Viva gli spiriti!, ovvero Gli artisti benemeriti del cimitero Liboc-Vokovice e l’arte sepolcrale locale
Nella vallata di Šárka, al di sopra della piscina naturale di Džbán e poco prima del capolinea del tram, fermata Divoká Šárka, è ubicato il cimitero di Liboc-Vokovice, fondato a cavallo del XIX e del XX secolo. Si compone di un totale di sei sezioni, separate da mura. Qui sono sepolti principalmente i residenti di Vokovice, Veleslavín e Liboc. Di fronte all’ingresso principale si estende il prato per la dispersione delle ceneri, intorno il boschetto delle urne, e lungo le mura settentrionali, orientali e meridionali di questa sezione troviamo i colombari. A differenza di necropoli come Olšany, Vyšehrad o Malvazinky, qui non riposano centinaia e nemmeno decine di Geni della nostra nazione. Eppure anche qui ne troviamo almeno alcuni che il vecchio regime onorò col titolo di Artista benemerito, e che questa qualifica, che oggi forse ha un significato leggermente peggiorativo, la meritarono davvero.
Entrando dal cancello principale e girando a sinistra verso il boschetto delle urne, reparto B, ci si imbatte nel tumulo della famiglia Cafourek (precisamente il numero 154 BUH), occupata dal famoso scrittore di libri per bambini, ai quali poi si sono ispirati i popolari programmi televisivi per i più piccoli, Pohádky z mechu a kapradí (Le fiabe di muschio e felce), O makové panence a motýlu Emanuelovi (La bambolina di papavero e la farfalla Emanuel), Říkání o víle Amálce (Le storielle della ninfa Amálka), O vodníku Česílkovi (Česílko, l’omino delle acque), O hajném Robátkovi a jelenu Větrníkovi (Il guardacaccia Bimbino e il cervo Girandola), Cesty formana Šejtročka (I viaggi del carriettere Šejtroček), e quello che probabilmente è il più famoso di tutti, O loupežníku Rumcajsovi (Il brigante Rumcajs). Stiamo parlando, naturalmente, di Václav Čtvrtek (4.4.1911 – 6.11.1976), il quale in origine si chiamava Václav Cafourek, ed è per questo motivo che con lui riposano, ad eccezione di una sola persona col cognome Čtvrtková, sua moglie Vlasta, cinque salme che portano il suo cognome originario. La tomba è piuttosto modesta, e sotto il nome Václav Čtvrtek troviamo la semplice iscrizione “scrittore”.
Nativo di Praga, durante la prima guerra mondiale, quando suo padre, di professione contabile, fu trasferito al fronte, andò a vivere insieme alla madre a Jičín, dai nonni, e frequentò la scuola locale. Alla fine della guerra, la famiglia si ritrasferì a Praga. Václav Cafourek, però, non dimenticò mai quel periodo della sua fanciullezza, e la città di Jičín, al contrario, diventò teatro di molte delle sue celebri fiabe. Da adolescente Václav Cafourek frequentò la sezione degli scout guidata dal noto ermetico (autore di molti studi in questo campo) e patriota dr. Jan Kefer (del quale ho scritto in relazione al cimitero Malvazinky), il quale, durante l’occupazione, fu torturato a morte in un campo di concentramento. Václav Cafourek trascorse un totale di 16 anni lavorando da impiegato. Come scrittore esordì a venticinque anni e durante il Protettorato, nel 1940, pubblicò il suo primo libro, il romanzo umoristico Whitehorse a dítě s pihou (Whitehorse e il bambino con la lentiggine), usando lo pseudonimo Hugo Prattler. Su richiesta del figlio Petr, durante il servizio militare a Děčín, nel 1945 iniziò a scrivere opere per bambini, trovando così il campo a lui più congeniale.
Il giovane Cafourek s’inventò lo pseudonimo Čtvrtek nel 1946, a quanto pare perché nato il 4.4. (in ceco ‘čtyři’ indica il numero quattro) e ufficialmente cambiò cognome nel 1959. Uno dei primi illustratori dei libri di Čtvrtek fu l’autore di fama mondiale del personaggio Ferda Mravenec (Ferda la formica), Ondřej Sekora; vale anche la pena di ricordare l’altra loro opera comune, Kolotoč v Africe (Carosello in Africa). Fu allora che Václav Čtvrtek iniziò a collaborare con molte riviste per bambini e con la radio, dove lavorava sua moglie. Dal 1960 fu scrittore freelance. In radio partecipò alla creazione del leggendario programma Hajaja, e in televisione, poi, nel non meno leggendario programma per bambini Večerníček (Le storielle della buona notte). Collaborò con molti artisti di spicco, ad esempio Cyril Bouda, Radek Pilař, Zdeňek Smetana. Chi non conosce il ciabattino ribelle e in seguito bandito Rumcajs, sua moglie Manka e il loro figlio Piccoletto, che vivevano in una grotta della foresta di Řáholec presso Jičín? Rumcajs raccolse gloria non solo in Europa, ma anche ad esempio in Giappone. Ed è per questo che Václav Čtvrtek merita davvero il titolo di Artista benemerito conferitogli nel 1975, quando divenne anche cittadino onorario della città di Jičín. Poté godere delle meritate onoreficenze ben poco; l’anno successivo morì, all’età di 65 anni.
