Harry Salmenniemi: La lampada ad uranio

I nostri "Insoliti Ignoti", testi ancora inediti in lingua italiana

Harry Salmenniemi (Jyväskylä 1983 – ) debutta nel 2008 come poeta con la raccolta Fluire che (Virrata että), alla quale fanno seguito Texas, sakset, vincitore del prestigioso premio Kalevi Jäntti, Poesie (Runojä, 2011), votato libro dell’anno e quindi Righi di pietra (Kivirivit, 2013), Le foglie del buio (Pimeän lehdet, 2015) e più recentemente Notte e vetro (Yö ja lasi, 2018).

È anche coautore di sceneggiature teatrali, cortometraggi e mostre d’arte, come già riportato sulla Rondine.

Come molti suoi colleghi finlandesi, dopo gli esordi poetici debutta in prosa con La lampada all’uranio e altri racconti (Uraanilamppu ja muita novelleja, 2017).

Il testo che qui presentiamo, e che dà il titolo alla raccolta, è il suo omaggio intertestuale al famoso racconto di Juhani Aho Quando il babbo comprò la lampada (Siihen aikaan kun isä lampun osti, 1883). Sia in questo racconto sia nei successivi, l’autore propone il genere di quello che potremmo definire ‘realismo surrazionale’. Oltre ai punti cardini quali la casualità oggettiva e la dislocazione percettiva, vi ritroviamo anche una reinterpretazione della tradizione letteraria finlandese; questi racconti ibridi, però, acquistano ancora maggiore efficacia, in quanto si basano su una realtà nota e quotidiana, che dona una poco confortevole inquietudine alla narrazione.

Negli ultimi due anni, ha pubblicato altre due raccolte di racconti, La meditazione dei delfini (Delfiinimeditaatio ja muita novelleja, 2019) e La sindrome della vittima (Uhrisyndrooma ja muita novelleja, 2020)

da stilearte.it

“Uraanilamppu”

Siltala, Helsinki 2017, pp. 5-11

Stanotte ho dormito ancor peggio della notte precedente, e stamattina, una volta sveglio, mi veniva quasi da piangere. Avevo fatto un sogno, mio padre aveva catturato e imprigionato nella nostra lampada un uccello, che si agitava inquietante battendo le ali contro la cupoletta. La lampada l’aveva bruciato fino all’osso e nella stanza faceva un caldo torrido.Delle immagini orribili presero a turbinarmi nella mente mentre mi trascinavo fuori dal letto. Mi lavai i denti e fui l’ultimo a fare colazione. Intento a preparare il tè, notai con la coda dell’occhio mio padre che veniva con la cassetta degli attrezzi in mano. Tirò fuori delle pinzette e inserì con cura dei granellini microscopici in un composto di colore ferroso.

Quando il babbo staccò la lampada dal soffitto, e iniziò ad avvitarla e a torcerla, mamma, uscendo dal guardaroba, domandò:

“E ora, cosa sta combinando il nostro papà?”

“Sto aumentando la luminosità della lampada.”

“Ma così si rompe. E come fai a rimettere a posto quella cosa che hai appena svitata?” Mamma non conosceva il nome della parte con cui papà armeggiava. Lui non rispose, ci disse solo di tenerci a distanza.

Io lo osservavo versare il composto metallico dal tubetto più piccolo in una vaschetta di vetro, fino a quando non fu quasi piena. Ero sicuro che doveva esserci qualcosa di pericoloso in quella miscela.

“Non ci metti niente altro?”, chiese la mamma mentre papà riappendeva la lampada al suo posto.

La miscela di metallo fuso colò lungo la lampada. Stillò a terra in gocce scintillanti, che luccicarono al sole mattutino.

Mamma si affrettò verso l’interruttore.

“Vuoi accenderla ora, anche se è ancora giorno?” chiese papà.

“Per vedere come brucia.”

“Certo che brucia. Aspetta che vada via la corrente, e poi vediamo,” disse papà. “Ma prima mangiamo.”

“D’accordo,” fece la mamma di rimando. “Il pranzo è quasi pronto. Bisogna solo apparecchiare. Vieni ad aiutarmi,” mi sollecitò.

La seguii in cucina, lo sguardo rivolto verso papà, in piedi vicino alla lampada sfoderando un ampio sorriso. Sentii una stretta allo stomaco pensando alla lampada, ai piani di mio padre e alla soddisfazione che lasciava trapelare il suo viso.

Dopo il riposino, mio fratello trascinò dentro casa il generatore e lo sistemò nel corridoio, lasciando a mala pena spazio sufficiente per passare.

“L’ho portato dentro, così non ci ritroveremo senza elettricità quando andrà di nuovo via la luce,” annunciò.

