“Riccioli d’oro” di Mika Waltari in italiano

È appena stato tradotto per le edizioni Vocifuoriscena uno dei romanzi più significativi di Mika Waltari, un testo edito subito dopo il secondo conflitto mondiale, e che affronta una tematica apparentemente “privata”, intima. La storia dei turbamenti della giovane Maire che, nata fuori dal matrimonio, non viene accettata dal padre. Fugge di casa, ma finisce per subire violenza e per rassegnarsi a vivere prostituendosi.

Il titolo “Riccioli d’oro” è l’appellativo datole dai suoi clienti, ma non deve trarre in inganno. Non c’è niente di sdolcinato nella sua vicenda, che al contrario procede implacabile attraverso una serie di prove, sulle quali la giovane immagina di costruirsi una forma di redenzione.

Opera tra le più intense di Waltari, in cui dietro la figurina apparentemente minuta della ragazzina inquieta va progressivamente prendendo forma un individuo alla ricerca della fede e dell’assoluto. Una ricerca ossessiva, buona solo a svelarle l’incompatibilità di certi valori supremi con la banalità cruda della realtà quotidiana. Da qui la soluzione dell’unico confronto che la vita le mette a disposizione. 

Come avverte la quarta di copertina, si tratta di un’opera assolutamente immorale, che si confronta con destini non misurabili con la sorte di una persona. Come nella Coscienza di Zeno, alla fine ci si misura con una dimensione più grande di quella individuale: «Poco dopo, la guerra si rovesciò sul mondo intero, cancellando tutto il passato».

Viola Parente-Čapková, nella curatissima Postfazione, pone quest’opera niente affatto minore a confronto con i grandi romanzi dello scrittore finlandese: “Quest’opera fa parte della richiesta di Waltari di una costante crescita spirituale della persona, del processo di ricerca del significato della vita e della storia umana che culmina nei suoi romanzi storici.”

Waltari sul divano di casa (foto Pietinen). Sulla casa di Waltari a Helsinki si veda il report di Giorgio Tricarico

Riccioli d’oro

Capitolo 1

Dipenderà tutto dal fatto che sono figlia del peccato. Potrà suonare ridicolo, e dunque si rende necessaria una spiegazione. Quando sono nata, dopo due figli maschi, mio padre era via di casa da un anno e mezzo. Mi vide per la prima volta quando avevo sei mesi e non ne fu contento. Mia madre temeva che potesse uccidermi, perché era uno che non riusciva a controllarsi, per lo meno quando beveva. Era ancora nel fiore degli anni, nero come il demonio, diceva la gente. Capelli neri lucidi, baffi corvini lucenti.

Gridava e imprecava, ma cosa mai poteva farmi? Ero troppo piccola. In qualche modo riuscirono a tirare avanti, papà e mamma. Ebbero altri due figli dopo di me, complessivamente cinque. Sopravvivemmo tutti, eravamo di scorza dura e con una gran voglia di vivere, nonostante la guerra e la fame. Anche se vivevamo pigiati in una casupola di legno nel quartiere periferico di Ruoholahti, stanza e cucina, in fondo al cortile. Anche se i miei fratelli a volte piangevano per la fame, per colpa di mio padre che beveva. Per il resto, non eravamo poi in pessime condizioni, papà guadagnava abbastanza, quando guadagnava. Più di un operaio generico.

La prima guerra mondiale lo spinse per due anni lontano da casa, all’estero. Con la voglia di guadagnare meglio, e di qualcosa di diverso. Aveva un’inquietudine simile a quella che provo io. Non ho ereditato nulla da mia madre, da mio padre tutto. Anche se non era il mio vero genitore e, già a prima vista, ero diversa dal resto della famiglia. Padre e fratelli tutti neri, anche mia madre era scura. Solo io ho i capelli chiari. Riccioli d’oro, così mi chiamarono in seguito. Quando diventai quella che sono.

