Volter Kilpi: Nel salotto di Alastalo

I nostri "Insoliti Ignoti", testi ancora inediti in lingua italiana

“Alastalon salissa”

Otava 1933, pp. 484 + 472

Ci sono opere che, al di là della loro qualità letteraria assoluta, diventano bandiere di una o più generazioni, ispirano epigoni e diventano miti, e vengono lette o declamate come segno di appartenenza a una élite o una setta. È quanto è accaduto a questo romanzo, speciale anche per le dimensioni, due volumi di circa ottocento pagine, pubblicato nel 1933, e che racconta una storia che copre un periodo temporale di appena sei ore. In questo, ma anche nell’uso del monologo interiore, nella continua e quasi ossessiva invenzione linguistica, non può non ricordare l’Ulysses di Joyce, uscito una ventina di anni prima.

Difficile parlare di trama. Esiste un nucleo centrale nel fluire della narrazione che gira intorno a un gruppo di persone facoltose di Kustavi, paese sulla costa della Finlandia sud-occidentale, che discutono della possibilità di investire il loro denaro in una impresa di costruzioni navali seguendo il suggerimento di uno del gruppo, Herman Mattson Alastalo. In effetti la narrazione procede per continue digressioni, si coagula intorno a lunghi monologhi interiori e ricama i pensieri dei protagonisti. Celebre la scena con la descrizione della faticosa scelta di una pipa dalla mensola di un camino, che dura ben settanta pagine.

Volter Kilpi con la moglie Hilja

Volter Kilpi

Kustavi 1874 – Turku 1939

Uomo di pochi viaggi (se ne concesse uno solo all’estero, nella vicina Estonia, nel 1937) e di molte letture, in solitaria ribellione contro le tendenze letterarie predominanti al suo tempo, Volter Adalbert Kilpi (Ericsson fino al 1886) fu nei suoi anni giovanili un convinto rappresentante dell’estetismo neoromantico, con opere come Bathseba (Betsabea, 1900), Parsifal (1902) e Antinous (Antinoo, 1903) che rispecchiano, contro le correnti positiviste allora predominanti, un credo estetico-filosofico nutrito dalle letture di Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche.

     Sul solco di Nietzsche, di cui si fece alfiere in Finlandia, Kilpi considera la forma come essenziale, a discapito dei contenuti, che appaiono come prodotti dell’istituzione culturale borghese, merce di scambio a uso dei consumatori di beni intellettuali, e quindi elementi dell’ingranaggio, dell’establishment. Posizione evidente nella sua prima raccolta di saggi, Ihmisestä ja elämästä (L’uomo e la vita, 1902), un’apologia di Nietzsche, in cui proclama un’estetica fondata sull’esperienza e sul sentimento individuale, dove l’imitazione della realtà esteriore (la “tirannide della realtà”) gioca un ruolo secondario rispetto allo stato d’animo e alla verità individuale; e giudica aspramente il moralismo della critica universitaria contemporanea.

     Tra la pubblicazione di Antinous (1903) e quella di Alastalon salissa (Nel salotto di Alastalo, 1933) trascorre una pausa creativa di trent’anni: viene in mente il silenzio di Italo Svevo tra il secondo romanzo (Senilità, 1898) e il terzo (La coscienza di Zeno, 1923).

     In questa fase Kilpi si dedica tutto al lavoro di capo bibliotecario dell’Università di Turku, e rompe il silenzio solo con un paio di libelli politico-culturali, Kansallista itsetutkistelua (Un esame di coscienza nazionale, 1917) e Tulevaisuuden edessä (Di fronte all’avvenire, 1918), che sono sintomatici, dal punto di vista delle creazioni posteriori, di una predilezione per il fraseggio serpeggiante, a meandri; ma che si segnalano per la categoricità con cui Kilpi esigeva dalla letteratura esiti originali, criticando le prestazioni qualitative ottenute da lui stesso.

     Con l’edizione in due volumi di Alastalon salissa si apre la grande opera della maturità: la Saaristosarja (Trilogia dell’arcipelago), che comprende anche Pitäjän pienempiä (I plebei della pieve, 1934) e Kirkolle (Pellegrinaggio alla chiesa, 1937).

