Giacomo Leopardi, l’Infinito, 453 caratteri

Per i duecento anni della stesura dell’Infinito di Leopardi, Rai Cultura e Direzione Creativa Rai hanno promosso un video, 200 anni di infinito, che “si propone di chiudere l’anno nel segno della bellezza e della valorizzazione di una delle espressioni più alte della nostra letteratura”. Sullo schermo scorre il testo, riproducendo l’autografo leopardiano del celebre sonetto, letto verso per verso da 22 cantautori italiani altrettanto celebri. Anonimi, con un implicito invito a scoprirne l’identità, dietro i frammenti sonori. Il video è stato ripreso da tutta la stampa online e dai social, da siti scolastici, è stato il tormentone infinito della fine dell’anno 2019.

Il risultato è che finalmente Leopardi è diventato, come ha orgogliosamente rivendicato il Ministro Franceschini, “la poesia che ci siamo portati dentro tutta la vita”, celebrata da interpreti della “canzone italiana erede della grande poesia italiana”.

Suona tutto molto bello. Ma con qualche limite, non personale di chi ha preso l’iniziativa, ma per così dire nazionale ed epocale. E riguarda la maniera di proporre un testo poetico per via mediatica.

Anno 1819. Per chi abbia letto qualcos’altro di Leopardi, sa che è un anno terribile: “privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose”. È probabile che proprio da queste limitazioni angoscianti sia nata l’idea di  trascendere col pensiero il reale e i limiti concreti dell’esistenza. Scrivere di una visione, certo, ma “finta”, al di là del limite anch’esso fittizio di una siepe.

In questo senso può essere di aiuto una osservazione incidentale di Giacomo Debenedetti che, a proposito di una poesia di Ungaretti, nota una sua indulgenza a fatti cronistici, narrativi, prima di spiccare il volo per la visione. Incidentalmente il grande critico fa un parallelo con Leopardi: l’Infinito, osserva,  rimane “il modello della poesia recitata con voce riflessiva e come impossibile sul crinale difficilissimo tra una apparente discorsività e un vertiginoso lirismo”, e il poeta “quasi giustifica la sua sensazione-emozione con modi discorsivi, quasi narrativi (‘ma sedendo e mirando… io nel pensier mi fingo’”, in Poesia italiana del ‘900.)

Il senso di impossibilità è nella ragione più intima di quella finzione. Mi suggerisce un amico, che vive di poesia come traduttore: “lo sguardo nell’infinito, come lo leggo io, non era diretto, ma mediato dall’aspettativa di quello che si trova al di là di uno spazio che lui non scorge”.

Se dunque è nell’interiorità l’infinito di cui scrive Leopardi, la visione a tutto campo del video Rai, l’ aperto orizzonte, la carrellata tra alberi e feuilles mortes, mi pare fuorviante quanto la scelta del personaggio che rappresenta il poeta. Con modesto sforzo creativo, invece di darne una formulazione originale, si è imitato uno stereotipo del poeta romantico, quella figura solitaria di fronte all’immensità che si apre appena  digitiamo su Google parole chiave come poeta-paesaggio-romantico. Il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Il pittore per antonomasia del romanticismo tedesco, un’opera che indaga il senso del sublime, un mondo nordico esattamente agli antipodi da quello che Debenedetti ci ricorda (quello della riflessione, sedendo e mirando…).

Ma non è l’unico aspetto nordico del video. Che dire del betulleto? Non è, la mia, una inutile pretesa realistica: ma perché tante betulle per un poeta che ha raccontato di poveri arbusti e di lande deserte, lunari? Se nella poesia ogni cosa è un simbolo, la scelta di un elemento tipico del paesaggio e della cultura scandinava vorrà dire qualcosa. O no?

Ma mi corre l’obbligo di un’altra osservazione sulla scelta proprio di questo sonetto, e qui risultano illuminanti le parole di Franceschini: “una poesia che ci siamo portati dentro tutta la vita”. Noi chi? Lui di sicuro, ma noi altri italiani? Come fa a sapere il ministro che nel nostro bagaglio poetico non ci siano altri testi altrettanto se non più significativi? (Quanto poi alla canzone italiana erede della “grande poesia” mi permetto di dire che è tante cose, “anche” erede di qualche momento della poesia, grande e piccola: ma Papaveri e parere da dove lo farebbe discendere, signor Ministro?)  

