Fabio Liberti: “As if” all’Ice Hot Festival

Intervista col coreografo italiano in scena a Helsinki

Ice-Hot Nordic Dance è una piattaforma che presenta le nuove tendenze della danza contemporanea nei Paesi Nordici. Un punto di incontro per i professionisti del settore, includendo gruppi emergenti ed affermati e organizzatori e organizzatrici del Contemporaneo. L’obiettivo principale è di accrescere sia il networking che le possibilità di incontro degli artisti nordici, in quanto la porzione di condivisione tra i questi Paesi forma una sorta di micro-ecosistema autosostenibile.

Ice-Hot ospita quest’anno 21 spettacoli accompagnati da 18 iniziative a tema nel periodo dal 29 giugno al 2 luglio negli spazi di Kaapelitehdas, Helsinki. As if  va in scena sabato 2 luglio alle ore 15 a Tanssin Talo, Pannu Halli.

MUOVI è la nuova compagnia indipendente di danza contemporanea fondata da Fabio Liberti nel 2020, con sede a Copenaghen. Già nelle precedenti creazioni artistiche il tema dell’identità’, delle relazioni e del viaggio introspettivo sono ricorrenti. Dopo As if del novembre 2020, ultima creazione, ad oggi Fabio è impegnato con lo studio di un nuovo progetto coreografico.

“Il termine MUOVI l’ho scelto per il suo significato italiano che vuole sia seguito da un complemento oggetto: qualcosa da muovere, qualcosa da agire, qualcosa da s-muovere”.

Appena ci vediamo riconosco il suo volto ma, a differenza delle foto press dove è rasato, mi appare diverso.

As if, I have missed myself: come se avessi perso me stesso. Cos’hai perso oppure: cosa non possiedi ma credi sia tuo diritto (o dovere) possedere?

Non so cosa ho perso, ma so cosa mi piacerebbe possedere: un senso di valore, I have a value. Un valore non necessariamente intrinseco, ma piuttosto vorrei che esistesse la sensazione che ognuno abbia un valore – che oggigiorno è molto difficile da provare, sentire, in quanto il “valore” è dettato in gran misura dai social media. Questi mettono una sorta di lente di ingrandimento, una amplificazione del valore ricercato, ma non necessariamente posseduto – a volte quasi falsato.

Quali sono i disordini di depersonalizzazione di cui parli nella tua performance?

La depersonalizzazione è stato il punto di partenza con Manuele Rosa e poi da lì abbiamo approfondito verso altre direzioni. La depersonalizzazione è un concetto affascinante: sono i fenomeni della mente in opposizione alle azioni. È il vedersi dal di fuori, è un sistema di difesa della mente, soprattutto in casi di sofferenza marcata che portano ad una non accettazione della situazione da parte della mente dell’individuo in questione. Tutti ne fanno esperienza nel corso della propria vita. È la classica frase “è come se mi fossi visto dall’esterno”. È il cosiddetto fenomeno di estraneazione, che si sposa bene al mondo della danza perché coreograficamente si può immaginare qualsiasi cosa.

Da qui la nostra ricerca si è spostata verso l’identità, intesa come coesistenza di diverse parti in noi; si percepiscono queste parti che formano la nostra identità e che danno luogo ad una coerenza nel contesto sociale, che molte volte risulta essere fittizia sia dentro di noi che con gli altri: ovvero le cosiddette aspettative, a prescindere che vengano da noi, da persone care, o dalla massa.

Anche personalmente ci si aspetta una coerenza che non sempre accade in quanto l’Io è formato da stratificazioni. Freud e il suo lavoro sull’Io, Super-io ed Es hanno fatto parte della ricerca insieme alle patologie dell’identità. Punto interessante è stato il concetto di identità “sana” in opposizione all’ identità “disfunzionale”, che tralascia tutte le sfaccettature del mezzo e che sono componenti normali della psiche. Mi chiedo quindi quando si diventa “disfunzionali”. Se si accettassero le sfaccettature, cadrebbero tutti i tabù e inizierebbe l’accettazione incondizionata di diversi tipi di personalità, ovvero di quelle personalità “normali” nella mente in questione (intendi “disfunzionale”) ma che le altre personalità (intendi “sane”) non accettano, se non a livelli avanzati.

Ma la cosa che più mi interessa è che tutto ha un doppio aspetto: la depersonalizzazione è sia difesa della mente ma anche problema, in quanto caratterizzerebbe stati di “insanita’ mentale”.

Parli di una drammaturgia del corpo, un corpo che diventa scena e abitato e abitante dalla continua trasformazione delle identità che si stratificano giorno dopo giorno, fino a mostrare una identità attuale. Come ti sei trasformato nel corso degli ultimi anni?

