Mika Waltari: Riccioli d’oro

I nostri "Insoliti Ignoti", testi ancora inediti in lingua italiana

KIRJAILIJA MIKA WALTARI 1949 C /SKOY

Kultakutri (1946)

WSOY 1961

Romanzo

Riccioli d’oro viene tradizionalmente definito, nell’ambito dell’opera di Waltari, un “romanzo breve” (in finlandese, pienoisromaani). È la storia complessa e tragica di Maire, una ragazza che, al contrario dei suoi fratelli, figli legittimi, è nata fuori dal matrimonio, e non viene accettata dal padre. Maire, uno dei personaggi femminili meglio riusciti di Waltari, non sopportando più l’apparente disprezzo del genitore verso di lei, ai limiti del disgusto, fugge di casa, finendo però per essere costretta a prostituirsi. Si sposa, ma poi si innammora di un uomo sposato, Torsti, e lo convince ad uccidere la moglie. Successivamente sposa un vecchio facoltoso, e lo uccide per evitare ad una bambina di essere violentata da lui, come lei stessa lo era stata in gioventù.

Mika Waltari

(Helsinki 1908 – 1979)

Waltari è per molti lettori, non solo nel nostro paese ma anche in tutto il mondo, l’autore di un singolo romanzo o (per i più informati) di un singolo genere, quello dei romanzi storici, per lo più ambientati nell’antichità o nel Medioevo. Il romanzo in questione sarebbe Sinuhe l’egiziano (Sinuhe, egyptiläinen, 1945; trad. it. 1950), la cui struttura prefigura i romanzi seguenti: narra la storia di un solitario cercatore della verità e del significato della vita, vissuto al crocevia di due epoche, e costretto a sperimentare dolorosamente la necessità di scegliere tra l’ideale e la dura realtà. Altri romanzi storici di Waltari includono L’angelo nero (Johannes Angelos, 1952; trad. it. 1954; Gli amanti di Bisanzio, 2014), Turms l’etrusco (Turms kuolematon, 1955; trad. it. 1956) e Marco il Romano (Valtakunnan salaisuus, 1959; trad. it 1961).

Le altre opere di Mika Waltari rimangono in qualche modo all’ombra di questi affreschi storici, ed è un vero peccato, in quanto mostrano un atteggiamento diverso eppure per molti aspetti simile all’intera produzione letteraria dell’autore.

I critici letterari finlandesi hanno discusso innumerevoli volte sulla definizione del termine pienoisromaani; alcuni hanno cercato di trovare punti di partenza teorici confrontando concetti simili nella poetica delle letterature straniere (novella, novelette, short novel, ecc.), altri hanno cercato le radici di questo genere nella stessa Finlandia. Mika Waltari considerava il termine “romanzo breve” un’invenzione della casa editrice Werner Söderström (WSOY), che nel 1937 lanciò una competizione per il miglior romanzo breve dell’anno, presumibilmente perché racconti e novelle avevano una vendita migliore rispetto ai romanzi.

L’affermazione di Waltari dovrebbe essere presa con riserva, poiché la formula “romanzo breve” era già apparsa, in modo dimostrabile, nella letteratura finlandese anche precedentemente; ma la suddetta competizione portò all’associazione di questo termine con parte dell’opera di Waltari, il quale partecipò alla gara già godendo di una notevole fama. Bisogna ricordare come all’epoca avesse solo 29 anni, pur avendo alle spalle già gli studi universitari (filosofia, estetica, letteratura mondiale contemporanea e storia dell’arte), l’esordio poetico, e i viaggi in Europa, un periodo di sfida alla rigorosa educazione luterana e il successivo pentimento, e soprattutto l’accesso alla scena letteraria come membro del gruppo letterario Tulenkantajat (Portatori di fuoco), che prefigura il modernismo nella letteratura finnofona.

Il ruolo di Waltari tra i Tulenkantajat fu cruciale, sebbene fosse di parecchi anni più giovane del nucleo del gruppo: il suo primo romanzo, La mia grande illusione (Suuri illusioni, 1928), divenne una dichiarazione generazionale che descriveva i sentimenti della “generazione perduta” della Helsinki degli anni ’20, e la raccolta poetica Autostrade (Valtatiet, 1928), scritta da Waltari insieme a Olavi Paavolainen (il quale assunse lo pseudonimo di Olavi Lauri), è l’unico tentativo finlandese di poesia futurista.

