è la prima eroina scopertamente erotica della letteratura finlandese.

Le esplicite descrizioni di scene sessuali, narrate da un punto di vista femminile, hanno sempre destato un discreto imbarazzo.

Anja Snellman

(Helsinki, 1954 –)

Anja Snellman, che fino al 1997 ha pubblicato sotto il nome di Anja Kauranen, è una delle più importanti e controverse prosatrici finlandesi degli ultimi decenni. Debuttò nel 1981 con quello che ben presto diventò il romanzo culto della giovane generazione finlandese degli anni 80, Sonia O. è stata qui, uno sguardo ironico al radicalismo politicizzato degli anni ’60 e ’70, raccontato dal punto di vista di una donna proletaria che fa il suo ingresso nelle università e nei ‘circoli culturali’ della Finlandia. Dopo i ruoli di portavoce della generazione punk e demistificatrice della rivolta degli anni ’60 e ’70, la Snellman si evolve in acuta osservatrice della natura umana e dei mali sociali. Nei numerosi romanzi da lei pubblicati è possibile trovare temi spesso considerati tabù o, perlomeno, non molto esplorati nella letteratura finlandese, ad esempio il tema dello sport professionistico di vertice tra i giovanissimi (Buio solo ai nostri occhi, Pimeää vain meidän silmillemme, 1987), quello dell’aggressività femminile (Geografia della paura, Pelon maantiede, 1995), delle relazioni madre-figlia (Il tempo della pelle, Ihon aika, 1993) e padre-figlia (Aura, 2000). Oltre a 22 romanzi (l’ultimo Kaikkien toiveiden kylä, 2018) la Snellman ha pubblicato anche tre raccolte di poesia. È anche autrice di sceneggiature cinematografiche, radiofoniche e televisive, e i suoi romanzi sono stati tradotti, tra l’altro, anche in francese, tedesco, svedese e danese.

Qui un’intervista in cui la scrittrice parla del suo romanzo: https://areena.yle.fi/1-3482176

Sonia O. è stata qui

Dalle marmitte delle auto su via Helsinki si agitano svolazzanti drappi e veli nuziali, e all’angolo di Häämentie e Helsinginkatu sottili fettucce bianche vaporano dalle bocche dei passanti.

Il barometro in cima alla Kansatalo segna sereno, tutto giallo.

Sul sedile posteriore del taxi si discute del futuro predetto dallo stagno fuso; sarà il caso di crederci? Quale grumo rappresenta la morte? E quel coagulo a forma di falce e martello significherà rivoluzione quest’anno o l’anno prossimo? Oppure l’occupazione della Polonia e il dominio socialista del mondo.

Sonia O. siede in silenzio accanto all’autista e si mordicchia le punte dei capelli.

Sonia O?

Forse da piccola si vergognava del suo cognome breve, esotico, nemmeno abbellito dall’onnipresente suffisso finlandese –nen, sembrava piuttosto ricordare un nitrito. Quando le chiedevano come si chiamava, prendeva a balbettare, a far girare lo sguardo lungo il soffitto, a muovere la lingua da un lato all’altro della bocca, martellando: So…nia…O…oo…oo…

E così già a scuola iniziarono a chiamarla Sonia O. (p. 14)

A sedici anni ero una vergine allupata. Tutto il mondo ruotava intorno alla mia fichetta.

Reijo Seilor aveva dieci anni più di me, la stessa età che ho adesso e, secondo il mio immaginario di allora, era un vero lupo di mare. Dio mio! Lo sguardo fulminante, mi schizzava negli occhi come acciaio fuso, voce imperiosa, quindici centimetri di sorriso, andatura dinamica. Su tutto il corpo un pelame riccio che va rigirando intorno all’indice, sorridendo distrattamente.

L’esatto opposto della docilità. L’esatto opposto della femminilità.

L’esatto opposto della contraddittorietà.

L’esatto opposto del Gattone ballerino.

Reijo Seilor mi fece quello che il Gattone mai avrebbe potuto farmi.

Non mi imbattei in Reijo Seilor durante uno dei miei giri nella zona del porto. Lo vidi per la prima volta alla biblioteca di Kallio; sfogliava riviste di caccia, pesca o di cose tecniche. Avevo sedici anni, le unghie rosicchiate fino alle cuticole, un bel corpo tonico, tutta braccia e gambe, tutta occhi e capelli.

Sollevò per un attimo la testa riccioluta da una Chrysler metallizzata e mi fulminò con lo sguardo.

