Johanna Sinisalo: Nucleo solare

“Auringon ydin”

Teos, Helsinki 2013, pp. 300

Romanzo

Il Nucleo solare del titolo del romanzo allude a un tipo potentissimo di peperoncino che ha un ruolo significativo nella storia narrata. Che c’entra il peperoncino? La storia ci conduce in una Repubblica che ha messo fuorilegge tabacco, alcol e capsaicina (mentre il cioccolato fondente è tollerato, a causa dei suoi salutari e potenti antiossidanti.) Siamo nella Finlandia dei nostri tempi (2016 – 2017), ma non è proprio la Finlandia che tutti conosciamo. È un paese distopico che si è isolato dall’Europa e dalle “democrazie decadenti” del resto del continente. Questa Finlandia si definisce una “eusistocrazia”, ​​ed ha il massimo organo governativo nell’Autorità Sanitaria. L’alcol, il tabacco e le droghe sono stati a lungo vietati, ma gli esperimenti di allevamento delle volpi del genetista sovietico Dimitri Beljajev sono stati utilizzati applicandone le scoperte alle donne del Paese, creando una “donna femminile” ultra-addomesticata (popolarmente conosciuta come “eloi“), una creature insulsa la cui unica ambizione è sposarsi, servire il marito e procreare.

Le poche donne che non soddisfano gli standard sono ‘morlocks’ (anche questo nome è ispirato dal romanzo The Time Machine, 1895, di H.G. Wells) vengono sterilizzate e usate come automi da lavoro.) Nucleo solare è incentrato su due sorelle, Vera e Mira. Rimaste orfane in Spagna, vengono inviate in Finlandia dalla loro unica lontana parente, la nonna Aulikki, nella sua remotatenuta di Neulapää. Gli si cambia il nome (diventano Vanna e Manna) e vengono sottoposte al test obbligatorio per l’attribuzione del genere. Manna è ovviamente un’eloi, mentre sua sorella non lo è, ma, stimolata da Aulikki, fa quel che può per ingannare gli esaminatori, evitando un destino di emarginata.

Aulikki dà in privato un’istruzione seria all’intelligente e curiosa Vanna, ma si assicura che non ci siano prove del suo apprendimento ogni volta che le autorità vengono a controllare: le ragazze eloi devono solo sapere come servire i mariti.

Il romanzo è articolato in brevi capitoli al presente, ma include una serie di estratti di documenti, per esempio dei libri e dei compiti, e le lettere di Vanna a sua sorella, che aiutano a integrare il contesto di alcuni degli eventi principali.

A un certo punto pare che Manna sia morta, e Vanna ne soffre la mancanza. Veniamo a sapere che Manna, da buona eloi, sognava solo di avere un uomo, ed era arrivata a percepire Vanna come una rivale – per esempio nell’interesse per Jare, un ragazzo che aveva lavorato per un’estate nella tenuta della nonna. Vanna, pur conoscendo il mondo insensato in cui era vissuta la sorella, non era stata in grado di salvare Manna da se stessa.

Vanna e Jare avevano davvero una relazione, e continuano a frequentarsi, ma sempre rispettando le norme di vita eloi, anche se  Jare mette da parte dei soldi per fuggire dal paese.

Mentre l’alcol e altre sostanze tossiche sono da lungo tempo fuorilegge in Finlandia, c’è una droga su cui le autorità hanno solo da poco iniziato ad adottare sistemi repressivi: il peperoncino. Jare commercia in peperoncini, mentre Vanna è una sua socia, e una tossicodipendente.

Vanna deve fare i conti con la sua dipendenza dalla capsaicina, e al tempo stesso combatte una dura battaglia nella sua mente contro le seduzioni dell’oscura Cantina. La sua unica difesa contro le gelide acque della Cantina sono proprio le dosi di peperoncino. Soprattutto con la scoperta del “Nucleo solare”, un ibrido a un livello così alto della scala di piccantezza di scoville da provocare allucinazioni. Questa ricerca di un’illuminazione avvicinerà Vanna alla sorella scomparsa o aumenterà il divario tra loro?

Parrebbe una classica storia di un mondo di spacciatori di droga, complicata dai rischi di una identità di genere nascosta, e in più col mistero di cosa sia successo a Manna. Se non fosse che siamo in una Finlandia dove la gente si fa di peperoncino…

Johanna Sinisalo

(Sodankylä 1958 —)

È una della più importanti autrici di fantasy e fantascienza della Finlandia. Ha pubblicato decine di racconti in riviste e in varie antologie e ha vinto varie volte il prestigioso premio Atorox, che in Finlandia è assegnato annualmente al migliore racconto di fantascienza.

Il suo primo romanzo, ​Prima del tramonto non si può​, pubblicato nel 2000, ha avuto il più importante premio letterario finlandese, il Premio Finlandia.

