Gennaro Oliviero: vent’anni di cucina “italiana” in Finlandia

Un bilancio con lo chef campano che non fa la pizza, non segue il calcio e non beve caffè

Ho conosciuto Gennaro Oliviero quand’era ancora un ragazzo di origini campane, più o meno vent’anni fa. A Lahti gestiva un bar-ristorante, un localino apparentemente senza pretese, dove mi capitò di apprezzare per la prima volta le sue qualità. Dopo un tentativo non esaltante a Tampere, e un periodo a Helsinki nelle cucine di un grande ristorante sul porto, si decise al secondo passo, che questo significa nello slang della capitale Toca (“o secunno“). Pochi anni bastarono, nel suo localino su Unioninkatu, perché anche l’intellighenzia locale lo notasse, facendogli guadagnare cinque stelle (un record assoluto) e un paginone su “Nyt”, il Cantico dei Cantici settimanale della bibbia della capitale (“Hesari“). Dirò senza tema di smentita che al Toca si facevano esperienza inaudite per Helsinki: una cucina molto personale, né italiana né internazionale, ma continuamente pensata e costruita da Gennaro e dai suoi assistenti (in primo luogo la moglie Elina Valoranta, ottima sommelier, e il fratello Pietro) sulla base di prodotti freschi locali, specialità internazionali, assistite da tecniche di preparazione sofisticate che poi Gennaro ti portava al tavolo, raccontandoti l’origine degli ingredienti, il metodo di cottura, una guida a ciò che poi uno si ritrovava nel piatto, spesso anche un esempio di estetica, non solo culinaria. Gennaro ha una vocazione didattica straordinaria: vuole che il cliente non solo goda, ma anche “comprenda” quello che sta mangiando. Per lui la gastronomia è, come insegnava l’Artusi, Arte e Scienza. E richiede competenza e intelligenza, non è roba per improvvisati o, come ama dire lui, analfabeti della cucina.

Dopo dieci anni ha chiuso l’esperienza del Toca. Succede. Ma in attesa che riprenda il volo, magari con un “tierzo” (sperando che resti qui) ho pensato di fargli un’intervista, una specie di bilancio, per aiutare anche noi a capire se esiste una cucina “italiana” in Finlandia, se abbia un'”identità” (coi rischi attualmente legati al lessico della “Natzione”), insomma dove andiamo, se da qualche parte proprio si deve andare.

Vent’anni più o meno di esperienza in Finlandia. Come sono stati gli inizi? Qual era il panorama dell’offerta gastronomica che tu ricordi del periodo tra Lahti e Tampere, prima di arrivare nella capitale?

Se dovessi definire questi anni in una sola parola… sarebbe difficile, nello specifico non è stata una passeggiata vivere qui e sicuramente per una persona abituata all’abbondanza e alla varietà che ci riserva l’Italia, la Finlandia era indietro anni luce, in parte sicuramente per via degli scarsi canali di approvvigionamento e anche alla poca richiesta di prodotti. Oggi ad esempio si sta vivendo un boom di ristoranti all’italiana, quindi è normale che il fornitore di turno faccia i salti mortali per approvvigionarsi di materie prime che vent’anni fa non riusciva neanche a pronunciare… del resto come ogni paese in via di sviluppo e se vuoi come specchio di quella che è la società moderna il consumismo è arrivato prepotentemente anche qui.

Una volta sostenevi che non c’era in Finlandia una gastronomia “italiana”. Perché lo dicevi allora? E vale anche oggi?

Beh, ancora dopo vent’anni non credo esista una gastronomia italiana, la ragione in passato come adesso è da attribuire a noi italiani: non abbiamo avuto la capacità di fare gruppo, di sostenerci a vicenda e di avviare attività commerciali solide. Mi spiego meglio: abbiamo alcuni italiani che hanno avuto la capacità di integrarsi e fare business e non parlo solo nel mio settore… eppure non esistono ristoranti o attività che hanno avuto la voglia di creare un lascito culturale forte, in grado di consolidare se stessi e le generazioni future. Io in primis ho avuto un’attività che mi ha permesso di realizzare molto, tuttavia non ho provveduto a un blueprint per chi dopo di me arriva, non lo vedo come un rimorso ma piuttosto come una lacuna, avrei dovuto lavorare in modo da permettere al prossimo ‘me’ di avere una strada spianata. Tutto ciò per dire che una vera autocritica ci avrebbe permesso di realizzare molto di più. Negli anni non ho mai scansato le critiche e mai lo farò, ma vivo anche nella cosapevolezza che ci sono miei connazionali che continuano a ripetere a se stessi lascia stare tanto questi non capiscono niente… ecco, lasciamo stare!

Esiste una “identità” culturale di un Paese che può essere esportata all’estero?

