Lassi Sinkkonen: Pista circolare

Lassi Sinkkonen nasce a Vyborg nel 1937. Esordisce con una serie di raccolte poetiche, la prima nel 1965, intitolata Mattino vagabondo (Harhaileva aamupäivä). Fin dalla gioventù lavora come operaio in vari cantieri e assolve altri lavori manuali che gli forniscono lo sfondo per le sue opere, soprattutto quelle successive in prosa. Come romanziere esordisce nel 1968 con Lo spruzzatore di nebbia (Suimuruisku); importanti sono soprattutto i successivi La canzone di Solveig (Solveigin laulu) del 1970 e Pista circolare (Sirkkelisirkus) del 1975.

Quest’ultimo è un romanzo di tono autobiografico, ambientato negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, all’indomani della guerra civile, che lasciò ferite profonde nella società finlandese. La miseria e l’ingiustizia sociale lasciano tracce evidenti anche nel destino del piccolo Mitja Sikow, voce narrante e protagonista del romanzo. Il racconto mescola fatti reali a visioni dovute alla malattia nella quale cade in preda il ragazzo, oltre ai maltrattamenti subito dal padre alcolizzato.

La sua narrazione febbrile conserva una sua logica e continuità, cui non manca un fondo poetico, ad enfatizzare gli esordi dell’autore.

Sinkkonen muore a Helsinki nel 1976, a soli 38 anni.

Pista circolare

Romanzo

L’infanzia rappresenta un momento delicato nella vita di ciascuno.

C’è chi cerca di fare i conti con i ricordi ricorrendo a qualche frasetta o solo a un grugnito. Qualcuno ci riesce, altri no.

Per quanto riguarda la mia infanzia, non riesco a mettere insieme una sola frase sensata. Solo un grugnito: un grugnito amaro e irritato per tutti quelli che mi interrogano al riguardo. E sono molti a farlo. Alcuni urlando. Di altri, che pure non urlano più al mio indirizzo, sento ancora chiara e distinta quella vocina infantile:

Mitja cazzone,

grande piscione.

Così ripetono in rima quegli angioletti.

Tutto questo quando mi era già cresciuta la prima peluria sui testicoli. Tuttavia, ero timido, e quando avevo paura me la facevo addosso, e a volte mi scappava anche qualcosa di più consistente. Di notte, sempre di notte, il pisellino mi si rizzava e il piscio schizzava fuori come da una pompa. Spruzzi di orina dappertutto, ovunque bagnato, fetore ovunque.

Al mattino mi costringevano a prendere le lenzuola e il materassino per farli asciugare sulle scale, in modo che tutti vedessero quel che mi era successo. La trapunta, il materasso, le lenzuola, delle belle macchie su tutto, in bella vista. Le vecchiacce, i passanti e i monelli non si mostravano nemmeno sorpresi, e dicevano soltanto, ognuno con una voce leggermente diversa: il pisciasotto dei Sikow.

L’unico che non diceva nulla e non si prendeva gioco di me era Anton il fabbro, mastro Antti.

Mi prendevano a botte tutto il tempo, con costante regolarità. Se anche non era per una puzza piccola o più grande, mi picchiavano comunque, anche solo per assicurarsi che non mi scappasse qualcosa d’altro. Dopotutto, mio padre Emil era dell’opinione che un ragazzo dovesse essere picchiato tutti i santi giorni. Perché quando non fa niente di male, almeno ci sta pensando.

Chiaro e semplice.

La verità è che Emil non era sempre in grado di darmele. A volte l’aiutava zio Saska. Altre, era mia madre Sylvi a prendere il loro posto. In quei casi, non ero mai sicuro di chi urlasse e piangesse di più, io o mamma. Tra un singhiozzo e l’altro, mi assicurava di volermi bene, ma quando era necessario picchiarmi, lo faceva. Con amarezza.

Mia madre spiegava spesso a mio padre che con le botte un bambino non migliora di certo, non gli si può mica inculcare la ragione nella testa a furia di busse. Tuttavia, mio padre rimase della sua idea, questo lui lo capiva meglio degli altri. Quando perdeva la testa, non le risparmiava, né alla vecchia né al moccioso. E neanche il Santo Vangelo veniva in soccorso.