     Per lo più Alastalon salissa viene associato all’Ulysses, alla Recherche: paragoni legittimi, poiché l’opera partecipa all’evoluzione del romanzo del Novecento per almeno due aspetti. In primo luogo le riflessioni dei suoi personaggi assumono un ruolo preponderante nella narrazione (pensiamo solo all’uso di tecniche come il monologo interiore, la più vistosa di cui si serve la strategia narrativa dell’autore per ottenere una rappresentazione chiaroscurale e tridimensionale dei personaggi): se la trama venisse esposta continuativamente, il libro rischierebbe di ridursi alle dimensioni di un esiguo fascicoletto.

     E poi Kilpi è legato agli altri mostri sacri del Novecento dalla negazione del tempo cronologico: la diversa rappresentazione del tempo resta alla fine la grande chiave di lettura di Alastalon salissa.

     Nel romanzo naturalista i dialoghi avevano il compito di abbreviare gli spazi, i vuoti del non detto o del superfluo. Con Kilpi tutti questi criteri saltano: la descrizione di una riunione di sei ore richiede oltre novecento pagine nell’edizione originale del romanzo, con una vistosa e deliberata sproporzione. Hellaakoski, nel suo saggio su Alastalon salissa, ritiene necessario un paio di settimane per leggerlo.

     Seppure ambientato intorno al 1860, non si tratta di un romanzo storico. Secondo Sampo Haahtela, lo scrittore cercò di dare “una rappresentazione dell’intera totalità della vita – non come trama narrativa che avanzi epicamente, ma come un avvenimento simultaneo, come la stessa vita nella sua palpitante generosità. […] La rappresentazione non conduce dal presente verso il futuro, ma dal passato verso un momento della descrizione che si nutre del presente; tutti i reali avvenimenti dell’opera montano come bolle dal passato, che gli isolani di Volter Kilpi hanno dietro di sé, allorché lo scrittore li porta agli occhi del lettore”.

     Il lettore dovrà superare una fase di disorientamento e di sorpresa: non una trama visibile, ma un accavallarsi e un sovrapporsi di monologhi e di descrizioni (il sottotitolo recita: “descrizione dall’arcipelago”) stratificate, che ci danno una spiegazione così dettagliata dei personaggi, dei posti dove prediligono sedersi, del salotto stesso e delle sue misure, che “su tale base sarebbe possibile redigere una mappa” (Kai Laitinen); infine le frasi, lunghe talvolta anche due pagine, con paragoni inscritti uno dentro l’altro (in una lettera a Vilho Suomi, del 21.4.1938, l’autore scrive: “L’intera mia opera, rispetto a una narrazione consueta, è stata finora come un’equazione a più incognite rispetto a una normale operazione aritmetica! Tutto il mio modo di narrare è stato di stratificare la descrizione, in modo che ciascuna frase fosse levigata per emanare luce in quasi innumerevoli direzioni: una narrazione plastica in luogo di un racconto-silhouette!”).

     L’anticamera creativa della Trilogia dell’Arcipelago è costituita da un abbozzo di circa 125 pagine, scritto nel 1924, Langholmassa neuvotellaan (Negoziati da Langholma), dove si delinea già l’argomento centrale di Alastalon salissa, cioè il progetto per la costruzione di un brigantino nella Kustavi degli anni ’60 dell’Ottocento: ma il teatro dell’azione è l’intera pieve di Kustavi, e la narrazione ha ancora una struttura tradizionale.

     La premessa della “Trilogia dell’arcipelago” è data dal capitolo introduttivo di Alastalon salissa, “Kirkkomaa” (Il camposanto), dove il narratore s’immerge col pensiero nel passato e sperimenta il ravvivarsi dei suoi contorni come doloroso destino personale. Questo brano, col suo Io narrante omodiegetico, non può essere compreso se messo in rapporto col solo Alastalon salissa, ma deve essere contestualizzato nell’economia dell’intera trilogia: il ruolo che vi svolge il tema della memoria lo rende paragonabile alle proustiane “intermittenze del cuore”; e nel brano finale del romanzo Kirkolle, che chiude la trilogia, l’autore guida i personaggi da lui amati allo stesso camposanto i cui cancelli aveva aperto, nel capitolo introduttivo, per andare a risuscitare nel suo animo il tempo perduto, e ora ritrovato:

“Un eterno sole estivo s’inarcava sopra il cimitero, e i poggi restavano assorti nella loro solitudine. Eterno forse anche l’inno, il salmo della congregazione, portatore di devozione dentro le mura della chiesa? Mormorerebbero all’unisono, morti e mortali, il grave inno, identico di generazione in generazione, ancorché mutino i salmisti? I giorni della festa di San Giovanni si ripresenteranno uno dopo l’altro, sempre nuovi, anche se al di sotto di un manto di neve” (Kirkolle, p. 440).