Pertanto, sebbene le prime opere importanti di Mika Waltari siano una raccolta di poesie e un romanzo, va sottolineato come fin dall’inizio della sua carriera di scrittore egli si sia dedicato alla prosa breve, come testimonia la raccolta di racconti dell’orrore Gli occhi del morto (Kuolleen silmät) del 1926, fortemente segnata dal romanticismo esotico, caratteristico dell’intero movimento dei Tulenkantajat. A cavallo tra gli anni 1920 e 1930, Waltari pubblicò la raccolta I giganti sono morti (Jättiläiset ovat kuolleet, 1930), in cui temi e tecniche narrative divennero molto più realistici. In questa raccolta, troviamo anche i primi testi in prosa che possono essere descritti come romanzi brevi, nella fattispecie Un evento terribile (Ikäva tapaus), che ha molte delle stesse caratteristiche di Mai più un domani (Ei koskaan huomispäivää; entrambi presentano il dramma di un triangolo amoroso, entrambi trassero ispirazione da reali notizie giornalistiche) e La terra fiorisce (Multa kukkii). Queste opere contengono temi che hanno sempre affascinato Waltari e che diventano fondamentali nel suo lavoro degli anni ’30: solitudine, colpa, punizione, confronto con la morte, ricerca della fede e dell’assoluto e l’incompatibilità di questi valori assoluti con la realtà quotidiana.

Waltari al caffè, caricatura di Väinö Kunnas (1928)

Nella prima metà degli anni ’30, Waltari (nello spirito della tendenza generale della prosa finlandese) si discostò definitivamente dagli esperimenti formali, dedicandosi principalmente ai romanzi. Gli anni ’30 sono il periodo più fruttuoso della sua carriera (Waltari si cimenta in vari generi, scrive fiabe, storie poliziesche, romanzi umoristici e avventurosi, fumetti, opere teatrali, e inoltre traduce e si dedica all’attività giornalistica), ma la sua prosa, secondo le sue stesse parole, si trovava ormai in un vicolo cieco sia formalmente sia in termini di contenuto. La competizione della WSOY contribuì a risolvere questa crisi: nei romanzi brevi, Waltari affermò di aver trovato il genere a lui più congeniale. Per maggiori informazioni riguardo al concorso della WSOY, così come alla controversia scatenata da Vieras mies tuli taloon (1937; trad. it Il podere, 1942) e la pubblicazione di alcuni romanzi brevi successivi, si veda il mio precedente saggio Mika Waltari noto e meno noto.

Anche Riccioli d’oro ebbe un destino piuttosto travagliato. Waltari lo offrì all’editore nel 1947, ma fu respinto con profondo sdegno come opera assolutamente immorale. Fu così pubblicata in un’edizione bibliografica nel 1948 (a spese dell’autore), e uscì “ufficialmente” (e antologicamente) soltanto molti anni dopo (1961).

A distanza di tempo, comunque, la critica definì i romanzi brevi di Waltari come “gioielli della prosa finlandese”; come tutte le etichette simili, anche questa non può essere accettata senza riserve: anche tra questo tipo di testi se ne trovano di meno convincenti dal punto di vista artistico, come è in definitiva caratteristica dell’intera opera waltariana. In molti di questi romanzi, comunque, la valutazione ci sembra più che appropriata, e alcuni anticipano formalmente e in parte tematicamente il culmine artistico di Waltari, Sinuhe l’egiziano, per il quale l’autore ricevette molte critiche per la “non finnicità e la preferenza di temi ben lontani dalla grande tradizione (realista) della letteratura finlandese”. Resta il fatto, tuttavia, che con Sinuhe Waltari raggiunse la fama mondiale, e che proprio grazie ai suoi romanzi storici “non finlandesi” riesce tuttora a raggiungere i lettori stranieri anche con i suoi testi incentrati su temi più propriamente finnici.