Mio padre e Saska erano originari di qualche parte della Russia centrale, sulle rive del Volga, ma nei registri della chiesa, sia loro sia gli altri fratelli, erano segnati come originari di San Pietroburgo. Per un capriccio del destino, mia nonna incontrò il nonno a Vyborg, e fu così che una ragazza careliana fu portata in sposa in terra russa. Mia madre insegnava il finlandese a tutti i bambini e mio nonno si risentiva per quei barriti. Il russo, quella è una lingua umana, non quel dannato finlandese… A ty bolvan i čuchonka, “tu babbiona finnica”, era solito dire il vecchio quando montava in furia. Non so cosa gli rispondesse la nonna.

Quando i fratelli erano sbronzi, ma anche in altre occasioni, si vantavano di essere praticamente dei cosacchi. E forse un po’ lo erano davvero. Almeno, appena se ne presentava l’occasione, stringevano i pugni o mettevano mano a un bastone. E di ragioni ce n’erano sempre abbastanza.

E poi una volta, non so esattamente quando, successe.

Prima prese a farmi male la testa e la schiena, poi mi salì la febbre, sempre di più, e mi sentii molto male. Durò molti giorni, me la facevo addosso, urlavo e gemevo, non mangiavo nulla, bevevo solo del succo goccia a goccia, piangevo ed ero pieno di punture, e poi sognai – a colori – degli angioletti.

Restavo cosciente per un po’, ma poi la febbre mi colpiva di nuovo, e ancora più forte. Quando il dolore si attenuava, mi sentivo una meraviglia: udivo le voci, il tintinnio delle campane, il fragore del mare. La gente aleggiava intorno a me e io stavo bene che era una bellezza.

Mia madre vegliava al mio capezzale tutte le notti e anche mio padre era inquieto. Se mia madre lo avesse lasciato agire a sua discrezione, mi avrebbe di sicuro preso a botte, dicendomi di smetterla di fingere.

Forse sarebbe stato meglio così. Le botte avrebbe rianimato la circolazione sanguigna oppure mi avrebbero dato il colpo di grazia. Avrei accolto entrambe le cose con favore.

Tuttavia, Emil non riuscì a mettermi le mani addosso.

Un giorno, quando la mente era ancora un po’ offuscata, un vecchietto dai capelli grigi venne al mio capezzale, mi fissò con gli occhi sbarrati, iniziò a tastarmi la testa, esaminò in profondità le orecchie e mi ordinò di aprire la bocca: eee, aaa urlai in faccia al vecchio fino a farmi uscire gli occhi dalle orbite. Poi mi aiutò a sedermi sul letto, tambureggiò sulla mia spina dorsale, mi fece piegare più volte il collo mentre io continuavo con gli eee e gli aaa.

Mi sentivo come all’inferno. Non so cosa sia l’inferno o dove si trovi, ma quel vecchietto doveva essere venuto proprio da lì. Tutto quello che mi fece mi provocava un dolore infernale. Mi sembrò di avere come delle scintille nella testa, e il mio udito divenne così acuto che sentivo il ronzio delle mosche sul muro della casa accanto. Le voci umane poi risuonavano come l’esplosione di una bomba in una gola di montagna.

Il viso del vecchio era sudato e puzzava di tabacco. Notai un’espressione tesa dopo che mi ebbe premuto gli occhi e rigirato le palpebre. Questa fu anche la fine della mia tortura. Le ortiche che mi bruciavano il viso, le formiche brulicanti sui testicoli, tra le dita dei piedi, sulla schiena, diffusero una tensione spasmodica su tutti i nervi. E poi, all’improvviso, più niente. Rimasi disteso immobile, come un cadavere. Il vecchio mi strinse ancora i testicoli, ma non provai nulla. Di colpo la voce di Dio risuonò squassante come un trombone.

“Non sono orecchioni. È meningite. Succo caldo e riposo. Se inizia a urlare, calmatelo con gli impacchi. Ma credo che non sarà necessario.”

Provai a gridare qualcosa, ma non ci riuscii. Suoni mi laceravano la testa, nel cervello mi sentivo un tric trac. Picchi in cerca di vermi dietro le orecchie,  formiche a spasso che mordevano e pizzicavano dappertutto.

