Roma, via Bartolo Longo, periferia nord-est della città, Carcere di Rebibbia. Sono le 9.45 di sabato 20 gennaio e sono seduto in macchina. Il cielo è grigio, come le mura esterne del carcere. A pochi metri, un gruppetto di donne e bambini, in fila, di fronte a un cancello per l’accesso al pubblico. Aspettano di poter entrare. Le donne hanno con sé buste di plastica e borsoni. Immagino siano vestiti puliti, cose da mangiare, cucinate a casa. Un bambino molto piccolo tiene la mano sinistra stretta a quella della madre, una calza della befana nella destra. Un netturbino ha spazzato le foglie dei platani e ora riempie dei grandi sacchi neri, li chiude con lo scotch, una macchina della polizia penitenziaria si ferma di fronte all’unico bar sulla strada.
Non è la prima volta che mi trovo qui. Sono stato all’interno del carcere di Rebibbia già tre volte, l’ultima proprio nel gennaio di un anno fa, grazie all’iniziativa Devi vedere! di Radicali Italiani. Con loro ho visitato anche la Casa circondariale di Regina Coeli, proprio “ner core” di Roma, tra Tevere e Trastevere, e tanti anni fa anche il Carcere minorile di Casal del Marmo, periferia nord-ovest di Roma, grazie all’Associazione Cemea del Mezzogiorno. Perché? Il motivo è lo stesso che mi ha portato a proporre a Vera De Stefanis di vederci stamattina, l’interesse nei confronti di una realtà estrema e spesso incomprensibile, un luogo dove uomini hanno pieno controllo su altri uomini, uno dei livelli più bassi della condizione umana.
Con Vera ci siamo scritti, ma mai incontrati di persona. L’ho conosciuta per puro caso, o forse è stato l’algoritmo che regola i miei accessi a Spotify, un paio di mesi fa. Il sistema mi ha suggerito di ascoltare un podcast e quando ho letto il titolo non credevo ai miei occhi: Buongiorno Rebibbia!
In Buongiorno Rebibbia! dall’aprile 2023 Vera racconta, in finlandese, la sua esperienza di volontaria presso il carcere, iniziata in realtà già nel 2018, attraverso l’Associazione VIC-Caritas. Ma eccola, è arrivata, mi fa segno con la mano, ci riconosciamo. Mi guida all’interno del carcere, nella parte accessibile ai visitatori, e ci sediamo di fronte a un cappuccino, in un bar gestito da detenuti. A parte tre di loro e un paio di guardie penitenziarie, siamo soli. Sono ormai le 10.30 e Vera alle 11.30 dovrà entrare nella struttura, per poi uscirne verso le 15.00. Ho tante domande da farle, iniziamo.
Vera, come sei giunta a vivere in Italia, cosa ti ha spinto inizialmente? Hai vissuto sempre a Roma?
Ho conosciuto mio marito in Finlandia e nel 2006 mi sono trasferita in Italia. Si, ho sempre vissuto a Roma.
Come sei arrivata ad avvicinarti al mondo carcerario italiano? Avevi fatto esperienze simili in Finlandia?
È un mondo che mi interessa, anche se non sono mai stata in un carcere finlandese. Avevo iniziato a tenere una corrispondenza con un ergastolano americano e durante un viaggio in Sudafrica ho visitato il carcere dov’era detenuto Nelson Mandela. Dopo alcuni anni che ero in Italia ho appreso, tramite internet, che era possibile fare volontariato a Rebibbia. L’Associazione con cui lo faccio si chiama Volontari in Carcere (VIC) e fa parte della Caritas.
Qual è l’Italia che si vede da Rebibbia, da questo specifico punto di osservazione?
Non è facile rispondere. Mi vengono in mente alcune parole chiave: condivisa, difficile, paradossale, solidarietà, speranza, välittäminen… non so tradurlo bene in italiano; tipo affettuosità, premurosità, sollecitudine. Vivo in questo Paese dal 2006 e ormai sento di conoscerlo, almeno un po’, ma è solo dal 2018 che frequento Rebibbia. Da qui vedo un Paese con tanto benessere ma anche tanta fragilità. E tanta solidarietà, che non vedo in Finlandia. Da noi lo Stato pensa a molte cose, si occupa di molti aspetti della vita. Qui è diverso. E nel carcere è evidente: tutta “la parte sociale” è a carico delle famiglie e dei volontari. Senza famiglie e volontari il sistema carcerario crollerebbe.
Puoi fare qualche esempio?
Conosco un ergastolano al quale la moglie ogni volta porta un pacco da 20 kg, il massimo peso consentito. Vestiti, cibo. Non potrebbe sopravvivere senza quel pacco. E forse non potrebbe sopravvivere senza i volontari, i corsi di italiano, teatro, musica. Il mio volontariato lo svolgo in coppia con una ragazza, lavoriamo molto bene insieme e sento che riusciamo spesso a fare la differenza, ma è perché siamo al reparto G8, in altri reparti non sarebbe così facile. Intendo dire che ogni reparto ha caratteristiche e dinamiche sue, ogni reparto ha bisogno un suo approccio. Con la mia personalità e carattere sento di poter dare e fare in più al G8.
Sei sempre stata al reparto G8? Che caratteristiche ha?