E’ l’adorazione perpetua di proustiana memoria, con cui si chiude l’ultimo romanzo, dal titolo ispirato a quello di Virginia Woolf, To the Lighthouse. E lo stesso Proust pensava, quando progettava una trilogia e non gli era ancora cresciuto il materiale della Recherche tra le mani, di intitolare il suo ultimo romanzo L’adorazione perpetua, titolo poi mutato in Il tempo ritrovato.

 Prologo: Il camposanto

     Serata estiva, domenicale. La tacita chiesa dell’arcipelago in mezzo al cimitero. Il tetto d’ardesia della chiesa si erge elevato e severo sulla boscaglia: il barbaglio del sole di ponente scherza con la sua parete rossa, rischiarando gli stipiti bianchi delle finestre. Pace ineffabile nell’aria e tutt’intorno. S’ode solamente l’oscillare delle betulle in prossimità della muraglia muschiosa.

     Ho aperto il cancello di ferro del cimitero: cigolando sui cardini, risuona dietro di me, e la ghiaia del viale cricchia sotto i miei piedi. Croci di legno grigie e sbiadite su entrambi i lati; qua e là una nera croce di ferro dalla targa d’ottone; più alta in mezzo alle altre, infilata in una stanga di ferro, qualche insegna di latta, con una scritta arrugginita e muschiosa che s’intravede dalla superficie curva. C’è ancor più calma nella foresta di croci, che alla soglia del cancello, chiuso un attimo fa nel suo riposo festivo?

     Mi insinuo fra le croci, scandisco con gli occhi scritte sbiadite, decifro un nome qua e là. Tu, e anche tu, riposate dunque lì, sotto quella zolla? Scandisco i nomi uno dopo l’altro, familiari come nell’infanzia; li leggo uno alla volta, un tumulo dopo l’altro, una fila dopo l’altra: lui, e poi anche lui, il giovane, il vecchio, la gente della mia adolescenza, il fragile fanciullo, il vegliardo tremolante, fianco a fianco al riparo della ghiaia; come ha rintoccato la campana a morto al loro turno! Mi balena in mente, dai recessi dei ricordi più reconditi, il capo di una fanciulla che riposa su un cuscino di lino, le vene cerulee sulle tempie scarne, qualche povero ricciolo bigio sulla pallida guancia smagrita, un misero barlume, sofferente di rimpianto, negli occhi grigi che hanno perduto la speranza di vivere. Intravedo un vegliardo curvo e vacillante, con la mano callosa sul manico consunto del bastone, con i resti biancastri degli esili ciuffi intorno al volto quasi evanescente nelle sue rughe, dolorosamente esangue, che la vita spogliò così profondamente, che la morte non dovette fare una grande fatica a estinguerlo. Vago da un tumulo all’altro, da una croce all’altra, leggo scritte muschiose nelle tombe dei defunti, già defunti da anni e da decenni, defunti la cui vita ho tuttavia presente come se fosse ieri.

