L’ultimo santuario dei ghiacci: fotografo nella Terra di Francesco Giuseppe

La Terra di Francesco Giuseppe è un arcipelago di 191 isole ricoperte per oltre l’85% da ghiacciai immacolati. Si trova nella Siberia russa, nel mare di Barents, ad est delle isole Svalbard. Alle latitudini tra 80° e 81,9° è il gruppo di isole più settentrionali dell’Eurasia.

L’arcipelago è rimasto completamente sconosciuto fino al 1873 e fu scoperto per caso durante una delle spedizioni polari che andavano di moda alla fine del 1800 ed agli inizi del secolo scorso in quella che era divenuta una gara non solo da parte di esploratori ed avvventurieri dell’epoca ma anche delle Nazioni stesse che volevano aggiudicarsi il prestigio delle nuove scoperte e conquiste.

L’arcipelago fu scoperto dagli esploratori polari austriaci Karl Weyprecht e Julius von Payer che gli diedero come nome quello dell’imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe.

All’epoca si credeva dell’esistenza di un mare aperto per raggiungere le latitudini più settentrionali fino al Polo Nord ritenendo che la via più breve, sfruttando la Corrente del Golfo, passasse attraverso le Svalbard e più a est le isole di Novaya Zemlya. Ben presto però la nave dei due esploratori austriaci rimase bloccata nei ghiacci e sospinta verso nord per oltre 4 mesi fino a che fu avvistata quella che sarebbe stata chiamata la Terra di Francesco Giuseppe. I due esploratori organizzarono una spedizione con i cani da slitta e cominciarono a mappare la costa.

Successivamente l’arcipelago venne esplorato da inglesi, italiani e americani. Nel 1898 una spedizione del Duca degli Abruzzi raggiunse Rudolf island da dove Umberto Cagni iniziò la spedizione con le slitte verso il Polo rompendo il record stabilito dall’esploratore norvegese Nansen. Grazie agli sforzi dei primi esploratori era stata fatta a grandi linee la mappatura delle isole e Franz Josef Land divenne la base di partenza dove svernare prima di tutte le spedizioni successive al Polo Nord.

Inimmaginabili e straordinari sono i racconti tramandati da parte di quegli uomini coraggiosi che riuscirono a sopravvivere per anni interi nelle condizioni più rocambolesche senza i mezzi che offre oggi la tecnologia moderna.

Nel 1926 le isole furono annesse all’Unione Sovietica e vi si insediarono solo pochissimi abitanti stagionali per scopi scientifici e militari.

Il clima è particolarmente rigido: nei mesi estivi la temperatura si aggira attorno a 0 gradi mentre nel cuore dell’inverno si va anche ai 50 gradi sottozero. Il mare ghiaccia verso la fine di settembre e per marzo l’intero arcipelago è inaccessibile.

Solo negli ultimi anni con il riscaldamento globale è meno problematico navigare nelle acque dell’arcipelago nel breve spazio di pochi mesi estivi ma, comunque, l’accesso con una nave richiede permessi veramente speciali.

Ancora oggi La Terra di Francesco Giuseppe può considerarsi uno dei luoghi più remoti, sconosciuti e poco visitati dall’uomo.

E fino a due anni e mezzo fa, come tanti di voi lettori, non ne ne conoscevo l’esistenza, fino a quando cioè mi è arrivata una mail da parte degli organizzatori americani con cui avevo già preso parte ad alcune loro spedizioni polari, nella Penisola Antartica, nell’isola della Georgia Australe (South Georgia) e alle Isole Falkland. Nella mail c’era la proposta per un viaggio inedito e praticamente unico: La Terra di Francesco Giuseppe.

Non ebbi esitazioni e mi iscrissi subito. Iniziò così la fase di assidua corrispondenza con l’organizzazione per la prepazione del viaggio, le problematiche per ottenere il visto russo per una meta così inusuale, la prenotazione dei voli aerei per raggiungere le Svalbard, base di partenza con la nave per raggiungere l’arcipelago, l’ottenimento di una polizza assicurativa speciale per l’emergency evacuation, la lettura su tutto quello che concerneva clima, fauna, geologia, storia delle esplorazioni .

Franco Figàri su un gommone

Per quanto riguarda l’attrezzatura fotografica da portare e l’abbigliamento da indossare mi sentivo già preparato perché abituato alle temperature invernali molto più estreme nei Parchi nazionali di Riisitunturi ed Oulanka nella Lapponia finlandese.