Poi venne la notte.

Un giorno, o forse era una settimana dopo la visita del vecchietto, mi resi conto che c’era della gente inginocchiata intorno al mio letto. Saska, il fratello di mio padre, e pochi altri recitavano i salmi. Mio padre in piedi in disparte piangeva. Saska si segnava e baciava i lembi della mia coperta, borbottando in russo ahospoti pospiti pomiljui…  signore abbi pietà, e così via. Spalancai gli occhi e guardai mio padre che piangeva.

“È morto qualcuno?”

“Mitja, Mitjusha mio”, gridò mio padre, fiondandosi tra la gente, afferrandomi tra le braccia e stringendomi. “Tu sei vivo!”

“E perché no?”

Salmi e preghiere lasciarono il posto a grida di gioia. Tutti mi abbracciarono stretto, Saska scoppiò a piangere. Mi baciavano dove capitava, e in un attimo fui tutto bagnato di lacrime. La gente piangeva e rideva. La testa me la sentivo strana, ma comunque non mi faceva male. Ero solo stanco. Emil piangeva, il suo viso sepolto nella coperta, a tratti uggiolava come un cane. Le zie e le nonnine chiacchieravano in russo, tutti avevano improvvisamente bisogno di dirsi qualcosa. Saska mi afferrò tra le braccia, mi strinse e baciò, per poi rimettermi a letto. Riuscivo ancora a sentire le dita forti di Saska sulle scapole quando poi fu il turno di mio padre di prendermi in braccio.

“Caro Mitja, piccolino mio, che gioia, pensavo già che Dio ti avesse preso con sé. Tesoro mio, che felicità, grazie Dio per aver salvato il mio scoiattolino.”

“Sì, mi ha proprio salvato. Datemi da bere.”

Mio padre andò subito a prendermi del succo. La sua disponibilità mi sorprese. Il suo pianto sembrava vero, pure sospettavo ancora un po’ di insincerità. Fossi morto, mio padre non avrebbe avuto nessuno da picchiare. Certo, poteva prendere a botte mamma, ma lei era capace di lanciargli qualcosa contro, mentre una zuffa con Saska era ancora più pericolosa. Io ero l’unico che poteva tormentare a suo piacimento, picchiare quando voleva, e in più nella totale impunità.

Nei momenti più tranquilli avevo pensato di far del male o uccidere mio padre, o almeno di riuscire a fargliela pagare. Dio, quanto sarebbe stato bello! Sprangate sulla schiena, e poi decapitarlo con l’ascia. Nei momenti di compassione pensavo di non ucciderlo, mi limitavo ad azzopparlo e ridurlo a mendicare.

Ma ora, dopo essere resuscitato, decisi di rimandare al futuro questa mia intenzione.

Mamma era fuori di sé dalla felicità, piangeva, gemeva, rideva, fino quasi a soffocare. Mio padre portò il succo e io lo bevvi. Dopo aver vuotato il bicchiere, mia madre, mio padre e Saska si fiondarono su di me, mi abbracciarono e ricoprirono di baci. Ero come una fiammella debole e tremolante che i miei genitori e Saska quasi soffocarono con la loro tenerezza. Che cosa carina, dannazione. Uccidere il loro unico figlio con tutta quella tenerezza.

A poco a poco tutti si ricomposero e mi lasciarono in pace. La compagnia andò di là a bere il tè e a mangiare i piroshki. Li seguii con lo sguardo e mi sentivo bene, non avevo nemmeno fame. La testa era ancora annebbiata, stordita, ma per il resto mi sentivo bene. Alla grande.         

Se qualcuno dice che la mia infanzia è stata più di una lunga frase, si sbaglia. Ero un piccoletto quindicenne, emaciato e bassotto come un pino attecchito sulla roccia, ma non ero più un bambino. Avevo già i peli sulle gambe e altrove.

La mia infanzia è solo un grugnito, sordo e amaro.

Quando mi ammalai, infuriava la Guerra di continuazione, e non terminò nemmeno quando mi rimisi. Le guerre non finiscono per una meningite, ma molte infanzie sì. Così fu anche per me.

Il giorno dopo la mia resurrezione venne a trovarci lo stesso vecchietto che aveva reso orribili vari momenti della mia vita. Questa volta mi osservò attentamente, fece dei piccoli controlli e sembrò soddisfatto.