Mio padre aveva preso il vizio di bere mentre prestava servizio in Estonia e in Polonia durante la guerra, e lì divenne anche un attaccabrighe fuori controllo. Successivamente, mia madre glielo rinfacciò. Non so se avesse ragione. Forse fu proprio il ritorno a casa a segnarlo. Era stato via due anni, all’estero, tornò senza la ricchezza sognata e a casa trovò una bimba di sei mesi nella culla, figlia di uno sconosciuto. Una bambina che se ne stava silenziosa, la testolina coperta di lanugine dorata. Dovette fargli impressione. Apparentemente, però, non smise di amare mia madre, visto che poi insieme ebbero altri figli. La cosa che lo feriva di più doveva essere il mio silenzio, credo. Se avessi pianto, urlato come gli altri bambini, come i bambini normali, forse avrebbe potuto accettarmi. Ma ero silenziosa, quasi innaturalmente quieta per la mia età. Doveva essere strano per lui, abituato com’era a urlare, imprecare, a sfogare senza controllo le sue emozioni. Il mio mutismo infantile gli faceva paura. Dovevo essere davvero una cosa spaventosa, una lattante che non emette suoni e si limita a osservare tutto con un’aria seria.

Mio padre aveva ripreso a bere una volta tornato a casa. Se fosse per colpa mia, di mia madre o dell’esperienza all’estero, non lo so. Era fatto così. Non diventò uno di quegli ubriachi che bevono fino allo stremo. Qualche rissa, qualche multa. Per il bere non perse mai il lavoro, perché conosceva bene il suo mestiere e con la gente sapeva farci. Ecco perché poi lo perdonavano. Ma invecchiando si fece più cupo.

Ma perché racconto del ritorno di mio padre, visto che non ricordo affatto come era? Ero troppo piccola. Tutto quello che so, l’ho appreso da mia madre. Che non mi svelò mai chi fosse il mio padre naturale. Me lo ha tenuto nascosto. È per questo che non ho idea di chi fosse, e per quale capriccio, per quale errore io sia venuta al mondo. Non lo saprò mai. Posso solo immaginarlo. Sognarlo, forse, anche se c’erano momenti in cui avrei voluto incontrarlo solo per sputargli in faccia e cavargli gli occhi.

Era una reazione infantile. Ora non è più così, penso solo che forse vive ancora da qualche parte. Non è impossibile, non sono ancora così vecchia. Forse abita nella mia stessa città e non sa nemmeno che esisto. Non so nulla di un suo possibile incontro con mia madre dopo quel che era successo tra loro, quando papà era assente. Probabilmente non si sono mai più incontrati. Così credo. I bambini sono perspicaci, da far paura. Se si fossero incontrati, l’avrei intuito, sospettato, da qualche segnale impercettibile.

Ecco perché il mio vero padre è solo un’ombra. Da lui non ho ereditato nessun segno speciale. Tranne il viso. I capelli chiari. Forse gli occhi. Doveva essere un uomo attraente.

Ero bellissima già da piccola. Lo sapevo. Troppo presto e troppo bene sono stata consapevole della mia bellezza. Per questo, non riuscivo a capire perché mio padre non volesse amarmi.

Dio solo sa come usassi tutta la mia tenerezza infantile per ingraziarmelo, per farmi amare. Da piccola lo adoravo più di ogni altra cosa al mondo. Allora non sapevo ancora che non era il mio vero genitore. Era il miglior papà che conoscessi. Quando il sabato tornava dal lavoro, sceglieva con cura i vestiti. Si lisciava i capelli. Erano talmente neri che avevano riflessi bluastri.

Avendo già bevuto più di un bicchierino, sorrideva davanti allo specchio cantando le canzoni che aveva imparato durante i suoi viaggi. Aveva una voce cupa, profondamente maschile. Una voce che stringeva il cuore. La malinconia e la passione di quel canto mi inebriavano in maniera indicibile, anche se non riuscivo ad afferrarne le parole. Dio mio, quando lo guardavo, mi tremavano le ginocchia. Era così forte, così bruno, così bello. Non so cosa avrei dato perché soltanto si chinasse su di me sfregando le guance lucide e fresche di rasoio sul mio viso, come a volte faceva con i miei fratelli. E con mia madre.

Poi usciva. E tornava solo a tarda notte. Tornava che sembrava un altro, minaccioso e affascinante, come un temporale. Noi bambini dormivamo già, ma ci svegliavamo al cigolio della porta. Mia madre accendeva la luce e mio padre, con passo incerto, si reggeva con entrambe le mani allo stipite; aveva gli occhi torbidi, la bocca umida, il colletto strappato. A volte portava a casa anche i suoi amici, con i quali continuava a bere in cucina. Finiva sempre in rissa. Ecco perché quasi tutto da noi era rotto. Le sedie con le gambe scheggiate, il tavolo che ondeggiava, sostenuto con qualche stecca. Una volta mio padre si prese persino una coltellata, ma non accadde nella nostra cucina.

