In questo periodo di pandemie mediatiche e virali, qui al confine tra le due Lapponie (svedese e finlandese) assistiamo al dilemma della coerenza. La Finlandia, dopo aver quasi chiuso il confine tra marzo e maggio, consiglia ancora caldamente ai frontalieri come me, colpevoli di avere un lavoro al di là del confine, a Haaparanta, di rimanere in quarantena volontaria perenne. Perfino la Norvegia, che ha adottato le politiche di controllo del confine più severe, ha esentato i frontalieri dalla quarantena. Vediamo i numeri per sedare subito ogni dubbio: Haaparanta, con i suoi 10mila abitanti, ha avuto 7 contagi dall’inizio della pandemia. Tornio con i suoi 22mila ne ha avuti 51. Se la matematica non mi inganna c’è qualche inconsistenza nelle politiche finlandesi. È notizia recente che abbiamo aperto ai turisti, ma continuiamo a rovinare la vita dei frontalieri. Complimenti alle supreme leader per la loro lungimiranza.
Il fatto è che questa politica sta assomigliando sempre più a una questione religiosa, sebbene il Ministro degli Esteri Haavisto (fresco di avviso di garanzia per abuso di ufficio riguardo a una vicenda non collegata con la pandemia) e perfino il Presidente della Repubblica Niinistö si siano sbracciati per dire che le chiusure non riguardano la Svezia, bensì il virus. Perché non farlo per regione, allora? Il 99% di chi passa il confine in Val di Tornio si reca in zone altrettanto sicure – che senso ha la quarantena?
Per capirlo bisogna risalire alla storia della reazione alla pandemia, e a come si sono sviluppate le politiche nazionali finlandese e svedese. Dopo una reazione iniziale molto diversa, tutti si sarebbero aspettati che la Svezia, a un certo punto, cambiasse idea e si unisse al resto del mondo nella loro “pazzia totale” (parole di Anders Tegnell, l’ormai famoso e sempre più antipatico, ma coerente, epidemiologo di stato svedese), chiudendo tutto il chiudibile e facendo precipitare il globo nella crisi economica e umanitaria più pesante degli ultimi ottanta anni.
La Svezia è stata a lungo dibattuta nel corso della pandemia, ma ultimamente c’è una certa tendenza a dipingerla, in Italia ma anche in Finlandia, come un paese crudele, dove se sei vecchio o malato le autorità ti lasciano morire senza curarti mentre i giovani se la spassano al bar noncuranti dei contagi.
In effetti, guardando i numeri non si può negare che il SARS-CoV2 in Svezia abbia creato più contagi, e quindi giocoforza più decessi. Nei paesi vicini, che hanno adottato misure restrittive già definite esagerate da alcuni (si veda per esempio l’intervista di Erna Solberg, primo ministro norvegese, largamente ignorata dai media nostrani, dove ha ammesso che tornando indietro non avrebbe approvato misure così draconiane), si dà la colpa all’approccio morbido degli svedesi. Mentre Finlandia, Danimarca e Norvegia paiono avere soffocato l’epidemia, almeno temporaneamente, la Svezia ci sta ancora facendo i conti (di recente è stato eclatante il caso di Jällivaara, piccola città lappone, già trattato su questa rivista). Le spezzettate riaperture di confine che i paesi nordici e baltici hanno deliberato nelle ultime settimane sono coerenti in un solo punto: gli svedesi non possono entrare, e chi passa dalla Svezia deve fare la quarantena quando entra nei paesi limitrofi. In pratica, è considerata un lazzaretto.
Noi però, visti i trascorsi, siamo ormai abituati a prendere tutto con le molle, e ci chiediamo se la situazione oltretornio sia davvero così drammatica. L’unico modo è di affidarci ai numeri.