L’ultimo indirizzo di Václav Čtvrtek fu il complesso edilizio Červený vrch a poche fermate di tram dal cimitero dove è sepolto. La sua eredità, però, continua a vivere, oltre che nei libri e nei cartoni animati televisivi, anche, ad esempio, nella sua amata Jičín. A parte la Galleria Radek Pilař e Václav Čtvrtek sita nel locale castello, in onore del più grande scrittore ceco moderno di fiabe, di questo Andersen ceco, ogni anno si tiene il festival Jičín – Città da favola.
Nello stesso reparto, scendendo un paio di vialetti, di nuovo a sinistra troviamo la tomba di Václav Fiala (15.6.1896-25.6.1980) e di sua moglie Marijana, precisamente la n. 24 BUH. Sotto il nome compare la scritta “pittore e incisore”, ma il nostro fu anche scrittore e grande viaggiatore. Nacque a Praga e da giovane condusse una vita avventurosa. Trascorse due anni studiando pittura a Vienna, quindi si trasferì con i genitori in Russia, dove frequentò le scuole d’arte a Kharkov e San Pietroburgo. Durante la guerra mondiale e quella civile ricevette la cittadinanza russa, e prese a girare per la Russia in varie uniformi: un po’ con quella rossa, un po’ con quella bianca. Si guadagnò la vita lavorando tra l’altro come restauratore di affreschi delle chiese o come insegnante di francese. A Vladivostok fece conoscenza con i Futuristi, tra cui il famoso David Burliuk, prendendone in moglie la sorella Marijana. Quindi si recò in Giappone, dove realizzò numerose mostre collettive, proprio insieme a Burliuk. E ancora: visitò il Pacifico e, infine, all’inizio degli anni 1920 tornò a casa, dove studiò con Max Švabinský e abbracciò il Realismo moderno.
Come scrittore, Václav Fiala esordì nel 1928 con un piccolo diario di viaggio autobiografico Ogasawara, che egli stesso accompagnò con venti illustrazioni. Il libro è dedicato al professor Švabinský e descrive il periodo a cavallo tra il 1920 e il 1921, quando, dopo una mostra collettiva a Kyoto, l’autore, sua moglie e suo cognato si recarono nelle isole Bonin, il cui nome originale giapponese dà per l’appunto il titolo al libro. Questa compagnia si intrattenne a lungo soprattutto sull’isola di Chichijima, dove entrambi i cognati si dedicarono diligentemente alla pittura. Burliuk (nel libro omonimo) lì prese a scrivere addirittura delle poesie. Lo stile letterario frondoso di Václav Fiala non manca di svelare la sua identità originale di pittore. Le descrizioni colorite delle ricche bellezze naturali dell’isola sono spesso intervallate dalle curiose usanze della popolazione locale, e a volte rasentano la comicità: “Spesso i cittadini passeggiano un’ora o più con lo spazzolino in bocca, e magari lo tengono anche quando vanno a far visita a qualcuno. Un adagio caratterizza la causa di questa pulizia scrupolosa: Il Samurai forse non ha mangiato, ma tiene con orgoglio in bocca lo spazzolino da denti (per rassicurare gli altri di aver pranzato, in quanto è troppo orgoglioso per dare a vedere la sua povertà)”. Non manca nemmeno una breve descrizione del cimitero dell’isola: “Davanti ad ogni lapide c’è un tavolino, una ciotola di porcellana con un po’ di riso e dal vasetto di bambù spuntano i fiori rossi dei gigli.”
Nel 1936, Václav Fiala si ricollega al suo debutto letterario con il libro Kaaran-Tamo, člověk s měsíce (Kaaran-Tamo, l’uomo con la luna), da lui anche illustrato. La storia è ambientata, di nuovo, in uno dei suoi luoghi preferiti, il Pacifico, in questo caso, però, si tratta di un romanzo di viaggio sui motivi dei diari del prominente viaggiatore russo Nikolai Nikolaievich Miklukho-Maklaj. Fu il primo europeo a sbarcare volontariamente nel 1871 sulle coste della Nuova Guinea e con le popolazioni indigene di Papua, che vivevano come all’età della pietra e a volte mangiavano i loro nemici, instaurò delle relazioni amichevoli e mappò la loro cultura. In diversi punti, l’autore si aiuta con citazioni dai diari di Maklaj. Ancora oggi dal punto di vista del lettore si può parlare di un libro di viaggio ben scritto e istruttivo.
