La recente, improvvisa perdita di un amico e il ragguardevole prezzo di un catalogo del 2016 motivano queste note.
Schivo come ogni finlandese (escluso per paradosso proprio Alvar Aalto, come documenta il recente video-santino di Virpi Suutari), Jüri Kokkonen (1954-2020) era anche il lettore della Gazzetta dello sport che a tavola – da me in Casentino, a Helsinki o Lohjansaari, dove è mancato – con ricchezza di racconti si rifaceva del solitario, impervio e misconosciuto lavoro di traduttore in inglese. Lo ricordo mentre preparavamo un’amatriciana, manifestare con mimica italiana il fastidio di tradurre in inglese i soliti cliché su Aalto e la sua architettura. Archeologo per passione e formazione ma dai mille interessi, lavorando in ore antelucane, Jüri aveva tradotto, nella lingua appresa da bambino in Australia, non so quanti testi su Aalto, sull’architettura e il design del suo paese.
Tra questi la traduzione di alcuni che, con altri saggi di studiosi internazionali come Harry Charrington o Arthur Rüegg, figurano nel catalogo, compatto ma dal peso insolitamente leggero, Artek and the Aaltos: Creating a Modern World, curato da Nina Stritzler-Levine con Timo Riekko nel 2016.
Nomi quelli di Aino Marsio Aalto e Alvar Aalto o quello della Artek sotto gli occhi persino di chi deve solo fare scalo a Helsinki; magari mentre in un gate di Vantaa aspetta il suo volo, li incontra in uno dei negozi last-minute. Darò quindi per scontata la notorietà per chi vive e frequenta uno degli innumerevoli edifici di Aalto o si serve di oggetti firmati Artek, fosse anche un’acqua di colonia. O è seduto sullo sgabello dalle gambe a ginocchio dei primi anni Trenta venduto in un milione di esemplari. Sì più o meno lo stesso sgabello che, insieme ad altre sedute di ispirazione aaltiana, una nota multinazionale nata in Svezia ha venduto per molti anni ad un ventesimo del prezzo dell’originale in alcune centinaia di milioni di scatole di montaggio. Traduzione di forma però che, rispetto all’originale in massello, richiede sia per materiale (il multistrato di betulla), sia per procedimento esecutivo, meno di un trentesimo dei passaggi necessari per realizzare l’originale.
I vari saggi e le molte schede del nostro volume ricostruiscono la vicenda della Artek e quella dei suoi soci fondatori, dal biennio che precede la sua nascita fino agli anni di poco successivi alla morte di Aino, avvenuta nei primi mesi del 1949.
La Artek nasce nell’ottobre 1935 come S.p.A. costituita principalmente da Aino e Alvar (ormai sodali nella vita e nel lavoro da più di dieci anni), dal critico e storico dell’arte Nils-Gustav Hahl e dall’appassionata d’arte e lei stessa artista Maire Gullichsen, ricca discendente della famiglia Ahlström. Il nome artek – in minuscolo, come voleva “lo spirito del tempo” -, improbabile connubio linguistico di neo-latino e finno-svedese, è un attardato (e mai riconosciuto da Alvar) richiamo allo slogan del 1923, lanciato dall’amico Walter Gropius per segnare la svolta della Bauhaus verso la nuova unione di arte e tecnica: tema capitale nel dibattito architettonico dei paesi centro-europei più industrializzati e già in agenda dalla prima decade del secolo. Ma il nome esplicita anche il programma: sotto il controllo dell’architetto arrivare a produrre un numero elevato di arredi senza sacrificarne la buona fattura e, attraverso mostre che educhino all’arte del tempo, contribuire a “creare un mondo moderno”.
La produzione in serie di elementi standard (variando le dimensioni dello stesso tipo di gamba si potranno ottenere, sedie, tavoli, letti o, adottando lo stesso metodo di piegatura del lamellare, realizzare poltrone, divani, portaombrelli o librerie) associata alla facile reperibilità della betulla e ai bassi salari sarebbe stata la premessa necessaria per il contenimento dei prezzi (vedasi Pallasmaa).
Contando sulla certezza di espandere il mercato oltre il confine nazionale – a partire dalla Gran Bretagna come mostra Charrington – e sulla convinzione di poter usare le mostre – da quelle sui tappeti marocchini a quelle degli amici artisti Fernand Léger e Alexander Calder o quella di Helene Schjerfbeck – per intercettare nel pubblico più acculturato e dotato di mezzi il primo destinatario-vettore del cambiamento verso una “new era”. Ma sia ben chiaro: al pari di molti altri, lo snob Aalto non ha mai pensato che i suoi mobili fossero destinati al proletariato.