Waltari scrisse Riccioli d’oro durante la seconda guerra mondiale e l’ombra della guerra sembra davvero incombere sull’intera storia, dove tutto culmina nella frase finale del romanzo: “Poco dopo, la guerra si propagò in tutto il mondo, spazzando via ciò che era stato.”

Oltre all’ombra incombente dei conflitti bellici e alle circostanze che ne hanno accompagnato la pubblicazione, Riccioli d’oro presenta molte caratteristiche comuni anche con i grandi romanzi storici di Waltari: il concetto di amore come valore, che nel mondo reale si trasforma sempre in amara passione; il sentimento di solitudine, così tipico di Waltari, qui acquisisce un’intensità senza precedenti ed è strettamente legato al tema del crimine; il senso di colpa che segue il crimine è riscattato dal pentimento e dall’accettazione della giusta punizione. In questo senso, quest’opera fa parte della richiesta di Waltari di una costante crescita spirituale della persona, del processo di ricerca del significato della vita e della storia umana che culmina nei suoi romanzi storici, in cui questo significato lo si ritrova nell’amore cristiano del prossimo, elevato sopra ogni religione e ideologia. (Testo di Viola Parente-Čapková)

Riccioli d’oro

Capitolo primo

Forse tutto ciò che mi è accaduto è conseguenza dell’essere nata nella colpa. Può sembrare ridicolo, ma cercherò di spiegarlo. Alla mia nascita, dopo due figli maschi, mio padre era via di casa da un anno e mezzo. Mi vide per la prima volta quando avevo sei mesi e non ne fu contento. Mia madre temeva che mi avrebbe ucciso in un impeto di rabbia, dato che non riusciva a controllarsi, almeno non quando beveva. Era ancora nel fiore degli anni, nero come il diavolo, diceva la gente. Capelli neri lucidi, baffi corvini lucenti.

Gridava e imprecava, ma cosa mi poteva fare? Ero troppo piccola. In qualche modo riuscirono a superare questa fase, papà e mamma. Ebbero altri due figli dopo di me, cinque in totale. Sopravvivemmo tutti, eravamo di scorza dura e con una gran voglia di vivere, nonostante la guerra e la fame, anche allora. Anche se vivevamo pigiati in una stanza e cucina, in una casa di legno in fondo al cortile, a Ruoholahti. Anche se i miei fratelli a volte piangevano per la fame. Mio padre, infatti, beveva. Per il resto, non versavamo in cattive condizioni, perché papà guadagnava abbastanza, quando guadagnava. Più di un operaio.

La prima guerra mondiale lo portò per due anni via da casa, all’estero. Voleva guadagnare di più. Desiderava qualcosa di diverso. Aaveva dentro di sé un’inquietudine simile a quella che provo io. Non ho ereditato nulla da mia madre, tutto da mio padre. Anche se non era il mio vero padre e, già a prima vista, ero diversa dal resto della famiglia. Mio padre e i miei fratelli tutti neri, e anche mia madre era scura. Solo io ho i capelli chiari. Riccioli d’oro, così mi chiamarono in seguito. Quando diventai quella che sono.

Mio padre iniziò a bere mentre prestava servizio in Estonia e in Polonia durante la guerra, e lì divenne anche un attaccabrighe senza controllo. In seguito, mia madre glielo rinfacciò. Non so se avesse ragione. Forse fu proprio il ritorno a casa a segnarlo. Era stato via due anni, all’estero, tornò senza la ricchezza sognata e a casa trovò una bimba di sei mesi nella culla, figlia di uno sconosciuto. Una bambina tranquilla, la testolina coperta di lanugine chiara. Doveva essere strano. Apparentemente, però, non smise di amare mia madre, visto che poi insieme ebbero altri figli. La cosa che lo feriva di più era il mio silenzio che rasentava il mutismo, almeno credo. Se avessi pianto, urlato come gli altri bambini, come i bambini normali, forse avrebbe potuto accettarmi. Ma ero silenziosa, quasi innaturalmente quieta per la mia età. Doveva essere strano per lui, abituato com’era a urlare, imprecare, a perdere il controllo dei propri sentimenti. Il mio mutismo infantile lo spaventava. Forse era davvero una cosa spaventosa, una lattante che non emette suoni e si limita ad osservare tutto con aria seria.