Aveva i baffi. Dei folti baffi scuri. E così si avverava la fantasia erotica delle mie masturbazioni, quella di un robusto idraulico che mi bacia con violenza su tutto il corpo con le sue labbra turgide e mi punge coi baffi setolosi, dove sono intrappolate le briciole del pasto.

A dire il vero lo incontrai solo poche volte, seduti al bar, al cinema e alle feste dei suoi amici, che cercavano di spacciarsi per bohémien; lì provai per la prima volta i superalcolici, fumai l’haschish da una strana pipa ricurva e ingoiai delle pillole che non sapevo cosa fossero, ma che mi fecero andare fuori di testa, molto più che una sbronza. Una volta mi presero in giro facendomi sniffare una dose di talco per neonati  spacciandola per cocaina. Ero una cavia, una bambina viziata e un po’ matta e volevo assaggiare tutto, volevo provare tutto. A scuola andò tutto felicemente a farsi fottere e i prof incazzati telefonavano a casa, chiedevano a mia madre dettagli sulla situazione familiare. E in quel periodo, con le mie continue sbandate andarono a farsi friggere anche le ore di danza. Il Gattone ballerino andava su tutte le furie vedendomi oziare, e cercava di far leva sulla parte migliore di me, essendo stata la prima, non è vero?,  ad entrare all’Accademia di danza, allieva non pagante nell’intera storia dell’Istituto. Io non sentivo quasi nessun rimorso di coscienza, nessuna umiliazione, non ne ero capace allora e non lo sono neanche adesso. Dovere e responsabilità per me sono sempre state delle parole lontane, mistiche, come le stelle Sirio e Orione. Lontane, mistiche ed eccitanti.

Un giorno, all’improvviso, Reijo Seilor scompare, si eclissa, svanisce in qualche buco nero, con la stessa velocità con cui era comparso. Salpa per nuovi lidi e abbandona Sonia O., lascia la giovane fichetta impaziente, terrorizzata dalla paura di essere rimasta incinta; l’uomo abbandona la ragazza come una mascotte di poco valore, di nessuna importanza, la bambolina da spogliare non lo interessa più, anzi gli dà sui nervi.

Reijo Seilor fugge per altri lidi, senza congedarsi, senza neppure una carezza.

Così ho imparato a fare stronzate, a filarmela lasciando tutto a mezzo e prendendo triviamente la porta sul retro quando capitava l’occasione.

Una mossa classica, sorride Sonia O. confidandosi al suo diario, e intanto comprende cosa significhi la parola “dolceamaro”. Sonia O. si ricorda di quando le donne che facevano il bucato sul molo a Sörnäinen dispensavano consigli: sposa pure chi vuoi, basta che non sia uno di quelli inguaribili irrequieti, un marinaio, quelli seguono l’uccello come la bussola  e, comunque, alla fine spiegano le vele su quel loro albero maestro e sempre col vento in poppa vanno alla ricerca di qualcun’altra mansueta e credulona.

Comunque, non stetti lì a rattristrami a lungo. Altrettanto felicemente mi rituffai sui libri e per tutto il secondo semestre cercai di riguadagnare i voti persi nel primo, come prima o forse più di prima continuai a sfacchinare in palestra, a masturbarmi parecchio; avevo diversi orgasmi al giorno e il clitoride indolenzito, divoravo libri, fino a notte fonda scrivevo il diario e mamma non diceva niente perché pensava che facessi i compiti, come una secchiona.

Quando finalmente fui certa di non essere incinta, andai in gran segreto da un ginecologo, implorai quel giovane dottorino, che arrossiva fino alle orecchie, di darmi la pillola, finché non riuscii ad ottenere una bustina di cellophane con delle pillolette gialle; ogni giorno ne prendevo una e iniziai ad andare a caccia di nuovi ragazzi e di nuove avventure. Mi sentivo una donna vera. Già sapevo a cosa stare attenta.

Reijo Seilor, porca miseria, aveva ridimensionato le mie fantasticherie di adolescente, aveva mandato in frantumi tutte le mie illusioni e aveva intorbidito le immagini radiose dei miei sogni raccontandomi quelle sue sporche storie, che mi lasciavano di stucco e mi eccitavano, e un po’ alla volta mi rassegnai al fatto che il mio Primo Vero Ragazzo avesse avuto più o meno centinaia di donne di dubbia reputazione prima di me, anche quando già stavamo insieme, e che avrebbe continuato ad averne un sacco anche dopo di me, e sicuramente molto più brave a letto di quanto non fossi io, l’inesperienza fatta persona.