“Non ce n’è più bisogno,” intervenne papà.

“Be’, non credo che le lampade funzionino senza elettricità.”

“Vai a vedere quella appesa lassù.”

Mio fratello si assicurò che il generatore fosse saldamente al suo posto e sollevò lo sguardo verso la lampada.

“Quella è una lampada che quando è accesa produce calore e luce sufficienti a tutto il paese. Fornisce talmente tanta energia che non ci sarà più bisogno di lampade nel circondario.”

“Ah, quindi non ce ne sarà più bisogno,” ripeté mio fratello scuotendo la testa. Socchiuse gli occhi con un’aria di sofferenza.

“Vado di nuovo fuori,” continuò alzando velocemente i tacchi, come se si fosse offeso. Aprì la porta, si diresse verso la moto e si allontanò.

Mio padre chiese a me e mia sorella di avvicinarci e ci sussurrò che non avremmo avuto il budino se uno di noi avesse toccato la lampada. Ma non c’era nemmeno bisogno di dirlo, vidi che mia sorella temeva quell’arnese proprio quanto me.

Mentre papà parlava, del metallo fuso prese a stillare lungo la parete, e mentre ripeteva la sua ammonizione un’esile striscia di vapore iniziò a fluttuare contro il soffitto, sopra la carta da parati arricciata.

Dietro le casette a schiera c’era un sentiero che portava al fiume, dove si andava a prendere l’acqua. Nello stesso punto si alzava una collinetta, dalla quale la slitta scivolava ben oltre il buco scavato nel ghiaccio. Sul pendio non c’erano alberi contro cui si potesse andare a sbattere, e quindi non avevamo paura di scendere veloci. Era anche l’unica collinetta sulla quale nessun bambino del paese si era mai rotto un arto.

“Eccoli che arrivano, gli orfani della guerra atomica!”, fecero i figli dei vicini quando ci videro arrivare.

Era chiaro a me e a mia sorella cosa intendessero, ma chiedemmo lo stesso:

“E perché mai orfani – i nostri genitori non sono mica morti! E non c’è stata nessuna guerra atomica.”

“Ma perché, non avete forse a casa una lampada del genere?”

“Come fate a saperlo?”

“Al negozio, vostra madre ha detto alla nostra che vostro padre ha armato una lampada che, quando è accesa, si riesce a vedere perfino una spilla sul pavimento della casa del vicino,” spiegò la figlia del giudice, cominciando a ridacchiare.

Come sempre, si coprì l’apparecchio per i denti con la mano.

“È un tipo di lampada all’uranio,” spiegò il figlio del signorotto locale, aggiungendo: “Ho sentito dire anche che sono vietate, ma io lo sapevo già da prima.”

“Mio fratello sa sempre tutto,” aggiunse la figlia del signorotto.

“Tu stai zitta,” le intimò il fratello.

“E allora, a casa ce l’avete la lampada truccata, vero?”, chiesero i bambini in coro.

“Sì, ma ora non potete venire a vederla, perché di giorno non è accesa,” spiegò mia sorella. “Ma stasera, quando ci sarà un altro blackout, possiamo andarci tutti insieme.”

Ero sorpreso che mia sorella non si vergognasse, nonostante quell’interrogatorio. Slittammo giù per la collina fino al crepuscolo, e ad ogni risalita raccontavamo della lampada ai bambini del posto.

“Presto le mura di casa si scioglieranno,” disse mia sorella.

Sulla slitta, il tempo passò veloce. Alle sette, si spensero le luci dei lampioni in strada. Sapevamo che ci sarebbe stata l’interruzione e così filammo tutti verso casa nostra.

Quando lo chiamai per nome, mio fratello girò la testa pigramente. Lasciò cadere dalle labbra un lungo filamento di bava fino ai piedi e non sembrò avere intenzione di entrare in casa insieme con noi.

Gli passammo accanto di corsa, precipitandoci nell’ingresso.

Già dalla fessura della porta vedemmo che la lampada era accesa. Brillava così intensamente dal soffitto che potevamo osservarla solo socchiudendo gli occhi. Mi misi i palmi delle mani davanti al viso per evitare di esserne accecata.

“Chiudete immediatamente la porta!”, gridò mio padre, seduto al tavolo.

“Non c’è da stupirsi che i bambini ne abbiano paura, anche a me fa sempre impressione,” disse la padrona di casa.

Sotto la pelle verdastra traspariva la sua spina dorsale.