Tuttavia, il nucleo dell’opera di Václav Fiala consiste principalmente di arte. Poco dopo il suo ritorno in patria diventò un illustratore molto richiesto, e i suoi lavori accompagnarono i libri di autori come Erben, Neruda, Gogol e Alois Jirásek. In aggiunta, illustrò anche libri per bambini, come Staré řecké báje a pověsti (Antichi miti e leggende greci), senza perdere l’intensità di espressione. Ad esempio, la sua rappresentazione espressivamente naturalistica di Koschei l’Immortale e Baba Yaga, nel libro russo di fiabe Krása nesmírná (Immensa bellezza), ancor oggi è da brividi! Nel corso della sua lunga vita illustrò un totale di 155 libri. Inoltre, si dedicò anche alla creazione di ex libris e silografie. Nel 1967 ricevette il titolo di Artista benemerito. Václav Fiala visse fino alla rispettabile età di 84 anni, la moglie Marijana gli sopravvisse di due anni.
Nel colombario del muro perimetrale a nord del cimitero (numero D 35-977) sonnecchia il suo eterno sogno un altro gigante, di nome Cortés. Non si tratta del famoso conquistatore del Messico Hernando Cortés, ma del cantante ceco Rudolf Cortés (15.3. 1921 – 12.12. 1986), il cui baritono vellutato ha piacevolmente intrattenuto l’udito delle nostre nonne e madri, e fin dai primi anni Quaranta del secolo scorso fu per almeno 30 anni altrettanto famoso come il suo omonimo più anziano. Lo testimonia il poemetto di Martin Promyka del 1957, intitolato Dva dobyvatelé (Due conquistatori):
A ferro e fuoco il Messico langue
Cortés l’ha preso con cenere, sangue.
L’altro Cortés la cultura più aggrada
e prevale così senza fuoco, né spada.
Sulla lastra del colombario, oltre al nome non troviamo nessuna iscrizione che ricordi la disciplina artistica in cui Cortés eccelse. Ma andiamo con ordine. Rudolf Cortés era figlio del bottaio di Plzeň Rudolf Kraisinger, il quale era arrivato dal Sud America, dove aveva soggiornato per qualche tempo per lavoro, in compagnia della moglie Mercedes Cortés, figlia di immigrati spagnoli. Purtroppo, quando il giovane Rudolf aveva cinque anni, suo padre morì e sua madre si ritrovò, col suo ceco rudimentale, a dover fronteggiare problemi esistenziali, dovendo, inoltre, provvedere anche al fratello minore di Rudolf, Oscar. Per queste ragioni, il piccolo Rudolf finì in orfanotrofio, dove rimase fino all’età di diciotto anni. Studiò da apprendista pellicciaio, ma fu presto attratto dalla carriera di cantante. I prerequisiti li aveva, ed infatti diversi insegnanti privati di canto, deliziati dal tono della sua voce, presero ad insegnargli gratuitamente. Durante il Protettorato, fece parte di vari cori, sempre usando il cognome della madre, e alla fine della guerra per un po’ cantò anche all’opera. Ufficialmente prese il nome Cortés solo nel 1955. Fatale, nel senso positivo della parola, si rivelò per lui l’affiliazione all’orchestra jazz di Karel Vlach, grazie alla quale la sua popolarità ben presto crebbe. Così iniziò ad incidere canzoni per la radio e su dischi fonografici. Nel 1945 si sposò e dalla moglie Dagmar ebbe un figlio, Rudolf, e una figlia, Dáša. La sua figura di gagà snello e imponente (era alto un metro e novanta) iniziò a farsi strada anche al teatro e al cinema.
Dal marzo 1948 e per tre anni di fila, brillò al Teatro musicale di Karlín nella commedia musicale di Voskovec e Werich Divotvorný hrnec (La pentola miracolosa), nella quale interpretò il ruolo principale dell’amoroso Woody. Sempre al Karlín recitò nel ruolo principale di Brdečka nella parodia western Limonádový Joe (Joe Limonata). Nell’adattamento cinematografico di qualche anno più tardi, purtroppo, partecipò soltanto con un cameo, peraltro muto, nel ruolo di un pistolero. Prese parte anche ai musical di Vítězslav Nezval Schovávaná na schodech (Nascosta sulle scale)e Tři mušketýři (I tre moschettieri). Per inciso, Rudolf Cortés tenne per 32 anni un diario e a proposito della sua relazione con Nezval possiamo leggere sul famoso poeta, per esempio, quanto segue: 21 marzo 1953 Questo mese abbiamo iniziato a provare I tre moschettieri di Nezval. I versi sono meravigliosi e la lingua ceca davvero raffinata, e ogni volta che li leggo mi chiedo sempre come sia possibile che un tale mascalzone, avaro ecc. sia capace di scrivere una tale magnificenza.