Il tempo trascorre più veloce del previsto e finalmente il 18 luglio di quest’anno parto dalla Finlandia, dove abitualmente trascorro gran parte dei mesi estivi, per Oslo e quindi per le Svalbard. Il 20 luglio mi imbarco da Longyearbyen, l’avamposto norvegese alle Svalbard più a nord del mondo e inizia la navigazione di due giorni e mezzo per raggiungere l’arcipelago di Franz Josef Land. Mi lascio alle spalle il mondo civilizzato, unica possibilità di contatto con casa è il satellitare.

La nave è la Sea Spirit della compagnia Poseidon, costruita in Italia negli anni ’90 e adatta per la navigazione nelle acque polari. Il capitano è ucraino, l’equipaggio è multietnico, i compagni di viaggio, alcuni dei quali ritrovo dopo 10 anni dalla spedizione in South Georgia, formano un gruppo veramente internazionale: americani, canadesi, inglesi, belgi, tedeschi, spagnoli, australiani, cinesi, olandesi. Unico italiano a bordo sono io. L’incontro con i nuovi compagni di viaggio è interessante perché è tutta gente che ha alle spalle un passato di viaggi molto particolari da condividere. Sono fotografi, esperti biologi, biologi marini, naturalisti, geologi, viaggiatori incalliti. Sulla nave faccio conoscenza di uno straordinario fotografo russo, Sergey Gorshkov, di cui avevo comprato due libri al museo di Hannu Hautala a Kuusamo sugli orsi della Kamchatka e sull’isola siberiana di Wrangler.

Il gruppo delle guide si rivelerà estremamente professionale: oltre che provetti guidatori di gommoni Zodiac hanno vaste conoscenze sulla fauna, sulla flora, sulla geologia, sulla storia dell’arcipelago. Tra queste, una giovane ragazza svedese esperta di kajak, ha partecipato nel 2018 ad una incredibile spedizione con gli sci per raggiungere il Polo Nord: 12 sole donne di nazionalità diverse (occidentali, arabe, asiatiche) a dimostrare la possibilità di convivenza fra razze, culture e religioni diverse in un mondo che alle volte sembra andare all’incontrario.

La nave è molto bella, gli spazi sono confortevoli, la professionalità dell’equipaggio impeccabile, i pasti a bordo eccellenti. Viene da sorridere se si pensa alle condizioni estreme che hanno dovuto affrontare gli esploratori che per primi hanno scoperto queste terre estreme.

Dopo oltre due giorni di navigazione in mare aperto la prima isola della Terra di Francesco Giuseppe che ci appare è Alexandra Land. È qui che si svolgerà il controllo dei visti. Da un piccolo avamposto russo saliranno a bordo gli ufficiali della dogana per visionare il passaporto di ogni passeggero, un’operazione che durerà circa 4 ore. Saliranno a bordo anche le giovani guardie russe del Parco nazionale (2 ragazze e 4 uomini) che staranno con noi per tutto il viaggio e durante gli sbarchi a terra vigileranno sul territorio, fucile a tracolla, per segnalare la presenza o meno dell’orso polare.

Svolte le pratiche doganali inizia il nostro viaggio. Di notte si dorme sulla nave, di giorno quando è possibile si sbarca a terra o si esplora la costa con i gommoni e con il kajak. Avrei voluto partecipare alle spedizioni in kajak ma come fotografo mi rendo conto che avrei dovuto rinunciare quasi del tutto alla fotografia.

La sveglia al mattino è tra le 6 e le 7 a seconda del programma giornaliero, programma che può cambiare di volta in volta in base alle condizioni meteo. C’è infatti sempre un piano B pronto. Se viene avvistato un orso polare a terra non si potrà sbarcare, lo stesso in caso di nebbia perché con la nebbia diventa impossibile individuare la presenza di un orso nelle vicinanze. Infine spesso le correnti spostano in poco tempo enormi quantità di ghiaccio rendendo impossibile lo sbarco. Per questo ogni mattina le guide perlustreranno la riva e decideranno di volta in volta le soluzioni possibili.