Accettai tutto ciò e mi rassegnai anche a non essere considerata un essere pensante e che lui fosse interessato soltanto a soddisfare i suoi bisogni fisici, e poteva farlo ogni volta che voleva, bastava che mi massaggiasse un po’ la bocca dell’utero con quel suo pene nodoso. Lasciai che mi considerassero una ninfetta, un trofeo da esibire davanti agli amici, di cui vantarsi e, allo stesso tempo, vergognarsi, perché, nonostante il trucco, le varie acconciature e la sicurezza con cui masticavo la gomma, ero sempre e nient’altro che una bambolina lentigginosa. (pp. 76-77)

Mi vedo seduta nell’aula dove si tiene il corso di estetica marxista e, muta come un pesce, ascolto la lezione sui metodi creativi dell’arte socialista.

È autunno di nuovo, son passati tre anni dal rovesciamento del governo Allende e cinque dalla fondazione del Dipartimento di estetica all’Accademia socialista.

È autunno e presto compirò ventidue anni, ho preso quasi ventimila marchi di prestito per gli studi e sul libretto ho un minimo di crediti, appena quanto basta per dimostrare, in qualche modo, che i miei studi vanno avanti. Ho i capelli rossi, fastidiosamente lunghi, ispidi e ondulati e la pelle imbrunita dal sole, piena di lentiggini. E alle orecchie dei grandi cerchi dorati, che Ilari il Bardo mi aveva regalato per il compleanno. L’avevo conosciuto la primavera precedente al Kosmos, era appena tornato da un ricevimento presidenziale, dove gli era stato assegnato il premio nazionale di poesia per la raccolta “Va bene così?”, e fin dai primi calici di champagne legammo così bene da passare una meravigliosa estate al mare. Proprio in quel periodo Ilari il Bardo stava finendo la sua nuova raccolta, quella dedicata a me, e nella quale, come un filo rosso, s’intrecciava il motivo dell’amore del poeta, ex radicale che invecchiando era diventato cinico, per la giovane Beatrice di Helsinki, la rossa selvaggia dagli occhi verdi. (p. 131)

La “Vanha” (Sede dell’associazione degli studenti universitari) occupata nel 1968

Ed è così che è il mio ultimo autunno d’attività politica, proprio l’autunno quando in tutti i corsi e comitati e gruppi di lavoro e commissioni per i festeggiamenti mi dettero il benservito.

Ma per il momento non so ancora tutto questo.

Mi trovo nella saletta riunioni seduta ad un enorme tavolo di legno di quercia, con la gomma incollata al palato, e me ne sto ad ascoltare le sparate della relatrice ospite. Una celebre trombona, una che aveva occupato la vecchia Casa dello studente, aveva scritto slogan per strada, aveva lanciato un sasso contro lo Scià e per questo era finita in prigione e così via. Poi s’era ben temperata e aveva studiato chissà cosa e chissà per quanto tempo in Unione sovietica, era passata anche dall’Istituto Gorki e dà l’impressione di una che comprende tutto alla perfezione, ma è una inguaribilmente seria e una moralista troppo pedante per discutere dei processi creativi e delle passioni degli artisti.

Nonostante ciò, il nostro esiguo collettivo pende dalle sue labbra e l’ascolta con la massina concentrazione, il collo dritto.

Ingoio l’ennesimo sbadiglio, la gomma mi si appiccica alla cresta alveolare, come se prendessi il calco per la dentiera. Penso al perché i comunisti parlino sempre più a lungo degli altri. Altro che propaganda d’assalto, caro Lenin!

In mezzo a loro mi sento sempre un po’ a disagio, un po’ spuria, poiché mi rendo segretamente conto che nessuno di loro è particolarmente intelligente, brillante e neppure originale. Leggono molti libri e giornali, di un certo tipo, e ascoltano la musica, di un certo tipo, e in teatri, di un certo tipo, s’incontrano con un certo tipo di persone e con loro discutono di un certo tipo di cose.

Spesso mi sorprendo a pensare come siano retrivi e miopi e, per molti aspetti, inesperti. Va da sé che io mi considero esperta sotto molti punti di vista, nonostante l’età.

Molti compagni fingono di essere più poveri e bisognosi di quanto non siano in realtà, i prestiti per gli studi li prendono soltanto per una questione d’immagine, anche se, in effetti, non ne avrebbero bisogno, i genitori pagano senza fiatare il loro vitto e alloggio e ogni tanto qualche festicciola (e naturalmente sperano, passando i rotoli di banconote, che questa intossicazione comunista svanisca presto dalle università, e che tutto torni come prima, perché è soltanto una moda, non è vero?), ma i loro amati pargoletti continuano a chiedere prestiti, in modo da poter continuare a presentarsi, senza far eccessiva violenza alla propria coscienza, come studenti proletari sfruttati dal sistema bancario. (pp. 132-134)

Il futuro ministro Erkki Tuomioja alla manifestazione contro lo Scià di Persia nel 1970

Pensai a cosa fosse rimasto di me.