Meno di un mese più tardi, con l’approssimarsi della première del lavoro di Nezval, nota ancora sul suo diario: Ha già chiamato ognuno di noi “sabotatore”, anche se sono tutti lì a lavorare come matti, perché ne hanno paura. È un uomo vendicativo, e personalmente pericoloso. (È un mascalzone.)
Rudolf Cortés, durante la sua quasi quarantennale carriera, registrò più di trecento canzoni. A caso possiamo citare, Byl jeden Číňánek (C’era un Cinesino), Čím víc tě mám rád (E più ti amo), Váš dům šel spát (La vostra casa ora riposa). Forse il suo più grande successo fu la canzone americana Ďáblovo stádo (Il branco del diavolo, in originale Ghost Riders In The Sky), che da allora è stata ripresa da molti altri interpreti. La maggior parte di queste canzoni uscirono solo come SP (singolo) o EP (maxi singolo), o con canzoni di altri cantanti in compilation (LP), divenute popolari sono in seguito. Per il suo primo album indipendente, Rudolf Cortés dovette aspettare la parte finale della sua carriera, l’anno 1978.
Nel 1965, Rudolf Cortés si risposò e da sua moglie Alena ebbe un altro figlio, David. Tre anni dopo ebbe un altro grande successo, ancora una volta al Teatro musicale Karlín, come protagonista del musical Muž jménem La Mancha (Un uomo di nome La Mancha). Purtroppo, l’invasione di agosto della Cecoslovacchia da parte dei paesi amici segnò profondamente Rudolf Cortés. E poiché oltre che in Unione Sovietica, Polonia, Ungheria e Germania dell’Est era molto popolare anche in Austria, si trasferì con la famiglia per qualche tempo a Vienna. Tornò in Cecoslovacchia all’inizio del periodo di normalizzazione.
Per quel che riguarda i suoi ruoli cinematografici, nella più famosa fiaba ceca Pyšná princezna (La principessa superba) interpretò un boscaiolo cantante, in Transport z ráje (Trasporto dal paradiso) un soldato delle SS e in Kdyby tisíc klarinetů (E se mille clarinetti) il capomusica. Il suo ultimo film fu Romance za korunu (Romanza per una corona) del 1975. Tre anni più tardi fu insignito del titolo di Artista benemerito. Già allora era segnato da una malattia molto insidiosa – l’Alzheimer. Così trascorse gli ultimi anni in una casa di cura psichiatrica a Krásná Lípa, vicino a Rumburk. Per la crudele ironia della sorte, nella parte finale della sua vita non ricordava di essere stato un cantante, né riusciva a riconoscere le sue canzoni.
Oltre al già citato trio di benemeriti, nel cimitero Liboc-Vokovice troviamo anche diversi altri artisti citati nel libro di Petr Kovařík Klíč k pražským hřbitovům (La chiave dei cimiteri di Praga). Tuttavia, questo testo tratta volutamente solo di quelli che il suddetto autore ha dimenticato di menzionare nel suo libro. Per quel che riguarda l’ultimo personaggio di una certa notorietà (ma non artista benemerita), non si tratta però di una dimenticanza da parte di Petr Kovařík, in quanto l’artista in questione venne sepolta lì successivamente alla pubblicazione del tomo; in aggiunta, i suoi resti ormai non riposano più nel cimitero di Liboc-Vokovice. Se vi sentite un po’ confusi e non sapete di chi si tratti o cosa intenda dire, nelle righe che seguono vi fornirò una spiegazione completa.
Ricordate la fantasmina Leontýnka Brtníková del film Ať žijí duchové! (Viva i fantasmi!), la sua danza sui prati e la canzoncina sulle malinconiche elegie? L’attrice che interpretò questo ruolo fu Dana Vávrová (9.8. 1967 – 5.2. 2009), ed è sepolta nel boschetto delle urne nel reparto D. Il personaggio di Leontýnka lo interpertò a nove anni e fu il suo primo ruolo cinematografico. Presto ottenne altri ruoli, questa volta in serie televisive: nella fiaba Arabella l’abbiamo ammirata come Cappuccetto Rosso, recitò anche nel telefilm di fantascienza Bambinot o nella serie di riflessioni sull’educazione socialista dell’epoca My všichni školou povinní (Tutti noi dell’obbligo scolastico). Relativamente presto sposò il regista tedesco Joseph Vilsmaier, nel cui epico film di guerra Stalingrado, del 1992, interpretò la protagonista femminile Irina. Diresse anche quattro film. Morì prematuramente a soli 41 anni di cancro.