Penso alla mia esperienza, e mi vengono in mente versi dell’Ariosto, di Montale, di Penna, che spesso nella mia vita mi hanno soccorso, fornendomi momenti di riflessione, a volte un aiuto. E di Leopardi, delle sue poesie, tante volte mi è sovvenuto l’ultimo periodo, la Ginestra più di ogni altra.

Ma la Ginestra, come pure l’Orlando furioso, hanno evidentemente un difetto. Non sono un testo breve, obbligatoriamente imparato a memoria a scuola, di facile recupero per chi (dicono le statistiche) legge poco, i giornali, i romanzi, figuriamoci poi la poesia.

L’Infinito invece presenta quelle caratteristiche di facile memoria, di concisa brevità, che sono costitutive della lettura dell’italiano medio, che la Rai rappresenta perfettamente, e che Franceschini celebra: facilità (apparente), concisione, è il mondo del tweet. Sapete quanti caratteri compongono l’Infinito?  453, meno del doppio di quelli consentiti per twittare oggi, magari meno della misura permessa nella prossima riforma del medium.

Con ciò viene escluso, probabilmente, che si ripetano simili centenari: pensando al futuro prossimo, mi vengono in mente nel 2021 il bicentenario del 5 maggio di Manzoni, nel 2025 il centenario degli Ossi di seppia. E nel ’32 i cinquecento anni della prima stampa dell’Orlando Furioso.

Figuriamoci! Manzoni, Montale e l’Ariosto non corrono certo simili pericoli. Troppo legati alla storia, o difficilmente evocabili in una clip, o già sceneggiati per intero (Ronconi) e ben conservati nelle teche della Rai.

L’idea di questo video, più che pensare a una celebrazione della poesia in un paese di grandissimi poeti, fa pensare alla sua fine sui media e nella coscienza popolare. Fuori delle antologie scolastiche, quando mai si sente dire una poesia, citare un poeta, non per fare bella figura, ma per illuminare un pensiero, per un approfondimento. Ma approfondire vuol dire riflettere sul senso profondo di un testo, e  non per commemorare una data, come una lapide, ma per renderci consapevoli ogni giorno della sua “contemporaneità”. Pensiamo a quel “naufragare”.

Volendo rendere contemporaneo il senso di smarrimento del poeta, quanti modi alternativi avremmo avuto, presentando il testo, per rimandare alla nostra stagione, quella “presente e viva”, al “suono” del dolore che da “questo mare” si leva ogni giorno?

Ma questa è solo poesia, mi pare di sentire qualcuno. Ecco, è il punto. La poesia, quella grande come l’Infinito, è poesia e tante altre cose. Per esempio la vita e la carne di chi l’ha scritta, Giacomo Leopardi. Ci ricorda il più grande lettore della letteratura italiana, Francesco De Sanctis: “Il concetto unico delle sue opere è sempre stato il mistero del dolore… e se studiò greco e latino fu per trovare questa spiegazione, e se compose la canzone All’Italia fu anche per trovare la spiegazione del dolore.”

E ho pensato a una maniera alternativa di ricordare questo centenario. Molto meno cool, certo, ma forse più rispettosa. Fare scorrere sullo schermo, o riprodurre sui giornali, il manoscritto custodito alla Biblioteca Nazionale di Napoli, quello che riporta anche la fatica del poeta, le sue correzioni. Leggendolo e seguendo il suo pensiero diventa inevitabile fare una serie di pause, di “silenzi”, che la lettura monotonamente scandita dei “cantanti” non ci rende. Ecco, invitare gli italiani che non leggono di mestiere a farlo: questo sarebbe un atto d’amore verso un poeta solo apparentemente amato, e allora la voce recitante sarebbe quella vera, cioè la nostra, quella della nostra interiorità. L’infinito.

Questo immagino si augurasse Giacomo Leopardi in quel suo annus horribilis, duecento anni fa.

Nicola Rainò
Giornalista, traduttore letterario, studioso di lingua italiana e storia dell'arte. Emigra dal Salento a Bologna per studi, poi a Helsinki per vivere. Decise di fondare La Rondine una buia notte dell'inverno del 2002 dopo una serata all'opera.