Fin qui quanto si ritrova nelle pagine del libro, frutto di nuove acquisizioni e di una impressionante raccolta di migliaia di documenti e riproduzioni fotografiche, molti dei quali inediti. Tra queste recenti scoperte va segnalata almeno la paternità della Corso Dance Hall di Zurigo non ad Alvar ma ad un ex collaboratore del suo amico Sigfried Giedion da parte di Rüegg. Senza dubbio la prima ricerca a più mani pubblicata in inglese sull’Artek e sul ruolo dei suoi fondatori, ma non la prima a focalizzare l’attenzione su quello da protagonista di Aino e sulla rilevanza del suo travel diary.
Attenzione infatti già mostrata altrove proprio da quella stessa Renja Suominen-Kokkonen che, qui e tra l’altro, ritorna a lavorare sul libretto di appunti di viaggio, il cui originale pare scomparso, restringendone infine il suo arco temporale (1935-36) che precede di pochi mesi la nascita della Artek e si conclude con la presenza di Aino alla Triennale di Milano.
Ritornando al catalogo come oggetto, e segnatamente al suo valore sul mercato italiano dell’usato, devo rilevare che, sebbene sia esaurito da tempo, niente sembra giustificarne il prezzo medio di 800 euro. È vero: forse si giustifica per la grafica di copertina (ritenuta dall’AIGA, l’associazione statunitense di design tra le 50 più innovative del 2016); ma dubito che sia stato il premio conferito nel 2018 dalla Society of Architectural Historians, a far lievitare il suo valore.
Assegnato all’unanimità (per mano della nota storica italiana Maristella Casciato), il premio, infatti, è stato un riconoscimento di scholars per i risultati di altri studiosi; quindi, per le novità del suo contenuto e la mole documentaria più che per le sue opinabili innovazioni tipografiche. Non rimane da supporre che sia proprio la levità del suo peso (904 grammi, per il gigante delle vendite online) a giustificarne l’acquisto. Per la grammatura della carta oltre che per l’insuperabile numero di pagine, è impossibile accostarlo alle centinaia di costosi e pesanti coffee-book ricolmi dei soliti cliché (“architettura minore”, “architettura e natura”, “funzionalismo organico”, “ascolto dei bisogni psicologici” etc.) appena mitigati dalle eleganti riproduzioni su carta patinata delle fotogeniche creature aaltiane.
Il catalogo ha accompagnato l’omonima mostra presso il Bard Graduate Center di New York allestita sempre da Nina Stritzler-Levine, curator presso l’istituto, con l’architetto e autore Juhani Pallasmaa e la riconosciuta competenza archivistica di Timo Riekko. Mostra su cui non mi esprimo, perché vista solo grazie alle foto inviatemi da Sergio Mannino ma ancora visitabile in rete.
Se però la mostra – preceduta dalle numerose interviste della curatrice dove elegantemente si garantiva l’assenza delle “bullshit” oggetto dell’ironia dell’amico Jüri – ha richiamato l’attenzione dei mass media, altrettanto non può dirsi del suo catalogo. Privato dell’attenzione del mondo accademico, per quanto mi risulta attende ancora un’attenta analisi. E in questo devo escludere ovviamente alcuni generici resoconti di annuncio o commento della sua uscita, concordi nel ritenere il catalogo un contributo definitivo per la storia dell’Artek e degli Aalto in quanto “modern couple”, paritaria anche sul piano professionale. Ma quando una ricerca può ritenersi “definitive“?
Per quel lettore interessato a conoscere rapidamente il suo contenuto e i nomi dei numerosi autori rimando alla riproduzione dell’indice. Dice più di tante parole, come ho appreso in quarant’anni di didattica, che ormai mi esentano dall’esaminare quegli studenti-credenti in “un solo libro”. Se lo avessi incluso in una bibliografia di un mio corso, avrebbero infatti potuto “giurare” sulla morte di Alvar Aalto avvenuta più volte nel 1978 invece del 1976; sulla bilocazione dell’albergo per sciatori arredato dalla Artek, presente tanto a Helsinki che in Lapponia e, soprattutto, sulla data del diario che è corretta solo nel saggio della Suominen-Kokkonen. Come il mio nome citato in modo inesatto: “quisquilie” che sono solo la prova di un superficiale o, meglio, carente editing. Ritenuto purtroppo “professional” da Esa Laaksonen che su Arkkitehti (2017, n. 5) nota solo “the minor errors”, per lo più dovuti al misspelling finlandese. Errori ortografici che tuttavia un comune correttore di PC sa ormai eliminare senza dover ricorrere ad un “native proofreader”. Lo stesso co-editor, il finlandese Timo Riekko, archivista ma non storico, mi riferiva a Jyväskylä di aver raccolto fra gli addict la segnalazione di almeno duecento di questi minor errors.