Nonostante la volontà della famiglia, il suo funerale nel cimitero di Liboc-Vokovice non fu affatto privato, e invece di una tranquilla cerimonia, si assisté purtroppo alla partecipazione di una notevole quantità di estranei, compresi i giornalisti dei tabloid sensazionalistici. Gli eredi di Dana Vávrová furono a tal punto disgustati dall’accaduto che decisero in seguito di trasferire altrove i suoi resti.
I cimiteri sono spesso associati agli spiriti dei morti. Non ho mai visto nessuno spirito nel cimitero di Liboc-Vokovice, almeno non di giorno, e non è un posto che visito dopo l’orario di chiusura. Naturalmente, non ho modo di sapere se di notte gli spiriti degli artisti benemeriti prendano vita, se Václav Čtvrtek non scriva un nuovo libro di fiabe assiso sulla lapide della sua tomba, se Václav Fiala non ne sia l’illustratore, se non sia messo in musica e cantato da Rudolf Cortés e se Dana Vávrová nel costume di Leontýnka Brtníková non accompagni il tutto con le sue danze.
Per quel che riguarda le sculture sepolcrali del cimitero locale, dobbiamo ammettere che non sono un granché. A parte le classiche crocifissioni e alcune statue o sculture religiose, davvero non c’è molto da aggiungere. Fa eccezione la tomba n. 43 nel reparto Veleslavín III della famiglia Zetek, situata sotto la cappella, la sesta dall’alto scendendo il viale principale. Sulla lapide sotto la croce vi è la statua di una bambina con uno sguardo triste stampato sul volto.
La pietra usata, purtroppo, è arenaria, e per questo motivo in alcuni punti è pesantemente danneggiata, soprattutto laddove si trova l’iscrizione della persona tumulata. Tuttavia, è evidente che qui nel 1914 fu sepolta una bambina, Helenka. Ciò è dimostrato anche dalla malinconica poesia ancora leggibile nella parte inferiore della lapide:
Un fiore di bellezza più che rara
la custodimmo come un dono prezioso,
la vita della nostra Helenka cara,
non ne evitammo il destino odioso.
Un’altra statua molto simile a quella della bambina, ma ancor più danneggiata, si trova nel reparto Vokovice I, sulla tomba n. L 106 delle famiglie Semrád e Šimůnek. Probabilmente è opera dello stesso scultore o della stessa bottega di pietra scolpita. L’iscrizione sulla lapide è abbastanza leggibile, qui riposano due ragazze Růženka e Klára Semrádová, morte nel 1917; c’è anche una fotografia che le ritrae insieme e questi due versi:
Dormire un dolce sonno eterno
tra i fiori come sul grembo paterno.
Forse la scultura più bizzarra di questo cimitero la troviamo nel reparto Veleslavín I, sopra la cappella alla tomba n. 69 delle famiglie Fáber e Kadlec (scendendo il viale principale, l’undicesimo luogo di sepoltura). Probabilmente anche questo tumulo accoglie un bambino, come sembrerebbe indicare la statua di un ragazzino vestito da marinaretto, di colore argento. Secondo la testimonianza dei becchini locali, la statua è stata colorata successivamente. Probabilmente originò durante la Prima Repubblica o il Protettorato, sulla lapide non ci sono date. Il marinaretto argenteo in pantaloncini poggia la testa sulla mano destra e la gamba destra accavalla la sinistra in maniera quasi noncurante. L’espressione assente su un viso poco fanciullesco dà l’impressione di guardare oltre questo mondo.
Una straordinaria opera sepolcrale la si può ammirare nel reparto Veleslavín II, sulla tomba di František Meissner (n. 118). Si tratta di un rilievo di oltre un metro raffigurante una donna con un ramoscello nella mano destra, la mano sinistra sotto al cuore, probabilmente creata alla fine della prima guerra mondiale (le date di morte sono danneggiate, e quindi difficili da leggere; l’intera tomba è purtroppo di materiale di qualità scadente, forse terrazzo). Nei tratti del viso della donna vi è qualcosa di primitivo ed espressivo allo stesso tempo, forse l’autore fu influenzato dal cubismo, allora molto popolare e dall’arte dei popoli africani. Personalmente il rilievo mi ricorda l’opera di Otto Guttfreund.
Forse la scultura più poetica, più recente, meglio riuscita e di maggior valore artistico appare quella situata nel boschetto delle urne del reparto D, tomba n. 169 (a) delle famiglie Kozelský e Báča.