Mio padre aveva preso a bere una volta tornato a casa. Se fosse per colpa mia, di mia madre o dei paesi stranieri, non lo so.  Era proprio la sua natura. Non diventò uno di quegli ubriachi che arrivano a rovinarsi la vita. Qualche rissa, qualche multa. Per il bere non perse mai il lavoro, perché conosceva bene il suo mestiere e con le persone sapeva farci. Ecco perché l’ha sempre scampata, anche quando beveva un po’. Solo invecchiando divenne più cupo.

Ma perché racconto del ritorno di mio padre, visto che non ricordo affatto come fu? Ero troppo piccola. Tutto quello che so, l’ho appreso da mia madre. Ma non mi ha mai rivelato chi fosse il mio padre naturale. Me lo ha tenuto nascosto. È per questo che non ho idea di chi fosse, e per quale capriccio, per quale errore io sia venuta al mondo. E non lo saprò mai. Posso solo immaginarlo. Sognarlo, forse, anche se c’erano dei momenti in cui avrei voluto incontrarlo solo per sputargli in faccia e cavargli gli occhi.

Era una reazione infantile. Ora non è più così, penso solo che forse vive da qualche parte. Non è impossibile, non sono ancora così vecchia. Forse abita nella mia stessa città e non sa nemmeno che esisto. Non so nulla di un suo possibile incontro con mia madre dopo che tra di loro successe quello che successe. Quando mio padre era via. Probabilmente non si sono mai più incontrati. Così credo. I bambini sono perspicaci, da far paura. Se si fossero incontrati, l’avrei intuito, sospettato, basandomi anche su un minimo segnale.

Ecco perché il mio vero padre è solo un’ombra. Da lui non ho ereditato nessun segno speciale. Tranne il viso. I capelli chiari. Forse gli occhi. Doveva essere un uomo attraente.

Ero molto bella già da bambina. Lo sapevo. Troppo presto e troppo bene sono stata consapevole della mia bellezza. Per questo, non riuscivo a capire perché mio padre non volesse amarmi.

Dio mio, usavo tutta la mia dolcezza infantile per ingraziarmelo, per farmi voler bene. Da piccola lo adoravo più di ogni altra cosa al mondo. Allora non sapevo ancora che non era il mio vero padre. Era il miglior papà che conoscessi. Quando il sabato tornava dal lavoro, sceglieva con cura i vestiti. Si lisciava i capelli. Erano talmente neri che tendevano al blu.

Aveva già bevuto diversi bicchierini, sorrideva davanti allo specchio cantando le canzoni che aveva appreso durante i suoi viaggi. Aveva una voce cupa, profonda e maschile. Una voce che stringeva il cuore. Canzoni straniere dolci e appassionate, mi inebriavano in maniera indicibile, anche se non riuscivo a capirne le parole. Oh mio Dio, quando lo guardavo, mi tremavano le ginocchia. Era forte, scuro e bello. Non so cosa avrei dato se solo si fosse chinato su di me e avesse sfregato le guance lucide e fresche di rasatura sul mio viso, come a volte faceva con i miei fratelli. E con mia madre.

Poi usciva. E tornava solo a tarda notte. Tornava che sembrava un altro, minaccioso e ammaliante, come un temporale. Noi bambini dormivamo già, ma ci svegliavamo al cigolio della porta. Mia madre accendeva la luce e mio padre stava lì, reggendosi con entrambe le mani allo stipite; aveva gli occhi torbidi, la bocca umida, il colletto strappato. A volte portava a casa anche i suoi amici, con i quali continuava a bere in cucina. Finiva sempre in rissa. Ecco perché le nostre cose erano quasi tutte rotte. Le sedie con le gambe scheggiate, il tavolo che oscillava, tenuto su con delle zeppe. Una volta mia padre fu anche pugnalato, ma non accadde nella nostra cucina.