     Vedo fanciulli, vegliardi, giovani nel fiore della vita e uomini nella piena maturità, mogli al culmine della maternità; vedo la mia gente in corteo, ora placata; ognuno di loro ha respirato la brezza della vita come me, ha sperato, ha atteso come me, s’è ingannato, ha sofferto come me, ha conosciuto la gioia d’esistere e ha sopportato il fardello della vita come me, sprovvisto di tutto e ricco come la dolorosa felicità dell’orfano! Anche tu, ragazzo, riposi qui: ho visto le tue labbra socchiuse, su cui giocava il dolce alito della vita, mentre l’esile carnagione delle tue guance s’increspava di delicati fiori sanguigni, nello stupore infantile dei tuoi occhi una grande aspettativa di vita: i sogni in attesa nei tuoi occhi stupefatti non si sono mai realizzati, e il solo dono della vita fu il freddo ceruleo di un povero mirto che s’inarcava sul pallore della tua fronte, il tuo solo ricordo fu la polvere sotto questa croce e la piaga del cordoglio, che squarciò il cuore di tua madre, quando la tomba fu ricoperta dalla terra. E chi non vedo di tutti voi, nel gelo della tua e della tua tomba: chi più coraggioso di te, quando la giovinezza ci spirava in petto e in te, compagno della mia adolescenza, l’audacia ardeva negli occhi e l’ergersi del capo era gioioso e agile l’incedere del passo, il cui ardore non durò fino alle soglie della maturità, ché già prima la tomba ti si dischiudeva innanzi; in quali occhi la vita scintillava con un bagliore più forte, in quale gota germogliava più caro il vermiglio della salute, in quali capelli paglierini il sole scherzava più dorato che nei tuoi, fanciulla della mia giovinezza: per decenni la sabbia del camposanto ha premuto il tuo petto, che una volta si gonfiava nei languori giovanili, e l’angusta oscurità della terra cela ora le tue labbra, che una volta s’aprivano assetate alla vita! Chi non vedo di tutti loro, uomini nel loro vigore, nello sguardo la solida lama della volontà e l’infrangibile prestigio risolutore; uomini pieni di vita, burla e disciplina nei ciuffi di barba  increspati di castano, crepitare di celia e buonumore nel guizzo degli occhi; vedo madri dai morbidi sguardi materni e padri dai seri volti paterni; vegliardi, la calma rassegnata e umilmente pronta sul volto, sulle spalle curve e nelle gambe malferme una preghiera tremolante, che chiede il grande riposo; tutto il corteo della vita che si desta, spera, festeggia, vuole, realizza, s’accontenta, si stanca.

     Mi sono gettato a sedere su di una lastra muschiosa e ho coperto gli occhi con le mani. Sotto i miei piedi le tacite e pallide fila di coloro che riposano in pace uno accanto all’altro, con le palpebre chiuse per l’eternità, nelle labbra l’ombra dell’eterno silenzio e sul petto il sigillo infrangibile delle braccia incrociate nell’eterna immobilità. Uno accanto all’altro, fila dopo fila, giovani e prostrati dagli anni, fanciulli e vegliardi, poveri e ricchi, gli eminenti e i più umili degli umili della pieve, uno accanto all’altro, così come capitava nel giorno della morte, tutti ugualmente silenziosi, a tutti la stessa sorte: la grandezza smisurata e l’autorità austera del riposo della morte; a tutti la stessa privazione: l’eterno segregamento dalle brezze tremolanti e dai variopinti prati della vita.

     Noti e ignoti, coloro che i miei occhi hanno visto, e coloro di cui mi ha narrato solo la memoria orale: la mia dolce mamma, il mio serio babbo, la veneranda polvere degli avi trasformata in terra! Improvvisamente m’accorgo di stare seduto sulla lastra, muschiosa e affondata nella cieca terra, del mio fratellino da tempo celato nel sepolcro. Nel medesimo istante il petto mi viene trafitto, molti lustri più tardi, dal primo soffocante quesito di dolore da cinquenne: col viso singhiozzante premo la bocca contro il duro pavimento, mentre una lapidaria sentenza sta echeggiando ancora, inesplicabile; balbetto da sopravvissuto, nel dolore incontrollato e nell’egoismo inconscio da bambino, un lamento e un’accusa di vita indifesa: Vaino, Vaino cattivo, a che scopo morire, ci restavano tanti giochi da giocare!

     Tutti, tutti voi, pallidi defunti, siete vissuti, i vostri cuori fermi palpitavano, il sangue risuonava esultante nelle vostre vene, fiorivano gli angoli appassiti delle vostre tempie, l’onda impetuosa della vostra vita sciabordava nei vostri petti inariditi. Giovani, nelle vostre fronti fluttuava l’estasi dei sogni, le labbra bevevano la beatitudine delle brezze, i petti si gonfiavano della vibrante ricchezza della vita, il piede s’affrettava alla svolazzante danza della vita!