“Non andrai all’ospedale, lì sono pieni. Puoi smettere di andare a scuola se vuoi, e certamente lo vorrai, visto che presto compirai sedici anni. Ti daranno il diploma, anche se sei stato a lungo assente. Poi potrai andare a lavorare, oggi cercano operai ovunque. Ma prima devi riposare e prendere queste pillole.”

E il vecchio mi passò un flacone di pillole, poi iniziò a scrivere qualcosa su una lunga striscia di carta.

Mia madre sedeva accanto nervosa.

“E non ci saranno conseguenze? Certe m’hanno detto che c’è il pericolo che si becchi chissà che cosa, visto che ha avuto la meningite.”

“Certo, può esserci qualche conseguenza, alcuni… alcuni si riprendono completamente, altri no. Ma il ragazzo sta bene. Crescerà bene. Lasciatelo riposare e poi vedremo.”

Il vecchietto firmò e consegnò il foglietto a mia madre.

“Lo mostrerete a scuola, ci parlo prima io, però. Poi andrete in farmacia. Le daranno degli antidolorifici nel caso i dolori tornassero. Ora vado, addio.”

E il vecchio fece per uscire. Prima di andarsene mi guardò e sorrise.

L’estate era in piena fioritura e io portavo l’erba ai conigli. La guerra infuriava non lontano da casa. Agosto fu piovoso ma caldo. Quando non coglievo l’erba per gli animali, andavo in giro curiosando o mi sedevo sull’altalena. A volte leggevo. Lessi dalla a alla zeta i libri miei e anche quelli di Anton. Non osavo dondolarmi. Man mano che guadagnavo un po’ di velocità, la testa mi cominciava a ronzare. Non avevo nessuna compagnia. Passavo le mie giornate solo come un cane; il vento sussurrava tra le cime degli alberi e le nuvole frusciavano sopra la mia testa. Spesso mi sdraiavo sotto gli arbusti di lillà e guardavo il gioco delle luci.

Mamma, papà e Saska andavano al lavoro e tornavano a casa dopo le quattro. Mio padre lavorava nella fabbrica di stufe Kastor, e Saska tagliava la legna in una segheria e la portava ai clienti con un cavallo. Mia madre faceva dei lavoretti dove poteva, ma ultimamente faceva regolarmente le pulizie nella fabbrica degli Stromberg.

Un giorno, mentre aspettavo il ritorno della famiglia, una nonnina apparve in cortile.

“I tuoi sono già tornati?”, mi chiese.

“No”.

“E non dovrebbero essere già a casa?”

“No. E tu, cosa vuoi da loro?”

“Non sono fatti tuoi, è una cosa per i grandi.”

“Allora vattene, sei grassa nonostante la guerra!”

“Che pazzo!”, gridò la nonnina, e fece per andarsene.

“E Saska, non è al fronte… Chiedi a tuo padre cosa fanno insieme, tua madre e Saska,” gridò la vecchia mentre si allontanava.

Mi infuriai e raccolsi una pietra.

“Vuoi una sassata, vecchiaccia?”

“Lanciala pure, idiota”.

La lanciai, ma non colsi il bersaglio. Da qualche parte spuntò il figlio della donna e cominciò a sua volta a tirarmi delle pietre. Una mi fischiò rasente l’orecchio. Non aspettavo altro. Raccattai un ciottolo e lo lanciai. Lo colpii proprio in mezzo alla fronte. Un lamento e un urlo straziante. La donna tranquillizzò il figlio e gridò qualcosa al mio indirizzo. Poi all’improvviso il ragazzo urlò:

Mitja pazzo e cazzone,

Mitja, grande piscione!

Eccoci di nuovo. L’angioletto e la sua mamma. Procedono laggiù, mano nella mano, e dicono cazzate sul conto mio e della mia famiglia.

Io gli tiro dietro un sasso. La sabbia schizza proprio accanto a quei due. Che si danno alla fuga.

(Sirkkelisirkus, WSOY 1975, pp. 9-17)

L’immagine del labirinto, nel titolo e nel testo, è un dipinto murale nella chiesa di San Sigfrido (ca. 1450)