Non appena i nostri occhi si abituarono al bagliore, notammo che la stanza era affollata di vicini. Tutti lanciavano occhiate alla lampada, alcuni osavano già fissarla direttamente. Gli altri apparecchi elettrici non funzionavano. La televisione era spenta, ma il bagliore della lampada era così forte da far staccare l’intonaco dal soffitto.

“Be’, venite, bambini, avvicinatevi così potete vedere meglio,” disse gentilmente mio padre. “Scrollatevi la neve dagli stivali e venite qui in cucina, vedrete che bellezza.”

Raggiunsi mia madre e mi sedetti sulla panca accanto a lei. Solo lì osai guardare la lampada con più attenzione. Non mi sarei aspettato quel brillio così intenso, e non vi trovai alcun difetto: dopo averla osservata per un po’, ebbi l’impressione che fosse esattamente al posto giusto, e che facesse luce proprio come doveva.

I vicini continuavano a tessere le lodi di quell’aggeggio. Tutti cercavano di dire qualcosa di inventivo, paragonando la lampada ai piloni di illuminazione dello stadio o a un faro. La moglie del farmacista la lodò perché illuminava le persone in modo così perfetto da lasciar intravedere anche il groviglio delle viscere, e lei finalmente in questo modo riusciva a scoprire cosa mangiasse quella gente che riusciva a mantenere la linea. Tutti le sorridevano: lei era, quanto a linea, a dir poco pasciuta. E poi si scherzava sul fatto che in paese non ci sarebbe mai più stata la notte polare, perché la lampada avrebbe illuminato anche i cortili dei vicini. Quando mio padre lo sentì, mi disse di prendere il sillabario e di andare in cortile per vedere se riuscivo a leggere anche lì.

Aprii la porta e avanzai lungo il ciglio della strada, cominciando a leggere ad alta voce dal quaderno di svedese.

“Oh, ma questo è qualcosa di mai visto!”, si stupirono i vicini.

Mio padre disse che se qualcuno avesse avuto uno spillone, l’avrebbe potuto lanciare nella foresta, per esempio a un chilometro di distanza, e l’avrebbero certamente ritrovato con una luce così.

La nuora del giudice aveva una spilla sul petto ma, quando la lanciò a terra, finì nella fessura tra le assi di legno e il cemento. I fasci di luce erano sì capaci di penetrare il legno, ma non il cemento, e così la spilla non fu più trovata.

“Nemmeno la nostra lampada è capace di risolvere ogni cosa,” disse papà con un ampio sorriso.

Solo quando i vicini se ne andarono, verso mezzanotte, mio fratello entrò con un’espressione imbronciata sul viso.

All’inizio evitò di guardare la strana luce della lampada, ma poi con calma si tolse il casco e le scarpe.

“Dove sei stato?”

“A fare un giro nel cortile della scuola.”

“Riuscivi a vedere la strada?”

“No, c’era buio.”

“Be’, qui si vede.”

“Infatti.”

Papà era in piedi sotto la lampada. La luce che lo attraversava permetteva di distinguere le singole vertebre.

“Cos’è che brilla sul soffitto?”, chiese mio fratello togliendosi le scarpe.

“Indovina cos’è,” gli fece suo padre.

Mamma rideva in sottofondo, mentre io bevevo il tè e osservavo la situazione dall’ingresso, la tazza calda tra le mani.

“Non mi va di tirare a indovinare,” sbottò mio fratello, accostandosi alla lampada.

“Non avvicinarti troppo, se no ti scotti.”

“È così calda?”, si sorprese.

“Se non sei abituato ti può ustionare. Sembra che luccichi più delle luci dello stadio, così almeno hanno detto al negozio,” rise papà. “Puoi scommetterci che è calda.”

“Davvero è così calda?”, si stupì mio fratello, facendo un passo indietro.

“Non è che il fratellino ha paura?” chiese sua sorella divertita.

“Certo che no,” rispose il fratello a bassa voce, ritirandosi verso il tavolino con il telefono.

Mia madre dovette forse essere dispiaciuta per il povero ragazzo. Cominciò a spiegargli che suo padre aveva intenzione di sistemare la lampada in cortile, in modo da non soffrire più il buio invernale. La si poteva portare dentro soltanto quando mancava la corrente, appenderla al primo piano, per esempio, in modo che la luce al piano terra non abbagliasse così intensamente.

“Gli uccelli del cortile probabilmente si abitueranno,” concluse la madre. “Sono sicura che anche a loro piacerà avere il sole pure d’inverno.”

“Cosa penseranno gli animali quando si vedranno le loro ossa?”, chiese mio fratello.

Anche io mi ero fatta la stessa domanda.

“Be’, non ci metteranno più di tanto ad abituarsi,” sentenziò papà.

(Per le immagini pubblicate siamo pronti a pagare i diritti)