Del 2003 è Sankarit (“Eroi”, Tammi 2003)​, una sorta di trascrizione in spirito postmoderno del cosiddetto poema epico nazionale finlandese, il Kalevala, anche questo con un forte accento di critica sociale.

Johanna Sinisalo vive a Tampere; oltre alle opere letterarie si dedica alle sceneggiature televisive, all’insegnamento della scrittura creativa e alla pubblicità. Dopo Auringon ydin (“Nucleo solare”, Teos 2013) la scrittrice ha da poco pubblicato il suo decimo romanzo (Vieraat, “Gli ospiti”) nel 2020 per l’editore Otava.

Nucleo solare

VANNA / VERA

ottobre 2016

Sollevo la gonna, sposto l’elastico delle mutandine e con l’indice inserisco il campione per il test.

Lo spacciatore spalanca gli occhi. I rami e le foglie rade dell’acero gettano ombre sul suo viso, mentre il bianco degli occhi brilla. Gli vedo il pomo d’Adamo ballonzolare mentre deglutisce.

Il tipo emana un odore pungente di resina e filipendola. Paura, insicurezza, diffidenza: è un dilettante, probabilmente un capsainomane, solo di recente caduto nella spirale della droga, e che ora cerca di finanziare la sua dipendenza spacciando. Prova a mantenere un’espressione neutrale, ma i miei movimenti da esperta riescono a sorprenderlo. Un principiante. Probabilmente è stato colto di sorpresa dalla vista fugace dei miei peli pubici. Forse non aveva ancora visto niente del genere.

Tiro fuori la mano dalle mutandine, lascio schioccare l’elastico sul ventre. Snap. Abbasso l’orlo della gonna. Stringo le cosce in modo che il campione inizi a fare effetto. Sorrido disinvolta.

Il labbro inferiore conosce la risposta.

“Ci vuole un po’ di tempo.” Guardo il cielo, o piuttosto i rami che ondeggiano su di noi. “Verrà a piovere, così pare.”

Lo spacciatore apre la bocca, ma non dice nulla. Sento una leggera ventata di ostilità, la reazione solita di una persona un po’ spaventata che sta perdendo il controllo della situazione. Lo capisco: quando si fa qualcosa di proibito, di notte, in un angolo di un cimitero, non ci si vuole imbattere in una sorpresa come me.

“Be’, ad ogni modo presto cadrà la prima neve,” faccio io, tanto per dire qualcosa. Ora la sostanza comincia a fare effetto.

Dapprima il bruciore si diffonde nella parte inferiore del mio corpo, le labbra e la vagina bruciano come carboni ardenti. Mi spuntano delle gocce di sudore prima sotto gli occhi, poi sulla fronte, infine dietro al collo. Il sangue mi ronza nelle orecchie. La sostanza mi investe con l’impeto di un basso, sorta di infrasuoni, incendia con favolose sfumature brunastre.

Tiro un respiro profondo e sfodero un largo sorriso, più del dovuto per la situazione.                   

E.L.. Kirchner, Busto seminudo con cappello, 1911

“La prendo.”

Il labbro inferiore conosce la risposta.

Questa è roba vera. Il labbro inferiore non lo inganni.

Lo spacciatore ha tenuto tutto il tempo la bustina nella mano, e ora me la passa. Un centinaio di grammi, e se tutto è buono come il campione che ho nella fica, allora è roba davvero forte. Giro la bustina trasparente tra le dita e la esamino per vedere che non sia secca, una schifezza tagliata con frammenti di plastica o carta velina, o con petali secchi. Sembra di no.

Il tizio sostiene che sia Naga Viper, ma potrebbe essere una varietà che non conosco. Dall’effetto, immagino che il campione abbia più o meno un milione di unità Scoville. La roba è sicuramente una delle più forti che abbia mai provato.

La capsaicina mi rimbomba nelle orecchie, tanto che ho difficoltà a concentrarmi e a portare a termine la transazione. Tiro fuori dal reggiseno l’importo concordato. Lo spacciatore mi guarda strizzando gli occhi. Penserà che io stia cercando di eccitarlo, prima gli esibisco la fessa in basso, poi lo scollo in alto. Ma se ha appena un po’ di esperienza della sostanza e anche solo un po’ di buon senso, sicuramente non cercherà di mettermelo nella fica, dove lo aspetta la vipera Naga, pronta a mordere. Le donne hanno sorprendentemente poche terminazioni nervose nella vagina, pur essendo una zona erogena, ma ovviamente evito con cura le zone più sensibili. Vicino all’uretra maschile, invece, una carica del genere di capsaicina, sai che divertimento!