Prima di farlo ricordiamo quale fosse l’obiettivo strategico di tutte le misure restrittive implementate al mondo. Molti oggi pensano che si sia voluto fermare il virus, ma inizialmente nessuno proclamava simili obiettivi (anche perché, con il senno di poi, si sono rivelati utopici). Invece, si voleva solamente evitare il collasso delle strutture sanitarie rallentando il tasso di contagio.
Come si è comportata la Svezia a riguardo?
Partiamo con i contagi, che a prima vista sono in forte aumento in tutta la Svezia, esclusa forse solo la regione di Stoccolma. I grafici sono aggiornati a fine giugno in quanto il sistema svedese genera dei ritardi nella rapportistica che rendono i dati degli ultimi giorni inaffidabili.
La metrica dei contagi, però, è di dubbia affidabilità, in quanto, come ormai abbiamo imparato, il SARS-COV2 nella stragrande maggioranza dei casi non dà sintomi di rilievo. Quindi per dare un senso al numero dei contagi rilevati, specie in una fase di attenuazione del virus come questa, bisogna metterlo in rapporto al numero dei test fatti: più test, più contagi.
E qui casca l’asino: la Svezia, infatti, ha cambiato recentemente le regole di accesso ai test, che adesso in molte regioni sono gratuiti e fattibili da chiunque voglia, mentre prima venivano fatti solo a chi aveva sintomi gravi. Ricordiamo che il Covid-19 presenta sintomi lievi o impercettibili per la stragrande maggioranza dei casi di infezione (oltre l’85% dei positivi non si ammala o si ammala lievemente, secondo i test sierologici fatti proprio in Svezia): offrire la possibilità di fare test volontari aumenta sicuramente il numero di asintomatici che risultano positivi, magari andando a farsi il test in quanto curiosi della propria situazione, o desiderosi di sapere se possono incontrare un familiare a rischio. Questi test rendono lo storico del dato dei contagi di fatto inutilizzabile per ricavare un quadro affidabile sull’andamento reale della malattia.
Passiamo quindi ai ricoveri in terapia intensiva, da molti ritenuti l’indicatore più accurato dell’evoluzione della pandemia. Qui si vede un’altro tipo di curva.
Il grafico riporta i nuovi ricoveri in terapia intensiva su base giornaliera, che sono in diminuzione netta dai picchi di oltre 60 di fine aprile. Nota: il numero dei pazienti ammessi in ogni giorno può essere minore del valore indicato nel grafico, in quanto un paziente trasferito tra due reparti di terapia intensiva nel giorno del ricovero viene conteggiato due volte.
Infine il grafico più difficile da studiare, quello che forse meglio di ogni altro riflette l’impatto più importante del virus: le morti su base giornaliera.
Il grafico è di interpretazione non facile, in quanto i decessi vengono riportati con un certo ritardo da alcune regioni, il che rende questa una curva non certa per gli ultimi giorni (tale incertezza è data dalle barre di colore grigio chiaro visibili nella parte destra del grafico). In ogni caso, è piuttosto palese il fatto che nonostante si trovino più casi di persone positive, si viene ricoverati e si muore sempre meno.
IL PARAGONE CON GLI ALTRI PAESI
Si parla molto del paragone, a prima vista impietoso, tra la Svezia e gli altri paesi nordici, che hanno fatto chiusure ben più strette (ad esempio, chiudendo scuole, bar, ristoranti e uffici pubblici non essenziali). I difensori del lockdown estremo portano le curve dei decessi a prova della loro tesi, sostenendo che la Svezia non può essere paragonata, mettiamo, con Italia o Belgio, ma con i paesi limitrofi (Norvegia, Finlandia e Danimarca), dove le abitudini sono all’incirca le stesse, la densità di popolazione è simile ma il virus ha fatto molti meno danni.
In realtà il fatto che le abitudini siano comparabili è una leggenda urbana. Sono molti i parametri che rendono la Svezia diversa.