Anche in questo caso si tratta di una donna, che col foulard si asciuga una lacrima dall’occhio sinistro. Apparentemente, fu creata poco prima del novembre 1989 o poco dopo, come testimonierebbero le date dei sepolti. Purtroppo, nemmeno con la collaborazione dell’Amministrazione dei cimiteri di Praga sono riuscito a risalire all’autore della suddetta scultura. Il compito di mappare gli autori dell’arte ceca sepolcrale del XX secolo lo lascio, perciò, agli storici dell’arte di professione.
Nel boschetto delle urne, reparto D, troviamo anche tre tumuli adiacenti con le vittime di un disastro aereo. Sulla tomba n. 65 c’è una fotografia di una giovane donna sorridente con la scritta “La nostra Helenka – Hostess ČSA”. La tomba n. 66 è decorata con un’incisione ritraente un uomo sorridente nel fiore degli anni con la scritta Ladislav Kučera, navigatore di bordo ČSA. Questa commemorazione collettiva di un equipaggio aereo è conclusa dalla tomba n. 67, abbellita dall’incisione di un velivolo con la scritta Miloslav Prokeš, meccanico di bordo ČSA. Morto tragicamente in un incidente aereo a Tripoli il 1 giugno 1970 all’età di 38 anni.
Per fortuna, non tutti gli epitaffi del cimitero locale sono altrettanto drastici, e questo è un bene. Ad esempio, non manca il senso dell’umorismo alla famiglia Křížek, la cui tomba n. 11 nel reparto Veleslavín I sopra la cappella è molto popolare proprio a causa dell’iscrizione stoica sulla lapide, che provoca un sorriso incredulo. Vi chiedete cosa possa esserci scritto di così divertente in un posto tanto cupo? Semplicemente: Un ultimo sorso e andiamo. E così facciamo anche noi.
L’ultimo rifugio di J. Arbes e di altri candidati all’esistenza, ovvero La società dei poeti estinti nel cimitero Malvazinky
Il colle maestoso che sovrasta il quartiere praghese di Smíchov prese il nome, nella prima metà del XVII secolo, dal borghese Tomáš Malvazi, il quale vi fece costruire un casale, nell’area che ospitava un ampio vigneto. Svatý Xaverius (San Saverio), il famoso romaneto (romanzo breve utopistico-scientifico) di Arbes, fu pubblicato la prima volta nel 1873. Una parte significativa della sua storia crittogrammatica è ambientata per l’appunto nell’area in questione, vale a dire in quel luogo dove tre anni dopo sorgerà il cimitero omonimo, ancor oggi in funzione (e che tra l’altro, per grandezza, è il quarto cimitero di Praga). Al momento della sua costruzione, tuttavia, Smíchov era soltanto un sobborgo di Praga, della quale entrerà a far parte amministrativamente solo nei primi anni del XX secolo.
Nativo di Smíchov, di cui fu ardente patriota, e scrittore di ammalianti romanzi brevi, Jakub Arbes (12 giugno 1840 – 8 aprile 1914) ebbe e continua ad avere un rapporto fatidico col cimitero Malvazinky. Sul percorso che va dall’ingresso principale alla chiesa dei Santi Filippo e Giacomo (precisamente nel reparto A-I, tomba 127) è infatti lui stesso sepolto con la sua famiglia. Sulla targa in rilievo con il ritratto dello scrittore, ad opera dello scultore František Vokálek su disegno del pittore Robert Vacík, troviamo una scritta in qualche modo sorprendente: J. Arbes. L’assenza del nome di battesimo, o meglio la presenza della sola iniziale, non è però espressione della povertà dei familiari del defunto (dopo tutto, sulla tomba si staglia una statua alta più di due metri raffigurante l’Angelo della Pace, ad opera di di Josef Strachovský), quanto piuttosto una piccola curiosità: ad Arbes, infatti, non piaceva il suo nome di battesimo. Per questo stesso motivo, le opere che pubblicò in vita portano unicamente la stessa iniziale che ritroviamo nel luogo della sua ultima dimora.
Nonostante un significativo talento letterario (o forse proprio per questo?) e la vasta mole di opere pubblicate, Arbes visse gran parte della sua vita in povertà, e coniò per se stesso il termine “candidato all’esistenza.” Le sue novelle, fosche e misteriose, alle quali il suo collega più anziano Jan Neruda dette il nome di romaneto, sono piene di descrizione topografiche precise del luogo in cui visse e, in generale, di altri elementi autobiografici. Arbes predilige la narrazione in prima persona e molti protagonisti delle sue opere sono il suo alter ego, come del resto da lui apertamente ammesso. L’autore riesce a sposare abilmente queste sue esperienze e realia con un’atmosfera magistralmente narrativa, d’orrore sognante, senza alcun taglio netto visibile.