     Il destino umano, scritto sulle onde rollanti del mare! Il vivere: una fioritura simile a un prato della scorsa primavera, il cui stelo appassito viene dimenato dai venti odierni, finché domani non sarà che polvere! La nostalgia incombe nel cuore, grave come l’enorme seno della terra. Pietà per i vissuti, pietà per viventi, pietà per i nascituri, pietà per la nostra effimera vita. Cosa resta della vita segregata nel sepolcro? Della vita, colma di felicità, colma di dolore come il seno del mare che rovescia le onde al largo, ora riflettendo nei suoi abissi le curve diafane dei cieli e il riposo delle intravedibili infinità, ora combattendo come un oscuro tumulto di forze laceranti e come le ruinose gole della vorace morte? Della vita, che ha irradiato i fragili stupori dello sguardo di un fanciullo, sospirato per i pesi della sovrabbondante ricchezza di un cuore giovane, inturgidito le calibrate energie combattive della maturità, che si è rilassata nelle tranquille giornate della malferma vecchiaia? Uomo, che hai vagato tra l’attimo della nascita e il giorno della morte, che hai vissuto dagli albori dell’infanzia, lungo il mattino dell’adolescenza e il mezzogiorno della maturità, fino alle sere sempre più infreddolite della vecchiaia; che hai giocato ai giochi innocenti del tuo mattino, che hai sognato i giovani miraggi dorati delle tue speranze, che hai posato i piedi sulle pesanti porche della tua lunga giornata di lavoro, che hai raggiunto le placide serate della tua vita appassita: cos’è che ti rifà le spese della tua vita? Tu, che hai sperimentato i dolori e le gioie della vita, le pene e i successi, che da giovane hai vissuto i voli rubicondi del tuo sangue e le forze pulsanti della tua spalla, i pensieri sorgivi della tua fronte e l’esteso frullare delle tue ali; che hai calpestato l’argilla del tuo solco col timone dell’aratro solidamente impugnato sulla terra laboriosa, forza infrangibile del lavoro nel drizzarsi del tuo corpo, coraggio baldanzoso dell’azione sulla tua fronte risoluta, solido acciaio della volontà nella limpidezza dei tuoi occhi; che hai avuto un fremito nell’età cadente della vecchiaia, flutto affievolito dei marosi della vita nel cuore in bonaccia: gli angoli della bocca sono incavati dai dolorosi e stanchi solchi della vita vissuta, nello sguardo gli occhi sono languenti di solitudine e di stremata orfanezza, nella fronte pallida solo la limpida frescura dei ricordi come estremo riflesso della sera che s’attarda verso la notte sulle pallide cime del bosco; cosa porti via con te dalle trame variegate della vita nello scialbore della tomba? Aurei filamenti di speranza che imperlano fantastici capricci, grigie orditure di lavoro quotidiano a bracciate d’anni, esaltati eroismi di battaglie, orgogliose ebbrezze per risultati ottenuti o dolorose prostrazioni per un disinganno, profonde piaghe di sofferenza o sonni spossati per riposo agli affaticati o per medicamento? Cosa porti con te della pienezza della vita, tu, il cui ricordo nelle terre del sole sta cedendo come ombra svolazzante di nuvola su un prato, sta estinguendosi come il riflusso dell’onda in seno al mare, sta per essere dimenticato come vita morta alla nascita?

     Mi sugge l’animo il rimpianto, repentino, ardente e infuocato, mesto e infinito come il mare aperto. Silenziosi e pallidi defunti, eternamente svaniti fra le ombre: con questi vivi occhi ho visto i vostri vivi volti, la vostra familiare mano ha stretto la mia, la voce delle vostre labbra ha parlato al mio orecchio: è un miracolo che io viva, mentre voi tutti siete svaniti e taciti sotterra.