Allora, naturalmente, avevo paura. Eppure ogni volta che potevo, sgattaiolavo giù dal letto e scrutavo la cucina dalla fessura della porta. Come se una forza interiore mi spingesse a sbirciare, pietrificata dalla paura e dalla curiosità, sebbene sapessi che se mi avessero scoperta, avrei avuto fischi alle orecchie e le guance infiammate a lungo per gli schiaffi. Quando mia madre era più giovane, si alzava spesso per andare a bere con loro. Non poteva fare altro, non aveva più la capacità o la forza di controllare mio padre. Viveva nell’incessante timore che gli sarebbe potuto succedere qualcosa. Ecco perché a volte la sera mandava giù anche lei un cicchetto, anche se per questa ragione, poi, le vecchie del cortile spettegolavano sul suo conto. Era anche questione di invidia, perché mio padre era un tipo in gamba, affascinante e impavido. Anche mia madre, del resto, nonostante i cinque figli, mostrava ancora tracce distinte di bellezza e fascino. Quando i bambini iniziarono a crescere, andò persino a lavorare, a fare le pulizie negli uffici per aiutare la famiglia, perché passata la domenica a mio padre rimanevano solo pochi soldi per il mangiare. Ma l’affitto lo pagava regolarmente e talvolta, quando mamma insisteva, le dava anche i soldi per i vestiti.

Mia madre, però, non era un tipo assillante. Ma perché parlo tanto di mio padre quando avrei molte più ragioni per parlare di mia madre? Se dovessi ammirare uno dei due, sicuramente sceglierei mia madre, anche se finché fu in vita questo pensiero non mi balenò mai nella mente. L’ho capito solo quando è morta. Improvvisamente, sorpresa, mi resi conto che mia madre era stata una persona ammirevole. Anche se io non l’avevo mai ammirata. Nemmeno da bambina. Nemmeno subito dopo la sua morte, anche se la ragione mi diceva che c’era motivo di farlo. Già da bambina provavo risentimento nei suoi confronti, uno strano disprezzo che non riuscivo a spiegarmi. Lei avrebbe voluto coccolarmi quando mio padre non c’era e i miei fratelli non potevano vederci. Forse nel segreto dell’anima pensava di essere colpevole della mia nascita, per il fatto di avermi generato, e voleva compensarlo, darmi più tenerezza che agli altri figli. Ma io non sapevo che farmene, e rifuggivo le sue tenerezze.

Qualche sabato, quando riceveva una paga sostanziosa, mio padre dava dei soldi ai ragazzi. A me non ha mai dato niente, anche se provavo di tutto per entrare nelle sue grazie. No, papà non mi ha mai dato nemmeno un marco. Quando lui se ne andava e i ragazzi andavano fuori a fare chiasso, mia madre mi dava almeno quanto i ragazzi avevano ricevuto da mio padre. Un marco o anche due. Si assicurava che non mi venissero fatti torti e ingiustizie, anche se doveva poi attingere al gruzzolo destinato alla casa. Non poteva capire che queste attenzioni furtive accrescevano il mio senso di ingiustizia, e mi amareggiavano maggiormente.

Non mi importava del denaro, anche se significava dolcetti e limonate, caramelle o un fiocco rosso per i capelli. Desideravo solo che mio padre mi desse gli stessi soldi che dava ai ragazzi. I soldi per me avrebbero avuto valore solo se me li avesse regalati lui. Quelli di mia madre mi umiliavano e mi mortificavano.

A volte provavo a confortarmi dicendomi che mio padre sicuramente pensava che non avessi bisogno di soldi dal momento che ero una ragazza. Forse secondo lui solo i ragazzi ne hanno bisogno. Ma questa spiegazione non mi era però di nessun conforto. Sospettavo, con tutta me stessa, che mio padre si stesse allontanando da me. Me lo faceva capire molto chiaramente. Quando distribuiva i soldi ai ragazzi e incrociava il mio sguardo implorante, i suoi occhi si indurivano, scuoteva la testa nera e poi deviava la sua attenzione da me.

Waltari sul divano di casa (foto Pietinen). Sulla casa di Waltari a Helsinki si veda il report di Giorgio Tricarico.