Pensai a cosa fosse rimasto di me, dopo che gli uomini avevano raccolto e arraffato tutto ciò che rispondeva ai loro bisogni; dopo avermi classificata con le loro opere, con parole loro.

Del mio profilo una poesia d’amore classica, ispirata alla mitologia greca. Dei miei seni la trama per un racconto. Del mio sedere una metafora magistrale e succosa. E i miei occhi, laghi paludosi, nei quali i miei uomini geniali sono voluti affondare con le loro penne, i loro pennelli e le loro dissertazioni.

Ho creduto in loro poiché erano il più delle volte intelligenti e dotati, o almeno molto forti e sicuri di sé. Già da piccola davo ascolto al mio vecchio, che fin da allora mi costringeva al ruolo di quella che sculetta, e si vantava di me, del mio aspetto grazioso e particolare, al lavoro, nelle birrerie e al mercato, proprio come avrebbero fatto anche gli altri in seguito. Ero un oggetto ornamentale.

La grazia di una fanciulla. La sensibilità di una giovinetta. Una femminilità fragile. Raschia la superficie: da qualche parte, lì in fondo, c’è una tigre sottomessa.

Sono stata di una sensualità delicata, sul tipo di Aino del Kalevala. O anche lussureggiante e sicura come la Madre Terra. O forse una piccola strega misteriosa e sogghignante, sul tipo della Bellezza russa di Glazunov. O poi sono stata la puttanella di Sörnäinen, piccantemente volgare. L’originale. The real thing.

Mai nessuno, però, che abbia mischiato tutti questi tratti contrastanti, che abbia supposto in me, o nelle donne in generale, dei conflitti strazianti e tormentati. Agli uomini piacciono le lenzuola pulite e tipi di donna ugualmente puliti.

 Quante volte mi hanno descritta, incorniciata, scartata. E come sono stata ‘migliorata’. Sono la novellistica incarnata, sono il dipinto più originale. Sono i calzoni di fustagno dai capelli rossi e la pista da ballo dagli occhi verdi. Sono la Lolita di Nabokov e la Nanà di Zola. Sono la Saara di Aho e le donne di Salama. Sono Osmi e Riccioli d’oro di Waltari.

Chi consolerebbe un mito?

 “Può darsi che tu abbia veramente del talento, chissà”, mi sussurrò un critico letterario famoso, accarezzandomi i seni con le sue dita piccole, vellutate e rosa come il marzapane. “Ascolta, anche il talento è una cosa così dannatamente complicata”, spiegava ai miei capezzoli.

    Ma Dio mio, pensai mentre stringevo le cosce, c’è spazio per me tra gente come voi, se non sotto di voi? E la mia storia, scritta col miele della mia fica, potrà mai avere lo stesso valore di quella scritta con l’idromele dello sperma? Leggereste mai delle narrazioni ficocentriche con lo stesso entusiasmo con cui leggete quelle fallocentriche?

“ Autodisciplina. Diligenza. Sacrificio. Motivazione. E nasce un buon libro. “

Il critico penetrò la mia fica ansimando pesantemente e a natiche strette (così era anche come critico). Poi cominciò a strofinarsi su di me e volle che gli mettessi entrambi gli indici in culo. Glieli ficcai tutti dentro. E godetti quando urlò per il dolore.

Poi, prima che il respiro tornasse regolare, il critico sollevò la faccia slanciata e cavallina dai miei seni e disse, col sorriso più luminoso e raggiante possibile, che bisogna vivere in modo da permette allo scrittore dentro di sé di emergere.

Ah, sì. Mi ricordai di aver già sentito la stessa frase molte volte da un redattore letterario che muoveva la sua coda di piume e sperava di diventare scrittore. Il critico, mordace ed erudito, tirò un sospiro profondo e mi spinse il cazzo nella fica come se volesse mettere il puntino sulla i, e ancora una volta non mi chiese chi fossi, da dove venisse una pavoncella come me. Delle varie fasi della sua vita, invece, mi raccontava spesso e copiosamente.

In effetti i tuoi testi non li ho letti, ma quando ti guardo. . . Scricciolo, ho l’impressione che le tue poesie potrebbero piacermi. Scrivi poesie, non è vero? 

I miei amanti hanno sempre voluto essere anche miei consiglieri.