Allora, naturalmente, provavo paura. Eppure ogni volta che potevo, sgattaiolavo giù dal letto e scrutavo in cucina dalla porta accostata. Come se una forza interiore mi spingesse a sbirciare, pietrificata dalla paura e dalla curiosità, sebbene sapessi che, mi avessero scoperta, ne avrei sentite di tutti i colori, e che bruciore alle guance. Quando mia madre era più giovane, si alzava spesso per andare a bere con loro. Non poteva fare altro, non aveva più la capacità o la forza di controllare mio padre. Viveva nell’incessante timore che gli sarebbe potuto succedere qualcosa. Ecco perché a volte la sera mandava giù pure lei un cicchetto, sebbene per questa ragione, poi, le vecchie del cortile spettegolavano sul suo conto. Era anche questione di invidia, perché mio padre era un tipo in gamba, impavido e attraente. Anche mia madre, del resto, nonostante i cinque figli, non mancava di una certa grazia e una sua bellezza. Quando i figli si fecero più grandicelli, andò persino a lavorare, a fare le pulizie negli uffici per aiutare la famiglia, perché passata la domenica a mio padre rimanevano solo pochi spiccioli per il mangiare. Ma l’affitto lo pagava regolarmente e talvolta, quando mamma insisteva, le dava anche del denaro per i vestiti.

Mia madre, però, non era un tipo assillante. Ma perché parlo tanto di mio padre quando avrei molte più ragioni per parlare di mia madre? Sinceramente, dovessi esprimere ammirazione per uno dei due, senza dubbio sceglierei mia madre, anche se finché fu in vita questo pensiero non mi balenò mai nella mente. Fu solo dopo la sua morte che ne presi coscienza, rendendomi conto di colpo che era stata una persona ammirevole. Ma non gliel’avevo mai dimostrato. Nemmeno da bambina. Nemmeno subito dopo la sua morte, anche se la ragione mi diceva che c’era motivo di farlo. Già da bambina provavo risentimento nei suoi confronti, uno strano disprezzo che non riuscivo a spiegarmi. Lei avrebbe voluto coccolarmi quando mio padre non c’era e i miei fratelli non potevano vederci. Forse nel segreto dell’anima si sentiva colpevole della mia nascita, per il fatto di avermi generato, e avrebbe desiderato risarcirmi, darmi più affetto che agli altri figli. Tuttavia, io non sapevo che farmene, e rifuggivo le sue tenerezze.

Qualche sabato, quando riceveva una paga sostanziosa, mio padre dava ai ragazzi un po’ di denaro. A me non ha mai dato niente, anche se facevo di tutto per entrare nelle sue grazie. No, papà non mi ha mai dato nemmeno un marco. Quando lui se ne andava e i ragazzi uscivano fuori a fare baldoria, mia madre mi dava almeno quanto gli altri avevano ricevuto dal padre. Un marco o anche due. Si assicurava che non soffrissi alcun torto, e io ricevevo la stessa paghetta, anche se lei doveva attingere ai fondi per la casa. Non si rendeva conto che queste mistificazioni accrescevano il mio senso di ingiustizia, e mi amareggiavano ancora di più.

Ciò di cui mi importava non era il denaro, anche se significava dolcetti e limonate, caramelle o un fiocco rosso per i capelli. Desideravo solo che fosse mio padre a darmi quel che dava ai ragazzi. I soldi per me avrebbero avuto valore solo se me li avesse donati lui. Quelli di mia madre mi umiliavano e mi mortificavano.

Per consolarmi, a volte mi dicevo che mio padre sicuramente pensava che non avessi bisogno di denaro perché ero una ragazza. Forse secondo lui solo i maschi ne avevano bisogno. Questa spiegazione non mi era però di nessun conforto. Sentivo, sospettavo con tutto il mio essere, che mio padre mi evitava. Me lo faceva capire molto chiaramente. Quando distribuiva i soldi ai ragazzi e incrociava il mio sguardo implorante, i suoi occhi si indurivano, scuoteva la testa nera e poi deviava la sua attenzione altrove.