     A un tratto sono nella chiesa della mia infanzia, la comunità è in piedi, salmodiante intorno a me. L’inno è come il mormorio monotono del mare, qua e là il fragore di una sciabordata, quando l’onda si solleva e di nuovo si spegne, dalle creste nel nulla. Risalta la voce stridula di qualche vecchia, una voce acuta, che si stacca sola come il lamento di un uccello che ha smarrito i suoi nell’acqua; più avanti mormora la voce bassa di un uomo, pesante come se fosse stata strappata da profondità abissali; più lontano risuona più elevata la fresca voce di una donna, sonora come murmure estivo di fronde di betulle, leggera nel suo corso come svolazzare di allodola, e limpida nella sua ascesa come il sonoro sibilare di un flauto; su tutto risuona l’inno solenne del vecchio cantore, ora discendendo sui bassi come l’echeggiare dei mari che si vanno assestando, ora gonfiandosi con tutte le sue forze come il rombare mormorante delle acque stesse. L’inno è lento e grave, di quando in quando stagna del tutto, sicché il cantore, isolato nella sua tribuna, sbircia la comunità di tra le spesse stanghette dei suoi occhiali, quasi corrucciato, sbisoriando fra le labbra socchiuse, finché non si prepara a lasciar andare dalle vaste travi del petto una nuova e immensa valanga di voce che fa tremare le tavole del tetto nella chiesa assonnata. Questo monotono e ineguale canto fermo, gorgheggiato nella chiesetta dell’arcipelago da labbra che si sono irrigidite molto tempo fa, torna all’orecchio dopo decenni come un infinito mormorio di organi che si gonfia fino a riempire le soglie celesti, come l’eterno sospiro inestinguibile del mare profondo e sconfinato sulle risonanti rive.

     L’inno s’è zittito, la congregazione s’è messa a sedere. Un grave silenzio è sceso nella candida chiesa a croce dal soffitto a volta. L’officiante, il vecchio pastore, è salito sul pulpito; lenta echeggia la sua voce, assidua e grave, sopra la comunità silenziosa; nel matroneo un rigido frusciare di fazzoletti di seta; gli uomini siedono nelle panche colle nuche erette e i volti fissi. Il sole estivo fa ruotare la sua orbita nel cielo meridionale, la macchia di luce della finestra vaga per la platea del coro, avanzando lentamente e di sbieco, raggiunge il gradino della panca del sagrestano e inizia ad arrampicarsi su per uno stipite color quercia, fondendolo col bagliore dorato. Qualche uccello vola sul ramo flessibile di una betulla vacillante, davanti alla finestra del coro, e lo lascia di nuovo a oscillare vuoto. Un’ineffabile pace di sogno sulla chiesa e nell’aria; le grandi e calme figure della pala d’altare, nei loro ampi mantelli turchini e rossastri, immergono gli occhi nel loro riposo festivo, e il nobile, aggraziato protendersi delle loro mani fa scrosciare nella chiesetta i diluvi di pace e il murmure ultraterreno di un grande tempio.

     Sonnolenta calma festiva nella chiesa. Nell’aria risuona la voce del vecchio pievano, ora gonfiandosi con potenza ammonitrice e austera, ora raddolcendosi, teneramente consolatrice. I candelieri di bronzo e d’ottone pendono pesanti dal soffitto, il barbaglio del sole ha raggiunto il candeliere di vetro più vicino, sul coro, e scherza con le sue magie di cristallo; davanti alla tribuna vacillano adagio le vecchie barche della chiesa coi loro alti quadri di poppa e con tutto il sartiame. La sabbia corre nella clessidra del pulpito, gli attimi battono come se si potesse udire la corrente dell’eternità.

     Un vecchio si appoggia alle balaustre della tribuna a mezzogiorno, le braccia che riposano contro il parapetto; sopra la finestra della facciata il sole illumina cogli ori prodighi del suo chiaro bagliore le bianche chiome e il capo inclinato. Due di loro, tre, quattro, anche più, sono corsi contemporaneamente ad ascoltare, appoggiandosi gomito a gomito alla balaustra della tribuna, ciascuno inclinato alla stessa maniera, con la calotta del cranio calva e chinata in avanti; su ognuno nella candida peluria delle orecchie e nei ciuffi della barba lo stesso abbondante oro solare, la stessa perfezione nei pallidi volti e la stessa calma negli occhi devoti. Vecchi rischiarati nella tribuna della chiesa della mia infanzia, soltanto il sole vestiva le vostre chiome canute con l’oro sacro della sua pace, o il riposo festivo era già celato nei vostri cuori e divenuto presente nei vostri volti, il riposo che perdura anche sull’orlo del sepolcro, come sull’orlo della sacra tribuna della chiesa?