Come Esa invece e, ritengo come molti altri, i miei occhi sono stati messi a dura prova dalla novità tipografica del catalogo. Se lo scopo era salvare alberi e non quello di impedire la riproduzione delle foto – come sospetta Esa – ben vengano le pagine così leggere da lasciar intravedere il retro. Ma perché numerarne quasi 50 delle 695 per poi lasciarle bianche? Non sarebbe stato meglio occuparle ingrandendo il corpo quasi illeggibile di note e didascalie? Al contrario di Esa, invece, non mi sento per nulla “bothered by the book’s overexcited way of highlighting the importance of Aino Marsio-Aalto’s work”. Pur condividendo la difficoltà di distinguere il contributo della moglie da quello del marito, il lavoro soprattutto delle autrici ha messo correttamente in luce il ruolo di Aino nella creazione e direzione della Artek fino alla sua scomparsa. Per me, almeno fino ai primi anni Cinquanta, il negozio della Artek conserva ancora l’impronta no-brand di Aino, caratterizzata dall’inclusione di oggetti eterogenei e di diversa provenienza, fattura ed etnia, come testimonia il suo diario e le molte foto del catalogo. E se fosse stata posta maggiore attenzione alla traduzione del suo diario (fotocopiato e accessibile con altri documenti fondamentali anche agli altri studiosi) si sarebbe rafforzata l’ipotesi che quegli appunti di viaggio sono ancor più che un’accurata “lista della spesa” per rifornire la futura Artek (come rileva Rüegg), la prova di un progetto in fieri della “birbantella” Aino per crearsi “una stanza tutta per sé” e riconquistare, anche con il suo stipendio, “l’autostima” vacillante di fronte alla narcisistica presenza del marito (come emerge nel video della Suutari già citato).
È quanto ritengo dopo essermi divertito – pur senza conoscere il finlandese – con la mia vicina di casa Pirkko Aura. Con Pirkko, appassionata di parole crociate a schema libero e conoscendo io de visu molti degli oggetti schizzati da Aino, è stato possibile riconoscere e decifrare quasi tutto quanto ritenuto oscuro o mal interpretato dall’ignaro e ignoto traduttore; oltre a risalire alla datazione esatta degli appunti di viaggio (1935-36).
Un mancato compito che va ad aggiungersi alla poca attenzione riservata ai due esempi per me fondamentali per la formazione dell’Artek: i due negozi di arredi Stylclair in Francia e il Metz & Co Magazijnen (v. foto a fianco) – quest’ultimo fornitore della Artek anche dei tappeti marocchini e di molti tessuti per mobili e oggetto della mia pluriennale e solitaria ricerca sui mobili Aalto in Olanda, grazie alla quale è stato possibile datare le prime pagine del travel diary.
Forse un migliore gioco di squadra degli autori diretti dalla Stritzler-Levine si sarebbe concluso – per usare il linguaggio della Gazzetta dello Sport – con un maggior numero di reti. Jüri sapeva che per una buona amatriciana oltre alla bontà degli ingredienti è richiesto il tempo di amalgamarla, prima di portarla in tavola.
È il mio invito per un’auspicabile revisione del definitive catalogo sulla Artek e Aino e Alvar Aalto.
L’autore, Gino Anzivino, era ventenne nel 1965 – anno della mostra di Leonardo Mosso su Aalto al Palazzo Strozzi – rondine foggiana volata a Firenze per iscriversi ad Architettura. Per un incidente di percorso universitario (un esame finito malamente per incapacità di imitare la grafia del Maestro) e soprattutto dubbioso sul suo futuro di architetto, decideva di cambiare rotta diventando poi il primo laureato in architettura a Firenze con una tesi di storia. In tale impresa, per quei tempi impossibile, i suoi maestri Eugenio Battisti e Manfredo Tafuri sono stati determinanti. Nel 1976, alla morte del Finlandese, insegnava già da qualche anno storia dell’architettura contemporanea presso la stessa Facoltà. Più propenso alla ricerca che alla produzione letteraria, ha preferito trasmettere il suo sapere agli studenti, che molto gli hanno restituito. In pensione da dieci anni, è stato spesso visto negli archivi di Amsterdam, Berlino e presso la Fondazione Aalto. Negli ultimi quattro, molto più spesso con i suoi tre carissimi nipotini.
(Per le foto pubblicate, siamo pronti a far fronte alle richieste dei diritti)