Molti programmi televisivi giudicano i ristoranti italiani all’estero in base a una presunta “italianità”. Quando le persone mi chiedono da dove vengo, la prima cosa che rispondo è che sono di Napoli e nello specifico Ercolano, o Resina come mio padre amava chiamarla. In Italia abbiamo una miriade di artisti che cantano il proprio amore per la propria città, basterebbe ascoltare una loro canzone per rispondere a questa domanda. Tuttavia una in particolare potrebbe sommare questo pensiero, il ritornello dei Negramaro in Sei tu la mia città. Ecco, se noi immaginiamo l’identità di un paese, attualmente pensando nello specifico alla Finlandia e ai giornali che parlano di cucina italiana, sono circa 20 anni che stiamo ascoltando Laura non c’è in loop. Ti verrebbe voglia di urlare, distruggere la radio, ma poi ricordo di essere solo uno in mezzo a tanti e quindi ripeto a me stesso… che la gente di me sa quello che faccio e quello che dico e siccome non dico nulla sanno solo quello che faccio… per quanto contorto e criptico possa sembrare, ecco quanto conta l’identità!

Quanto dipende, questa cercata identità, dalla presenza di una comunità attiva di italiani in quel Paese (Finlandia)

Credo che molto dipenda dalla cultura personale di ogni singolo individuo o meglio dal background emotivo che ognuno di noi trasporta. La presenza di una comunità è utile quando questa ti ricorda chi sei e ha la capacità assieme a te di tirare fuori il bello e il brutto, se vuoi crescere… proprio come faresti se fossi a casa. Può essere altresì deteriorante quando hai a che fare con individui che riversano le loro frustrazioni e fallimenti, accollando la colpa a un paese… per me la comunità italiana è come un’arma a doppio taglio.

L’identità, o forse le caratteristiche culturali di una cucina, possono o devono confrontarsi con la tradizione locale? Vedi rischi di un patchwork, o peggio di confusione?

Se ci affidiamo alla definizione di cucina italiana che wikipedia fornisce c’è un passaggio in particolare che testualmente dice che una delle caratteristiche principali della cucina italiana è la sua semplicità, con molti piatti composti da pochi ingredienti, e quindi i cuochi italiani spesso puntano sulla qualità di questi. Ragion per cui io trovo naturale il confronto con le tradizioni locali e credo che la confusione se sfruttata in maniera intelligente possa disordinatamente creare ordine.

Nella tua esperienza al Toca hai spesso utilizzato ingredienti locali, quelli freschi (carne, pesce, verdure) ma anche prodotti come il “rypsiölijy” , che un Vero Italiano spesso valuta come un prodotto di qualità secondaria, rispetto all’Evo. Come lo spieghi oggi agli italiani?

Personalmente non ho bisogno dell’approvazione del Vero Italiano che si indigna, come spesso e volentieri fanno questi fantomatici mariti multimediali reagendo a qualcosa che la propria compagna straniera fa. Io faccio lo chef se vogliamo definirlo così, ma non do solo ordini, cucino anche, e una cosa che il mio mestiere mi ha insegnato è l’approccio umile e il conseguente confronto verso quello che non si conosce, la sete di sapere e quindi la voglia di scoprire nuove cose. In breve se dovessimo redigere un dizionario sul perchè uso un olio più delicato rispetto ad uno più robusto, la ragione sta nell’uso che ne faccio e nel contesto in cui lo uso, e se questo non è sufficiente come risposta non ne conosco altre e francamente me ne frego del giudizio dei puristi. Io sono Napoletano ma non faccio la pizza, non seguo il calcio e non bevo caffè, eppure neanche per un secondo chi mi conosce mette in dubbio la mia identità.

Elina Valoranta

Vent’anni dopo, trovi che l’offerta dei ristoranti e pizzerie che si definiscono “italiani” in Finlandia sia migliorata? In quali aspetti? E se invece è peggiorata, sotto quali altri aspetti?

Migliorata assolutamente. Mi rifaccio a quanto detto prima, il consumismo ha portato a una nuova generazione di ristoranti e ristoratori in Finlandia, da qui l’aspetto positivo di riuscire a trovare prodotti che fino ad un paio d’anni fa sembravano solo un miraggio, tuttavia in tutte le nuove ondate sarà il tempo a definire quanti di questi avranno la forza e la voglia di continuare il percorso intrapreso.

I clienti finlandesi. Come sono cambiati? Qual è il tuo parere sulla loro evoluzione nel gusto? Quanto hanno imparato? E quanto possono “insegnare” anche a chi fa cucina all’italiana?

Credo che come tutte le cose anche i clienti abbiamo subito un’evoluzione in Finlandia come nel resto del mondo, le persone mangiano in maniera più consapevole rispetto al passato, hanno definitivamente un bagaglio culturale più ampio, più che insegnare direi ai miei colleghi di ascoltare… potrebbero imparare qualcosa a prescindere che si parli di cucina o meno.

Ti lascio dire a chi ci legge cosa auguri alla cucina italiana in Finlandia, e a te stesso.

Marcello D’Orta tra le tante pubblicazioni ha scritto uno dei libro che ha maggiormente segnato la mia adolescenza. Ecco, nel titolo del libro c’è la sintesi della nostra chiacchierata. Quello che auguro alla cucina e a me stesso è che “io speriamo che me la cavo”.

Grazie, a presto, spero.

Nicola Rainò
Giornalista, traduttore letterario, studioso di lingua italiana e storia dell'arte. Emigra dal Salento a Bologna per studi, poi a Helsinki per vivere. Decise di fondare La Rondine una buia notte dell'inverno del 2002 dopo una serata all'opera.