Punto di partenza del suo romanzo breve Svatý Xaverius, che si svolge, dal punto di vista dell’autore, in un recente passato (probabilmente tra il 1865 e il 1868), è l’immagine di San Saverio morente, ad opera del pittore Balko, presente nella chiesa di San Nicola del quartiere praghese di Malá Strana. Ed è proprio qui, a chiesa chiusa, che il narratore (l’alter ego di Arbes) incontra il protagonista, il quale ha dedicato infinite ore di studio all’immagine succitata. Approfittando della conoscenza personale di sua nonna con l’autore del dipinto, e basandosi sulle lettere di quest’ultimo scritte prima della sua morte, il protagonista è convinto che la sua vita avrà una svolta fortunata, poiché: “A chi si arma di perseveranza e volontà di ferro, San Saverio rivelerà un tesoro inestimabile”. Memento del romaneto è la frase dell’artista da una lettera custodita da due generazioni di antenati del protagonista: “Mancherai lo scopo della vita, scegliendo un percorso diverso!” Il pittore alla fine della sua vita pensa che quello sia proprio il caso suo. Il personaggio principale, che prende il nome da san Saverio e che lo ricorda anche nei tratti, rende partecipe la voce narrante di questo strano collegamento familiare; stringono quindi amicizia ed insieme iniziano le ricerche. Infine, il personaggio principale crede di aver trovato la chiave del mistero. Usando dei punti specifici dell’immagine di San Saverio riesce a disegnare una mappa che dovrebbe indicare il luogo del tesoro. In una “notte di luce selenica” i due amici si dirigono verso il luogo in questione, appena fuori Praga e più precisamente al suddetto Malvazinky. Attraversate la Via cimiteriale e la porta Oujezda, che all’epoca delimitava Praga, arrivano al colle e al chiaro di luna iniziano a scavare nel punto che, a loro parere, il pittore Balko ha designato a luogo del tesoro. Trovano, però, soltanto alcune pietre geologicamente interessanti, ma per via dell’influenza di un’illusione ottica l’eroe principale viene colto da un attacco isterico e dall’allucinazione dell’apparizione di San Saverio, e conseguentemente fugge lontano non solo da Malvazinky, ma anche da Praga, senza lasciare traccia. La voce narrante lo scorgerà per l’ultima volta la stessa sera, in fuga per il vecchio cimitero ebraico di Radlice.
L’incontro casuale dei due amici, avvenuto dopo vari anni, è molto triste, in quanto si svolge mentre i due sono agli arresti a Vienna, dove il narratore era finito per aver dato alle stampe un giornale patriottico (avvenimento reale della vita di Arbes: per i suoi articoli e per aver diretto il Giornale nazionale, fu condannato dalla magistratura austro-ungarica a quindici mesi di reclusione, pena che espiò negli anni 1873-4 a Česká Lípa). Ed è proprio nella città austriaca che il personaggio principale, Saverio, muore di tubercolosi. Prima, però, riesce a confidare all’amico la conclusione alla quale era giunto relativamente a San Saverio, e cioè che non esiste alcun tesoro, e che il pittore Balko aveva in mente una ricchezza spirituale, una sorta di idea di un mondo migliore “che avrebbe portato alla salvezza di milioni di persone…” Per il lettore sorge spontanea una domanda, vale a dire se l’eroe principale non realizzi il memento del pittore, se la ricerca continua dei segreti dell’immagine di San Saverio non l’abbia forse sviato dall’obiettivo della sua vita. Questo suo viaggio, apparentemente inutile, può anche ricordare l’eterna ricerca della pietra filosofale da parte degli antichi alchimisti, o il tentativo di scoprire l’elisir di lunga vita. Quell’ideale irrealizzabile per il quale molti avventurieri sacrificano lo status sociale e, alla fine, persino la vita.
Gli abitanti del quartiere di Smíchov ebbero in gran stima il patriottismo di Arbes e i più istruiti di loro ebbero anche una certa familiarità con il suo lavoro. Per questo motivo, probabilmente, la strada che fronteggia la parete nord del cimitero Malvazinky è detta appunto Xaveriova. Un tributo ancora più importante di quello per Malvazinky, Arbes lo rivolse ad un’altra parte del quartiere di Smíchov, al confine con quello di Košíře, vale a dire al cimitero di Malá Strana, dove la sepoltura non è più consentita fin dal 1884. Questo omaggio è contenuto in un altro romaneto, intitolato Vymírající hřbitov (Il cimitero morente). Nell’introduzione, l’autore ricorda come da ragazzino andasse al cimitero per giocarvi con il figlio del becchino, lanciando pietre contro la lapide di un gesuita, dalla quale si alzava un suono ammaliante ogni volta che veniva colpita. Un ruolo non trascurabile della storia è quello giocato dalla monumentale tomba commemorativa del cardinale Thun-Hohenstein, ad opera dello scultore Václav Prachner. La storia di questo romaneto, comunque, si sviluppa un po’ alla volta in tutt’altra direzione, e nel finale si trasforma sostanzialmente in una storia relativamente profana di amore non corrisposto tra persone di classi sociali più alte, e quindi non credo sia necessario dilungarsi oltre su questi avvenimenti.