Qualche domenica, nel pomeriggio, si stendeva sul letto mezzo svestito, leggeva il giornale e i miei fratellini correvano a rintanarsi tra le sue braccia. I più grandi si inginocchiavano a capoletto, e mio padre scandiva per loro i testi dei fumetti del giornale, spiegandone il significato. Avrei dato chissà cosa per poter anch’io stendermi accanto a lui come i miei fratelli, accoccolarmi con la testa poggiata sulle sue spalle enormi. Immaginavo di toccargli furtivamente la guancia ruvida con la mia, che lui mi passasse con brusca tenerezza la mano sulla testa e mi pizzicasse come faceva ai ragazzi quando gli stavano troppo addosso.

Giaceva lì, enorme, intontito e sorridente per la sbornia, una bottiglia di birra posata per terra vicino al letto, il respiro pieno dell’odore aspro dell’alcool, e io lo amavo e adoravo come solo una bambina può amare il suo papà. Mi inginocchiavo ai piedi del letto in modo che non potesse vedermi. Nascosta dietro il giornale, a volte gli posavo leggermente la mano sulla gamba. Ma lui sentiva il mio tocco e mi scacciava scalciando.

«Che diavolo guardi, ragazzina», mi malediceva, «va all’inferno.»

Non credo che si sia mai rivolto a me con gentilezza.

Così sono cresciuta a casa mia come una estranea, e mio padre me lo faceva capire giorno dopo giorno, al punto che anche i miei fratelli presero a starmi alla larga e non ci fu più posto per me nei loro giochi. Mia madre avrebbe voluto compensare quella tenerezza negata, ma del suo amore non mi importava. Per me non valeva nulla. Al contrario, quando vedevo che la mia ostilità la rattristava, e la mia disaffezione la rendeva infelice, facevo di tutto per far pagare a lei l’indifferenza che mio padre mi dimostrava. Ma quella crudeltà infantile non mi arrecava conforto. Proprio come mio padre si allontanava da me, io cercavo di allontanarmi da mia madre, e ogni volta sentivo ardermi il petto e la gola, e pungermi gli occhi per le lacrime che non riuscivo a piangere.

Com’è assurda la vita. Non ricordo quanti anni ho combattuto questa battaglia insensata, ma un sabato, dopo che mio padre era uscito, mentre i miei fratelli vociando tormentavano un gatto nel cortile, all’ennesima offerta di denaro da parte di mia madre le schiaffeggiai il palmo facendo rotolare i marchi per terra, e scappai via piangendo a dirotto. Restai a piangere nella legnaia, poi andai in strada e tornai a casa solo più tardi, dopo che i miei fratelli avevano già mangiato ed erano andati a letto.

Da allora cercai gioia e amicizie per strada, odiando la mia casa; ma il mio era solo l’odio infelice di una bambina respinta, che arrecava dolore soprattutto a se stessa. Sì, ogni piacere da allora lo cercai per strada, fu lì che appresi tutto quel che mi poteva insegnare: volgarità, malvagità, ruberie, irrequietezza. Frequentavo già le elementari, e i ragazzi più grandi cercavano di toccarmi, ma la cosa non mi interessava né mi eccitava, perché ero ancora una bambina. Fredda, non ancora smaliziata, che non desiderava altro che tenerezza. E in quei loro toccamenti non c’era affatto tenerezza.

Ma la notte del sabato, raggomitolata sul pavimento gelido, infreddolita e mordendomi i pugni, aspettavo sempre che mio padre tornasse e offrisse da bere a mia madre. Allora i suoi occhi tornavano a scintillare, le guance le si arrossavano, e all’improvviso diventava bellissima, anche dopo aver partorito cinque figli. Si provocavano, poi lei si spogliava e costringeva anche mio padre a farlo, e ad andare a letto con lei. Ma quando la luce si spegneva, me ne stavo distesa sul letto come sui carboni ardenti, tendendo le orecchie a ogni rumore e odiando mia madre e le sue risate, il suo ansimare nel buio. La paura di mio padre e l’odio per mia madre mi sfiancavano a tal punto che alla fine cadevo in un sonno profondo, come se perdessi coscienza.

Titolo originale: Kultakutri (1948)

Edizioni: Vocifuoriscena 2023

Traduzione: Antonio Parente, Nicola Rainò
Postfazione: Viola Parente Čapková

pp. 136, euro 17,50