Qualche domenica pomeriggio, si stendeva sul letto fatto, mezzo vestito, leggeva il giornale e i miei fratelli più piccoli potevano rintanarsi tra le sue braccia. I più grandi si inginocchiavano a capoletto, e mio padre sfogliava i fumetti a puntate del giornale, sillabando le nuvolette per loro. Avrei dato chissà cosa per poter anch’io stendermi accanto a lui come i miei fratellini, accoccolarmi, poggiare la testa sulle sue spalle enormi. Immaginavo di toccargli furtivamente le guance ruvide con le mie, che mi stringesse con rozza tenerezza la testa con la mano e che mi pizzicasse  come faceva ai ragazzi quando lo molestavano troppo.

Giaceva lì, enorme, sorridendo per la sbornia, una bottiglia di birra aperta per terra vicino al letto, il suo respiro con l’odore acre dell’alcool, e io lo amavo e adoravo come solo una bambina può amare il suo papà. Mi inginocchiavo ai piedi del letto in modo che non potesse vedermi. Nascosta dietro il giornale, a volte gli posavo leggermente la mano sulla gamba. Ma lui sentiva il mio tocco e mi scacciava scalciando.

 “Che diavolo hai da guardare, ragazzina”, mi malediceva, “va all’inferno.”

 Non credo che si sia mai rivolto a me con gentilezza.

Così sono cresciuta a casa mia come una estranea, e mio padre me lo faceva capire giorno dopo giorno. Presto anche i miei fratelli iniziarono ad allontanarsi da me e non ci fu più posto per me nemmeno nei loro giochi. Mia madre avrebbe voluto compensare quella tenerezza negata, ma non mi importava del suo amore. Per me non valeva nulla. Al contrario, quando vedevo che la mia ostilità la rattristava, e la mia disaffezione la rendeva infelice, facevo del mio meglio per vendicarmi contro di lei per l’estranietà che mio padre mi mostrava. Ma quella crudeltà infantile non mi portava conforto. Proprio come mio padre si allontanava da me, io cercavo di allontanarmi da mia madre e ogni volta sentivo un bruciore in petto e in gola e gli occhi pizzicati dalle lacrime che non riuscivo a piangere.

Com’è assurda la vita. Non ricordo quanti anni ho combattuto questa battaglia persa in partenza, ma un sabato, dopo che mio padre fu uscito, mentre i miei fratelli urlanti tormentavano un gatto nel cortile, all’ennesima offerta di soldi da parte di mia madre, le colpii il palmo facendo rotolare i marchi per terra e scappai via piangendo a gran voce. Piansi nel capanno e poi andai in strada e tornai a casa solo più tardi, dopo che i miei fratelli avevano già mangiato ed erano andati a dormire.

Da allora cercai la gioia e gli amici in strada, odiando la mia casa; ma era solo l’odio pungente di una bambina respinta, che arrecava dolore soprattutto a se stessa. Da allora cercai la felicità in strada, prendendone tutto ciò che di immondo e di brutto può dare: bestemmie, scelleratezze, ruberie, inquetudine. Frequentavo già le elementari, e i ragazzi più grandi cercavano di toccarmi, ma a me non interessava né mi eccitava, perché ero ancora una bambina. Fredda, non ancora smaliziata, non desideravo altro che tenerezza. E in quei loro contatti non c’era tenerezza.

E però la notte del sabato, raggomitolata sul pavimento gelido, infreddolita e mordendomi i pugni dalla paura, aspettavo sempre che mio padre tornasse e versasse da bere a mia madre. I suoi occhi prendevano a scintillare, le sue guance si arrossavano, e all’improvviso diventava bellissima, anche dopo aver partorito cinque figli. Si trastullavano, lei e mio padre, poi si spogliava e costringeva anche mio padre a farlo, e ad andare a letto con lei. Ma quando la luce si spegneva, rimanevo distesa sul letto come sui carboni ardenti, tendendo le orecchie ad ogni rumore e odiando mia madre e le sue risate senza fiato nel buio. La paura di mio padre e l’odio per mia madre mi sfiancavano a tal punto che alla fine cadevo in un sonno profondo, come se perdessi coscienza.

(Dove non altrimenti indicato, le immagini riprodotte sono opere pittoriche di Vilho Lampi (1898–1936) di cui dal 14.2 è allestita una mostra al Museo HAM di Helsinki. Siamo pronti a far fronte ai diritti per tutte le immagini pubblicate.)