     Sulla lastra tombale la mia mente incide di nuovo una malinconia grande e bruciante, acuta come un pungolo, che si gonfia profonda come l’infinita azzurrità del cielo. Con la tribuna dei miei vecchi, questo vecchio prete, le cui ferventi parole echeggiavano nell’antica chiesa, questa congregazione in ascolto nella quiete festiva, in cui riconosco ogni volto, vivono nel passato delle ombre. Or sono molti decenni tacque la grave e sicura voce del pievano, da gran tempo la sabbia fresca del recinto della chiesa ha già rinchiuso nel suo grembo i vecchi canuti della tribuna a mezzogiorno; quegli uomini, i cui vivi volti, un tempo, i miei occhi di fanciullo spiarono con ammirata venerazione, sono soltanto fantasmi della memoria. Dileguati nella lontananza dei decenni e visti al di là del limitare severo della morte, questi contorni si accrescono nella grandezza festiva: sulle pallide fronti, sugli occhi chiusi, sugli angoli irrigiditi della bocca è terminata la commovente autorità della vita.

     Oh! ombre celate nella lontananza dei decenni e nel grembo oscuro della tomba, oh! tacita congregazione dell’immemoriale chiesa salmodiante della mia infanzia, sono trascorsi i teneri e chiari giorni della vostra infanzia, sono svaniti i vibranti e vigorosi sogni della vostra calda giovinezza, le travi vigorosamente calcolate della vostra più forte virilità sono marcite agli angoli e disfatte nelle strutture, sono state dimenticate nella stremata vecchiaia e nella petraia della vita!

     Ombre celate, generazioni svanite, cuori spenti da un palpito di gioia o di dolore! L’aratro e la pala hanno rivoltato in terra i prati da cui un tempo serpeggiava il vostro cammino per andare alla chiesa; una giovane macchia chiude quei viottoli boschivi, che il vostro variegato brulichio affollò negli alti mattini domenicali estivi; le passerelle flessibili sono marcite nelle radure, e il muschio cresce sulle pietre consumate dai vostri passi affrettati. Le nuove generazioni camminano su nuove strade, e le vostre vecchie e familiari rive della chiesa riposano in una pace ferma negli anni: soltanto la solitaria, pericolante arcata del ponte, che s’inclina in mezzo alle onde, guida il solitario che si smarrisce in quelle penisole dimenticate, tra gli sperduti fondali delle baie; ricorda i giorni in cui le dieci barche della chiesa, con la prua spumeggiante e piena di variopinti parrocchiani, approdavano sulla spiaggia, e le solide travi del ponte si piegavano sotto il peso dei giovani frettolosi che si affollavano uno appresso all’altro, e dei vecchi che passavano con fermezza.

     Vedo quella riva antica e familiare, vedo le travi vacillanti e un variegato e gioioso scintillio sul ponte animato; odo lo svelto scalpiccio di passi affrettati sul sentiero sassoso e venato di radici di pino. Un’urgenza che brusisce interminabile, una fila frettolosa in un sentiero cosparso di aghi di pino secchi, che serpeggia dileguandosi nei manti boschivi: un formicolare e un brulicare di branchi di ragazzi che passano scorrazzando, di gruppi di ragazze sussurranti e ridacchianti, di adulti seri che marciano gravemente, di vecchie che dimenano il capo, fustagno nero e tela indiana a fiori, uno sventolio di panni, un fruscio di gonne, uno scalpiccio di tacchi, un mormorare di conversazioni e un risuonare di risate! Vedo la foce del golfo azzurro, nuove barche che corrono nei suoi bagliori, profili di remi che in un batter d’occhi balenano inargentati nell’aria e ribalenano nell’acqua, le maniche di camicia bianche dei rematori che sbatacchiano al vento e una spirale di schiuma che rigurgita più alta davanti alla prua: è la barca nuova che presto sarà a fianco del ponte; un’altra dietro; anche la Kihlakunta in arrivo, con ciurma a centinaia e gli alti alberi di trinchetto, e un nuovo schiamazzo e una gara variegata sulle travi del ponte!