Anzitutto, in Svezia c’è una zona a densità di popolazione altissima: la Contea di Stoccolma, che conta 2,4 milioni di abitanti, per una superficie di 6519 kmq, e una densità di circa 370 abitanti per kmq. Tanto per fare un paragone con altre zone fortemente colpite, le provincie di Brescia e Bergamo (sommate) hanno pure 2.4 milioni di abitanti, per una superficie di 7540 kmq, e una densità di circa 315 abitanti per kmq (quindi addirittura inferiore a quella di Stoccolma). La regione di Uusimaa, per contro, conta 1,6 milioni di abitanti in poco meno di diecimila kmq, che fanno 160 abitanti per kmq (la densità della Toscana, per dirne una). La regione della Grande Oslo in Norvegia ha numeri simili a Uusimaa (1,4 milioni, 9000 kmq, 160 abitanti per kmq). A livello nazionale, la contea di Stoccolma conta un quarto degli abitanti del paese e oltre un terzo dei decessi (quindi statisticamente incide molto di più del resto del paese).
Altro fattore importante e tralasciato dai più sono le case di riposo. La Svezia ha, mediamente, case di riposo molto grandi, specie nella zona di Stoccolma – una volta che il virus è entrato in poche di esse ha potuto mietere molte vittime. Le vittime in casa di riposo, in percentuale, sono più alte in Norvegia, ma la piccola dimensione media di questi luoghi ha fatto sì che il virus non si diffondesse a macchia d’olio tra le comunità anziane, che sono colpite in maniera sproporzionatamente feroce dal Covid-19 (ricordiamo che l’età media dei deceduti in Europa è di circa 80 anni).
Ancora: in Svezia le comunità di immigrati sono molto più numerose e concentrate (almeno rispetto alla Finlandia). Gli immigrati sono di gran lunga più colpiti dal Covid-19, sia per fattori culturali (tendono a vivere insieme agli anziani in appartamenti piccoli e con scarsa igiene) che per motivi di integrazione (non seguono i consigli delle agenzie statali in quanto non li tengono in considerazione, o talvolta perché non li comprendono del tutto).
Bisogna quindi stare attenti a dare la colpa al fattore lockdown, in quanto la Svezia (e soprattutto la contea di Stoccolma) è un outlier statistico tra i paesi nordici così come la Lombardia è un outlier in Italia. Prova ne sia il fatto che regioni come la Scania e il Västerbotten, che non hanno i problemi che ho elencato qui sopra, hanno avuto percentuali di contagio e di decessi molto basse, in linea con gli altri paesi nordici (un po’ come è successo nell’Italia centro-meridionale, Marche escluse).
Questo ci porta ad esaminare l’architrave legislativo svedese.
LA LEGGE DI EMERGENZA SVEDESE
È notizia del primo luglio che la legge di emergenza per affrontare la pandemia, che avrebbe dovuto conferire al governo poteri straordinari, è scaduta senza essere mai stata attivata.
Se chiedete il perché a uno svedese che mastica di politica vi risponderà, un po’ stupito dalla domanda, che non ci sono mai stati i presupposti per attivare una legge di emergenza. In effetti, a virus oramai quasi sparito, un confronto tra i dati svedesi e, ad esempio, quelli italiani rivela molte similarità. Questo aspetto è stato discusso ampiamente sui social, non ultimo dal prof. Guido Silvestri, autore di una pagina seguitissima sull’argomento denominata Pillole di Ottimismo.
Sulla architettura dello Stato svedese e sulla reticenza da parte di tutte le forze politiche a trattare questa pandemia come una emergenza abbiamo già ampiamente parlato in questa rubrica. Ci auspichiamo sinceramente che qualcuno, anche in Finlandia, si chiedesse seriamente se ci siano stati i presupposti per applicare la legge di emergenza invocata dal governo in marzo. Questa discussione potrebbe portare ad applicare strategie meno invasive e più sensate qualora il virus dovesse tornare a diffondersi da agosto in poi (scenario tutt’altro che improbabile, visti i trascorsi di altri paesi).