Forse per il resto della mia vita dovrò provocatoriamente dimostrare che me la cavo bene anche da sola, soltanto con le mie forze. Che so osare e che, dopotutto, anch’io ho una testa e un cervello. E che le mani e la bocca le posso usare anche per altre cose, e non solo per prendere cazzi. Per le donne ciò può essere qualcosa di imbarazzante. Per gli uomini mai.

Per me lo è stato.

Le donne sembrano procedere nella vita in lenta tranquillità, anche se, in effetti, cercano di districarsi inutilmente, per una settantina d’anni, tra miti e bucato, morale e coralli, regole ad hoc e slip. Le donne chiedono aiuto l’un l’altra, con un tono così alto che risulta inaudibile alle orecchie maschili (già Humphrey Bogart sapeva chiamare a sé le donne con un  fischio); le donne scrivono alla rubrica del lettore o si lasciano cadere l’una nelle braccia dell’altra nell’angolo di una lavanderia, nella sala d’aspetto di un salone di bellezza, nei bagni di un locale.

E la cosiddetta rivoluzione sessuale, la libertà sessuale con pillole e aborti ha messo ancora di più tutto sottosopra: invece che proprietà privata, la donna è diventata proprietà comune.

Comunque, noi donne abbiamo le nostre ardite perversioni (che non devono per forza avere a che fare con la biancheria di pizzo nero o con gli stivali in latex rosso fuoco) e le nostre fantasie sessuali (che potrebbero togliere il respiro anche ai più assidui frequentatori di saloni per massaggi e di live-show, se solo sapessero, se solo potessero spiarci).

In esse si agitano uomini malvagi e cattivi ragazzi, modelli stupidotti belli come diavoli, col bozzo in bella evidenza. E bruttoni, un po’ patetici. Cocchi di mamma, studenti con le fossette sulle guance. Neri e indiani. Peli crespi e fasce di pelle per capelli, fianchi che ondeggiano e labbra turgide. Bau. Miao.

Ma non si è ancora pensato di costruire un’industria del sesso sull’immaginario di noi donne, perché le donne non hanno voce in capitolo in queste cose. Almeno per il momento.

Penso e spero che ci sia un limite anche alla capacità di identificazione, di empatia e comprensione delle donne. Molte sono già adesso stufe ed esacerbate.

Anche quel vecchio vanesio, scrittore di scandali e sesso, è ormai morto, e, per Dio, apparteneva completamente ad un altro mondo rispetto a me, a mia sorella e a mio fratello.

Eppure anch’io, quel che so delle donne, l’ho appreso dal buon vecchio Miller, dai ragazzacci di via Flemaring, da Hannu Salama.

Hooligan sulle moto e scrittori: incomprensibilmente la stessa immagine di donna. E lo stesso modo di amare, di fare l’amore. Se qualcuno volesse imparare ad amare leggendo i romanzi  scritti dagli uomini, ahimè, non capirebbe la bellezza celestiale dei preliminari, non apprezzerebbe gli scoscendimenti della clitoride.

Ma non sono neanche sorpresa che gli uomini non leggono un numero maggiore di libri scritti dalle donne.

Il buon vecchio Miller ha forse letto dei testi di Anaïs Niin che non fossero quelli nei quali si parlava di lui? Difficilmente. E non sono neanche dei passi così eccitanti.

Ah, Anaïs Niin, perché sei stata anche tu così dannatamente accademica, eterea e sensibile. Perché  anche la tua femminilità ha camminato a piccoli passi, trotterellando, e ha evitato i grandi balzi, la velocità, il vigore, il dondolio felice delle tette?

E Virginia Woolf, Emily Dickinson, Anna Ahmatova, Sylvia Plath, Edith Södergran, mangiatrici di fuoco timidamente rintanate nel proprio guscio. Sognavano notti da tigre. Corpi straboccanti di coscienza, morale, colpa. Brave riscaldatrici del focolare letterario e allo stesso tempo equilibriste sul filo della lama dell’artista.

Quando per la prima volta sentii qualcuno pronunciare in tutta serietà la parola emansipaatio, emancipazione, risi fragorosamente,  perché  anche tutti gli altri (uomini) intorno a me ridevano.

La donna che parlava ci rimase male e, balbettando confusamente, concluse il suo discorso.

All’improvviso mi venne in mente la parola finlandese mansikka, fragola, dal suono simile.

Di un rosso vivo e succoso.

Così mi piace. (pp. 264- 269)

Col secondo marito, il chitarrista Jukka Orma

Qui un documentario che ricostruisce il ’68 e le agitazioni studentesche a Helsinki

Un bel documentario di Hannu Karpo sulle proteste dei finlandesi nel 1970 durante la visita a Helsinki dello Scià di Persia

Antonio Parente e Nicola Rainò.

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