Inizia così l’esplorazione di un mondo drammaticamente inospitale e allo stesso tempo affascinante. Ghiacciai imponenti a strapiombo sul mare, iceberg trascinati dalla corrente che si ammassano nelle anse della costa formando i cosidetti “iceberg graveyard”, un labirinto dove destreggiarsi con i gommoni e i kajak, colonne di roccia basaltica che raccontano di esplosioni vulcaniche in ere geologiche lontane (Terziario e Giurassico).

Raramente il sole filtra un cielo plumbeo, la nebbia arriva improvvisamente e altrettanto velocemente si dirada. Le condizioni meteo cambiano in un attimo. Un pomeriggio si è levato un vento a circa 70 km orari ed il rientro alla nave sui gommoni si è trasformato in una doccia straordinaria di acqua gelida!

Nel cielo si formano le cosidette nuvole lenticolari e a queste latitudini la luce dura 24 ore su 24. Incontro abituale è quello con i trichechi che riposano su piatti iceberg a pelo d’acqua. In questo periodo dell’anno sono solo femmine e cuccioli che aspettano l’arrivo dei maschi.

Sulle pareti basaltiche a picco sul mare schiamazzano migliaia di uccelli marini ma il momento più emozionante è l’avvistamento dell’orso polare che cammina sul fronte del ghiacciaio, una situazione inusuale perché il cibo di cui si nutre (foche, alghe, uova di uccelli) si trova soprattutto a livello del mare.

Quando si riesce a scendere a terra si cammina su un terreno desolato di sassi e rocce ricoperte da un’incredibile varietà di licheni colorati tra cui si riproducono e spuntano nell’arco di poche settimane all’anno svariate speci di fiori artici.

Come fotografo rimango affascinato dalle incredibili sculture del ghiaccio e provo la stessa emozione di quando mi inoltro con le racchette da neve nel Parco Nazionale di Riisitunturi nella taiga finlandese a fotografare la “foresta di ghiaccio” ovvero il fenomeno della galaverna artica (tykky) che trasforma gli abeti e i pini della foresta rendendoli irriconoscibili.

Il color blu intenso di alcuni iceberg ci racconta che il ghiaccio è antico migliaia di anni (la neve ghiacciata, compressa dagli strati successivi che si sono accumulati, ha eliminato ogni residuo di ossigeno, per cui alla luce si colora di blu). Con abilità le guide scivolano con i gommoni sulle acque gelide ma di trasparenza caraibica tra pinnacoli, archi, intagli e sculture di ghiaccio che fanno impazzire in particolar modo un fotografo paesaggista.

Quando il sole filtra tra le nuvole scure del cielo artico i ghiacciai a picco sul mare si illuminano come lame scintillanti. Dal fronte si riversano in mare cascate d’acqua a ricordarci che, nonostante la presenza dei ghiacci sia a queste latitudini ancora quasi totale, il surriscaldamente globale è drammaticamente in atto.

Sapendo che viaggi del genere sono difficilmente ripetibili mi sono ritrovato varie volte, durante gli orari dei pasti o al mattino verso le 2, a girare da solo sul ponte della nave per fotografare gli iceberg in transito o lo spettacolo delle nuvole lenticolari, veri e propri UFO in cielo, un fenomeno atmosferico che si verifica spesso alle latitudini polari quando i flussi d’aria vengono modellati dall’orografia dei rilievi montuosi.

Prima di ripercorrere sulla via del ritorno gli oltre 1000 km che separano Franz Josef Land dalla base di partenza alle Svalbard, per 9 giorni la Sea Spirit ha navigato nel dedalo di passaggi tra le isole dell’arcipelago toccando Rudolph Island, Jackson Island, Apollonov Island, Kuhn island, Ziegler Island, George Island, Luigi island, Hooker Island, dove si vedono ancora delle baracche di un centro di ricerca russo.

Varie volte le condizioni meteo o l’inacessibilità dei ghiacci ci hanno costretto a variare le mete del programma iniziale ma i nuovi approdi raggiunti non sono stati di certo inferiori o meno interessanti. È probabile che su una delle isole siamo stati i primi esseri umani a mettere piede.

Al rientro in Finlandia e tornato nella mia casa sul Valkjärvi, vicino a Sammatti, ho vissuto per svariati giorni in una bolla, svuotato di adrenalina ed energie, ripensando al mondo lontano che avevo visto, e che mi tornava costantemente alla mente, più vivo che nelle mie stesse fotografie.