     Dalla punta del promontorio guardo più lontano, verso lo scintillare al largo: le onde sciabordano come scatenati e impetuosi cavalloni, si gettano una cresta dopo l’altra nelle danze dell’aria, brillano per un attimo nelle azzurre limpidezze, si gettano alle spalle una spirale di schiuma inargentata e si scagliano scintillanti nella loro buia tomba, dando occasione di sciabordate lontane alle azzurre sorelle, tante quante sono quelle che sopraggiungeranno innumerevoli dal mare aperto.

     Repentinamente, in un batter d’occhi, la pressante e variegata folla dei fedeli e l’insenatura della baia sciabordante d’azzurro si sono trasformate in una cara immagine di tutto il mio paese natio. Con un solo sguardo vedo le sue rive, le sue povere e brulle scogliere ai riflessi del sole estivo e domenicale: onde limpidamente brillanti, lucidamente limpide, scivolano sopra i loro lisci bordi rossastri; in alto mare, scintillante in lontananza, vedo innumerevoli isole e bracci di mare, e alle foci degli stretti gli occhi di nebbia, i remoti e bianchi scogli rocciosi nelle lontananze nebbiose al largo, come galleggianti gabbiani dalle spalle scure. Vedo centinaia di piccole penisole rossastre e di insenature dalle bianche scogliere, in fondo alla baia le grigie e reclinate botteghe rivierasche, in alto lo strepitante schiamazzo dei gabbiani, e intorno l’odore acre di intestini di pesce. Vedo i bassi boschi grigi dai pini contorti e storpiati dai venti, i miseri sentieri ondulati tra i dossi rocciosi in infinita e lieve pendenza e le lande sassose coperte di erica; vedo ridenti praterie boschive con isole di betulle frondose, il sorbo selvatico in fiore a fianco della collina e la betulla che sta frusciando accanto al cancello, e ai piedi della betulla il profumato mughetto. Davanti ai miei occhi si stendono valli frondose con campi di segale; il vento ne agita e spazzola le spighe, facendole ondeggiare. Fra le betulle balenano in grembo alla collina i piccoliborghi silenziosi e le case solitarie, sognanti nella loro pace domenicale: la luce del sole brilla nei vetri variegati delle verande e il melo in fiore oscilla all’angolo della facciata. Vedo quei borghi silenziosi, quelle case silenziose, quei soggiorni sonnecchianti in grembo a una mattinata domenicale d’estate, dove la pace vibra come un mormorio d’organi dalle profondità dei secoli.

     Con un solo sguardo abbraccio quei mari e quelle terre: centinaia di penisole tra lo sciaguattare inargentato delle onde; pascoli sorridenti di betulle nel prato di mughetti; campi di grano che ondeggiano mormorando tranquilli al sole di mezza estate; quei borghi e quelle case familiari e sicure, con le loro sponde familiari, e persone familiari, nei sicuri soggiorni.

     Amore, impetuoso come un’inondazione marina che ti affoga, fecondo come il grembo di una donna che si schiude alla maternità, inondami: oh! sventolio delle brezze dopo decenni, profumo, effluvio carezzevole sul mio viso, sulle mie palpebre, riempi con la tua dolce corrente il mio petto ubriaco, la mia mente ebbra; persone care al di là dei decenni, viste coi miei vivi occhi, calate alle ombre, riprendetevi dalla grandiosità solenne del vostro riposo, aprite gli occhi eternamente chiusi e mostratevi nella ricchezza e nel valore eterno del vostro destino oltremondano, trasfigurato ed esaltato nello sguardo errante e anelante del mio rimpianto e del mio amore! Giorni, giorni del passato, giorni sereni dei cari ricordi, persone, persone del passato, persone venerate e rimpiante sulla vetta del passato, rendete l’istante doloroso del ricordo un miraggio per i miei occhi amanti!

Fabrizio Mirabella è nato a Scicli (Ragusa) il 25 gennaio 1964. Laureato in Lettere alla “Sapienza” di Roma con una tesi di letterature comparate sul Kalevala in Italia, è attualmente bibliotecario all’Università di Roma Tre. Ha in preparazione due raccolte di Racconti finlandesi.

(Le foto che accompagnano il testo sono di Franco Figari: “Arcipelago di Franz Josef“)