No, prima ero a G12, ma da due anni sono passata al G8. Al G12 non riuscivo a creare rapporti duraturi, mentre al G8 è diverso, i detenuti sono tutte persone che scontano pene lunghe, dai cinque anni all’ergastolo. Molti di loro lavorano, la maggior parte dentro, ma alcuni anche fuori, rientrano in carcere per dormire. È il settore più tranquillo del carcere e ci vengo una o due volte a settimana. Parlo con un detenuto alla volta, in una stanzetta spoglia, dove c’è solo un tavolino e due sedie. Raccolgo le loro richieste e le porto all’esterno, alle loro famiglie o agli avvocati dell’associazione. Sono sempre trattata con molto rispetto, i detenuti sono di tutte le età, ma quelli che assisto io hanno dai 40 ai 60 anni, sono maturi, tranquilli, rispettosi.
Perché hai sentito il bisogno di raccontare la tua esperienza in un podcast?
Il carcere è un microcosmo che riflette la realtà all’esterno, ma nessuno lo riconosce come tale. Penso sia importante raccontare quello che succede nelle carceri perché le ingiustizie dentro sono anche le ingiustizie della società fuori. Inoltre, vorrei parlare apertamente del fatto che è arrivato il momento di cambiare la nostra immagine del prossimo. Viviamo in un costante pessimismo nel quale il prossimo è spesso una minaccia, è visto come un pericolo. Quando ero piccola guardavo sempre uno spettacolo per bambini in televisione, dove c’era un pagliaccio che si chiamava Pelle Hermanni ed ero affascinata dal fatto che lui parlasse con la madre attraverso uno schermo. Ecco, adesso ci sembra normale, ci siamo dentro, siamo tutti sui social e veniamo monitorati in continuazione. Tutti sanno un po’ tutto di tutti, dove e cosa mangiamo, dove andiamo in vacanza, che musica ascoltiamo, come ci vestiamo, e questo porta a una categorizzazione continua, siamo spesso costretti in categorie, etichette. E questa enfasi sull’immagine ci porta a pensare che, se non hai successo, soldi, se non ti sei laureato ecc, non hai diritti. Allora è più facile pensare che i detenuti sono sempre stati così, e dire “quello se l’è cercata, è un delinquente”, ma la vita è altro, è imprevedibile. Quando parlo con i detenuti, torna sempre la riflessione su quel momento di svolta, quel momento in cui la loro vita ha sterzato, ha preso una piega diversa. Alcuni di loro non ricordano neanche come è successo. In altri casi è diverso, ci sono detenuti che provengono da contesti mafiosi o comunque di malavita storica, sono nati in famiglie così, ci sono cresciuti dentro.
Secondo te il rapporto tra la società e il carcere è diverso tra Italia e Finlandia?
In Finlandia la maggior parte delle pene sono abbastanza corte, al contrario dell’Italia dove molte persone sono condannate a pene molto lunghe, per cui c’è maggior pressione. Basti pensare ai reati per cannabis. Tantissimi detenuti in Italia sono dentro per piccolo spaccio di cannabis, anche per 6 anni, è una follia. E tanti di loro, condannati a pene sotto i 4 anni, sono persone non pericolose che potrebbero stare ai domiciliari, oppure fare percorsi di recupero. È assurdo che si marcisca in carcere per la cannabis, e questo fa stare male tutti, perché le carceri sono sovraffollate. In Finlandia non ci sono situazioni di così forte disagio, e il cittadino medio pensa che i detenuti stanno fin troppo bene. Ma non c’è, come in Italia, compassione e solidarietà. Si pensa che in fondo, se uno finisce in carcere, nonostante l’assistenza sociale e maggior welfare, beh, allora se lo merita, è solo colpa sua.
Questo diverso atteggiamento si può spiegare con le radici religiose-culturali dei due Paesi? L’Italia è un paese di radice cattolica, la Finlandia luterana. A prescindere se uno crede o meno, l’educazione nei due paesi riflette l’impostazione religiosa.
Forse sì. In Finlandia devi sempre avere paura. In un certo senso non puoi sbagliare. In Italia c’è più tolleranza verso chi sbaglia, più comprensione per il fallimento. Certo, questo influenza la visione del carcere e dei detenuti.
Che tipo di utenza ha il tuo podcast?
In Finlandia è ascoltato soprattutto in Uusimaa, la regione di Helsinki. Ma naturalmente è ascoltato anche dai finlandesi in Italia. L’età degli ascoltatori è generalmente superiore ai 40 anni.
Hai mai pensato di realizzare degli episodi in italiano?
No, il podcast è nato così, ho bisogno di esprimermi nella mia lingua.
Hai paura di stancarti? Hai mai pensato di sviluppare progetti di volontariato diversi?
Stancarmi? Assolutamente no. In carcere ho trovato il mio posto per connettermi e aiutare altre persone, stare vicino a chi ha bisogno. Per quanto riguarda nuovi progetti, ho appena proposto un corso di yoga per detenuti, e sono molto felice di dire che è stato approvato! Mi fa piacere portare questo approccio all’interno del carcere, per me lo yoga non è solo un’attività fisica, ma una filosofia di vita, è spiritualità, visione del mondo. Lo yoga mi rappresenta, è libertà di essere, di esistere, trovare se stesso ed esprimersi, e voglio portare questo senso di libertà all’interno del carcere.
Sono le 11.30, riconsegno le tazze al barista. Usciamo all’aperto. È uscito uno spicchio di sole. Una coppia di runners ci passa accanto correndo, ci raggiunge il rumore del traffico lungo via Tiburtina, qualcosa di familiare. Vera mi accompagna alla macchina. La saluto augurandole il meglio per il suo corso di yoga. Torno a casa, lei entra in carcere.
Il podcast Buongiorno Rebibbia! si può ascoltare gratuitamente su tutte le piattaforme audio.
Tutte le foto sono dell’autore.