Lo spacciatore afferra le banconote, le conta due volte, le controlla con una meticolosità straziante, infine annuisce e si ficca i soldi nel taschino. Faccio segno con la testa: “sparisci, adesso.” Il tipo alza un sopracciglio, con gli occhi mi dà una stiratina. Emana un profumo di caramello, un sentore di zucchero bruciato. Lo fisso senza batter ciglio e mi porto le mani al petto per poi sbuffare sprezzante. Lui alza le spalle e si avvia per la boscaglia, spostando i rami con le mani per farsi strada. Sul sentiero sabbioso che porta al cancello del cimitero, si attarda deliberatamente.

Appena sono sicura che si è allontanato abbastanza, ficco il sacchetto con la roba sotto l’elastico della gonna e copro tutto con il bordo della camicetta. È un po’ troppo stretta per nascondere il rigonfiamento, ma almeno non sarà visibile alla telecamera.

Aspetto ancora qualche secondo, prima di abbandonare la copertura offerta dalle chiome degli alberi. Cammino con passo deciso nella direzione opposta a quella dello spacciatore. Di solito non ci sono tante telecamere nei cimiteri. Forse i nastri vengono controllati solo se succede davvero qualcosa di sospetto. Si dice anche che molte telecamere siano finte. Tuttavia, cerco di dare l’impressione di avere una destinazione precisa: se qualcuno mi chiedesse cosa ci facessi nel cuore della notte proprio in questo cimitero, avrei un’ottima spiegazione. (pp. 11-14)


E.L. Kirchner, Allo specchio, 1912

Non appena la porta del mio appartamento si richiude alle nostre spalle, mi tolgo le scarpe col tacco e corro, no, mi precipito in cima al letto a castello, mi arrampico come uno scoiattolo sui ripiani dell’armadio a muro – mi ci vorrebbe troppo per andare a prendere la scaletta – e do un paio di colpi sulla parete di fondo dell’armadio fino a quando non si apre rivelando il vano segreto che nasconde la mia scorta di emergenza. Afferro il barattolo di vetro, salto a terra anche se l’impatto mi procura dolore alle caviglie e cerco di svitare il coperchio di metallo.

Non si muove nemmeno un po’, sembra incollato.

“Perdio!”

Crollo sul letto. Pianti salgono direttamente dalla Cantina, non posso farci niente, non ho una diga o una barriera da frapporre, il lamento fuoriesce come il vomito.

Jare è accanto a me, prende il barattolo dalle mie mani deboli, e svita il coperchio con le sue dita abili e forti. Una torsione e il coperchio rilascia il delizioso scoppiettio di apertura.

Strappo il barattolo dalle mani di Jare, immergo le dita nella salamoia e porto le fettine verdi in bocca. Il collo non è abbastanza largo da far passare tutta la mano, così mi verso le fettine di jalapeño in bocca direttamente dal barattolo. La salamoia mi scorre lungo il mento fino al petto e al copriletto rosa, ma non mi importa. Ingoio quasi senza masticare. So che in unità Scoville gli jalapeño sono poca cosa, hanno quasi lo stesso sapore del cetriolo sottaceto, ma la semplice consapevolezza che quelle fette croccanti contengono capsaicina riesce ad alleviare un po’ il tremolio delle mie mani. Pochi minuti dopo, l’acqua nera della Cantina si è ritirata, schizzando appena sotto la linea di piena del cervello. Il debole effetto dello jalapeño è un brusio tiepido, grigio-azzurro, interstellare, appena udibile.

Getto il barattolo in terra. Colpisce il pavimento, ma non si rompe, è un prodotto estero di qualità. Mi alzo, vado in cucina, faccio scorrere l’acqua, non mi preoccupo di cercare un bicchiere, metto la testa sotto il getto gorgogliante. Bevo con la testa a metà nel lavandino, torcendo il collo fino a sentir male, trangugio con voracità. Mi raddrizzo e mi pulisco la bocca con il dorso del palmo, dove rimangono due linee rosso sangue, ciò che resta del rossetto.

“Quanto sale, che schifo,” dico a Jare che mi guarda, e vedo gli angoli della sua bocca che si sollevano. Poi scoppia a ridere, quasi a crepapelle.

“Scu- scusa, non che ci sia niente da ridere, ma… se ora venisse qualcuno… certo resterebbe a bocca aperta.”

Ora che ho avuto la mia dose, per quanto miserabile e patetica, un accenno di sorriso fa capolino sulle labbra. Mi avvio con movimenti volutamente letargici vero il grande specchio dell’ingresso. Jare ha ragione, sembro una caricatura di Eloj. Una soluzione salata di lacrime e salamoia mi ha spalmato il mascara sul viso, i capelli che la mattina avevo arricciati ora penzolano in due ciocche bagnate dal pianto sulle guance macchiate, e i residui di rossetto intorno alla bocca sembrano un eczema. Il fondotinta è scomparso, rivelando sugli zigomi e sulle tempie i brutti ricordi delle baruffe al cimitero di Kalevankangas. (pp.28-9)

( Per tutte le immagini riprodotte, siamo pronti a pagare i diritti)