È una trasformazione non conclusa e forse non lo sarà mai. Più che di trasformazione mi sento ora in un processo di osservazione dall’esterno, sicuramente frutto del percorso per creare As if. Osservo le mie azioni e le mie sensazioni – a tratti anche troppo, ma è un processo inconscio che noto solo una volta conclusosi. A tratti questa cosa mi disturba, ma al contempo mi fornisce capacità di riconoscere le dinamiche di gruppo, dei pattern, e cerco di capire se e come sono necessari. Dipende molto dal contesto. Al momento guido un gruppo di danzatori. Ho iniziato con calma, osservando se il gruppo mi offriva dei pattern e/o dinamiche di cui ho già fatto esperienza. Nel gruppo mi sono ora spogliato del ruolo di coreografo. Cerco di identificare i pattern al suo interno, cerco di usarli ma non di esserne schiavo. Bisogna guadagnarsi la fiducia e rompere schemi e aspettative appunto sociali.

Sono molto aperto nel processo creativo e mi interessano le sfumature dell’Uomo, non solo quelle socialmente accettate. Ho comunque notato che diverse culture in diversi contesti reagiscono in modo diverso. Credo perché siamo individui vissuti: la vita ci viene addosso, ci entra dentro plasmando volenti o nolenti la nostra identità.

Foto da fabio-liberti.com

Pelle come strato esterno di noi, quello che facciamo vedere a tutti, ma anche quello dentro il quale ci nascondiamo. Nello spettacolo te la togli, ad identificare una messa a nudo. Secondo te, siamo mai messi a nudo davvero con gli altri o solo con noi stessi? Quando possiamo essere nudi o quando ci sentiamo nudi?

Non credo possiamo mai essere a nudo perché non sappiamo di cosa ci dobbiamo spogliare. Io percepisco gli strati della mia identità, ma non saprei come togliermeli. Credo che la nudità sia una sorta di vulnerabilità, un centro che ci identifica. Chi siamo se ce lo togliamo? Significherebbe anche decontestualizzarci. Io sono italiano: quanto conta questo? Non posso togliere la mia “italianicità” in quanto parte intrinseca della mia identità. Se ci viene chiesto chi siamo, rispondiamo con dei dati: sono Fabio, maschio, bianco, italiano. E non credo che questi dati siamo noi nel senso stretto del termine.

Mi viene ora da pensare che forse sarebbe possibile mettere a nudo gli strati a seconda del pattern e del contesto.

Questo messi a nudo sicuramente richiama la pressione sociale. In un mondo che ci spinge ancora e compartizzarci, anche il cercare di non appartenere a nessuna categoria è paradossalmente un appartenere ad una categoria.  A quale non-categoria appartieni e quale vorresti “denunciare”?

Credo che si possa parlare più che altro di un istinto di appartenenza ad una categoria. È una radice biologica che accompagna l’Uomo da sempre. Per me è quindi un bisogno intrinseco di appartenenza, legato a radici biologiche che ci fa appartenere a diverse categorie. Io sto lavorando sull’elasticizzazione dei confini della mia “categoria sociale” da un punto di vista di onestà emotiva e di condivisione – condivisione che paradossalmente non si condivide in quanto si vuole apparire con una certa forza.

Foto da fabio-liberti.com

La performance è una combinazione di pratiche tue e di Emanuele Rosa. La collaborazione è iniziata con un intenso scambio di idee e una connessione artistica durante il periodo di tre residenze artistiche (due in Danimarca e una in Italia). Abbiamo già parlato di come è nato il tema, di come vi siete confrontati e di come è iniziato il processo creativo. Ti chiedo quindi se hai trovato diversità e/o punti di incontro tra Danimarca e Italia in termini di identità.

Credo che l’identità sia un’espressione di grande diversità. Ho notato che in Danimarca le persone crescono più indipendentemente, c’è molta più espressione e non si parla propriamente di identità. In Italia si cresce quasi più in relazione alla famiglia e al contesto sociale. La persona lavora sul rafforzamento delle connessioni del nucleo familiare. La domanda in realtà è più complessa (iniziamo qui un confronto di opinioni sul documentario The Swedish theory of Love del 2015 dell’italo-svedese Erik Gandini, già noto per Videocracy – Basta apparire del 2009). Credo sarebbe intelligente prendere il meglio da entrambi i sistemi.

Come ti sei ritrovato in Danimarca?

Lavoro. Sono entrato in compagnia come danzatore al Danish Dance Theatre e dovevo rimanerci cinque mesi, che poi sono diventati otto anni. Nel contempo ho avuto modo di sviluppare la mia identità di coreografo che mi ha portato a proporre diversi lavori.

E comunque, per la performance si taglia i riccioli: da un punto di vista drammaturgico e significativo esplica meglio una testa rasata. Forse un annullamento di identità – oppure una messa a nudo di solo uno strato dell’Io dei due coreografi e danzatori Fabio e Manuele.

As if, I missed myself

Di Fabio Liberti & Emanuele Rosa

Sabato 2 luglio ore 15:00

Tanssin talo – Pannu Hall

ICEHOT festival www.icehotnordicdance.com

MUOVI½Fabio Liberti www.fabio-liberti.com

(Foto del titolo di Foto Christoffer Breckne)