IL LAVORO SULLE TERAPIE INTENSIVE
La discussione sulla risposta svedese non sarebbe completa senza una disamina del lavoro che ha fatto il paese per aumentare la capacità del sistema sanitario. Ricordiamo infatti che l’obiettivo principale delle restrizioni era ovunque, almeno all’inizio, di evitare il collasso degli ospedali, e in particolare delle terapie intensive. La Svezia in questo è stata lungimirante, in quanto oltre alle raccomandazioni sul comportamento sociale ha immediatamente promulgato una serie di decreti volti a finanziare l’aumento della capacità delle terapie intensive. Il risultato, come ci racconta The Local, è stato impressionante: la capacità delle terapie intensive è stata raddoppiata in pochi giorni a livello nazionale, e nonostante quello che si dice in giro non è mai stato rifiutato un letto a chi ne avesse bisogno.
Addirittura, l’ospedale da campo allestito in pochi giorni nei locali della fiera di Älvsjö, fuori Stoccolma, e aperto il 6 aprile in vista di una possibile ondata di ricoveri, è stato recentemente smantellato senza aver accolto neanche un paziente. Alle critiche sulla spesa inutile piovute sulla testa del primo ministro e del capo dell’agenzia della salute pubblica è stato risposto: è stata per noi una polizza di assicurazione, di cui non abbiamo mai avuto bisogno.
PARAGONE CON GLI ANNI PRECEDENTI
Quindi, è giunto il momento di rispondere alla fatidica domanda: quanto ha ucciso il Covid in un paese senza chiusure di sorta? Per rispondere scarichiamo dal sito di SCB, l’istituto centrale di statistica svedese, i dati sulla mortalità generale.
Da questi dati riusciamo facilmente con un po’ di codice Excel a ricavare la curva dei decessi totali per i primi 6 mesi del 2020. Nota: il grafico si ferma al 28 giugno in quanto i dati successivi non sono affidabili.
Quindi è abbastanza chiaro che il Covid ha creato un eccesso di mortalità per un periodo di circa due mesi (da fine marzo a fine maggio) rispetto alla media dei precedenti 5 anni. Questo eccesso di mortalità è quantificabile in circa 100 al giorno nel picco, e in circa 20 al giorno nella media del periodo dal 1 gennaio al 26 giugno. Sembrano numeri notevoli, ma nell’analisi bisogna considerare che nel periodo 2015-2019 ci sono stati solo due anni con epidemie influenzali gravi (il 2017 e soprattutto il 2018), mentre negli altri anni la mortalità generale è stata decisamente sotto la media del lungo periodo.
Il paragone rispetto a un anno di epidemia influenzale grave, come è stato il 2018 permette di paragonare il picco delle due malattie. Nota: il grafico del 2018 è stato normalizzato con il valore medio per il giorno 29 febbraio, in quanto il 2020 è stato bisestile.
Da queste due curve si vede che l’andamento dei due picchi (epidemia influenzale grave del 2018 e Covid nel 2020) non è poi così diverso. Il picco dei decessi giornalieri si raggiunge a 335 per l’influenza e a 400 per il Covid, e la media nel periodo di 6 mesi è stata di circa 259 nel 2018 e 274 nel 2020.
Guardando i numeri (e senza entrare nel merito di come sono maturati questi decessi) verrebbe di concludere che l’epidemia di Covid ha avuto effetti più gravi di una normale epidemia influenzale sulla popolazione svedese, ma non parrebbero così gravi da invocare lo stato di emergenza, una volta aumentata la capacità delle terapie intensive. Infatti, l’aumento della mortalità generale nel giorno del picco è stato del 20% rispetto a quello di un anno di influenza grave, mentre quello medio è stato del 5,7%. Un problema, ma non certamente un’emergenza nazionale. Almeno non secondo gli svedesi.
Adesso vado a provare a spiegarlo ai Rajavartiolaiset. Chissà che non mi abbuonino la quarantena.