Ma torniamo al cimitero Malvazinky. Jakub Arbes non è l’unico degli scrittori famosi indigenti, o al loro tempo considerati marginali, che vi hanno trovato accoglienza. Vi dimora, ad esempio, anche un altro celebre “candidato all’esistenza”, il peculiare filosofo, drammaturgo, amante della birra e scrittore Ladislav Klíma (22 agosto 1878, Domažlice – 19 aprile 1928, Praga) a suo tempo del tutto incompreso, i cui testi (ad esempio, Velký román (Un grande romanzo), Lidská tragikomedie (La tragicommedia umana), Utrpení knížete Sternenhocha (La Sofferenza del principe Sternenhoch) e altri) però, dopo quasi mezzo secolo influenzarono fortemente il movimento underground ceco. Con una triste iperbole potremmo dire che la vita di Klíma fu formata dalla morte, non già la sua ma quella dei suoi cari. Già durante la sua infanzia, sotto i colpi della Grande falciatrice caddero sua madre e la stragrande maggioranza dei suoi numerosi fratelli. È probabile che questa fosse la ragione per la quale osò criticare l’allora famiglia regnante degli Asburgo a tal punto da essere espulso, prima di aver conseguito la maturità, da tutti gli istituti educativi austro-ungarici, e successivamente interdetto a vita persino dagli studi universitari classici. Ma la cosa non toccò Klíma più di tanto. Visse grazie al sussidio fornitogli dal padre e, alla sua morte, sperperando i caritatevoli contributi offertigli dagli amici e dalle sue amanti, perseguì un’istruzione privata. Mai provò a condurre un’esistenza convenzionale, né fu coinvolto nel processo lavorativo. L’influenza più grande su di lui fu quella esercitata dalla filosofia di Arthur Schopenhaeur e Friedrich Nieztsche. Partendo da questa, arrivò poi ad un punto di vista filosofico personale: l’egodeiso e il ludibrionismo. Anche se morì già nel 1928 a cinquant’anni (naturalmente di tubercolosi, anche se pagò dazio pure alla sua dipendenza dall’alcol e dal tabacco), fu sepolto nel cimitero Malvazinky solo molto più tardi. Infatti, dopo la sua morte, l’urna con le sue ceneri fu custodita per un po’ dalla sua amante, Kamila Lososová, nata Švagrovská, la quale diventò anche l’amministratrice e la prima originale editrice della maggior parte delle opere manoscritte di Klíma. Soltanto poco prima della sua scomparsa nell’estate del 1951, le ceneri del filosofo furono sepolte nella tomba di famiglia della sua compagna (settore C-I, tomba 189). Su richiesta di Kamila Švagrovská, davanti all’imponente lapide familiare fu posta una scultura in pietra raffigurante un libro aperto, sulle cui pagine troviamo a lettere dorate il nome dell’autore e le iscrizioni filosofo e scrittore.
Oltre alla tomba di Klíma, nel cimitero Malvazinky riposano le cosiddette Tre grandi K. Anche se, durante la sua vita, il filosofo mantenne una certa distanza dall’ermetismo e dall’occultismo, ebbe un consistente seguito tra i seguaci di queste scienze. Per puro caso, di fronte al suo luogo di sepoltura, oltre il vialetto, nel settore D-I, troviamo come prima la tomba della seconda grande K; trattasi del famoso ermetico ceco, astrologo, redattore della rivista Logos e traduttore in ceco del Libro tibetano dei morti Phdr. Jan Kefer (31 gennaio 1906, Nový Bydžov – 3 dicembre 1941, Flossenbürg) che divenne secondo presidente di Universalia, la società degli ermetici cechi, fondata originariamente col nome di Associazione libera dei militanti dell’occulto nel 1920. Questa società fu molto attiva durante la Prima repubblica per quel che riguarda la pubblicazione di letteratura ermetica e conferenze su occultismo, filosofia e mitologia. L’opera più importante di Jan Kefer, Praktická astrologie (Astrologia pratica), pubblicata nel 1939 col sottotitolo “L’arte della previsione e la lotta contro il destino,” così come Syntetická Magie (Magia sintetica), furono ripubblicate dopo il 1989 dall’eclettico artista Vladislav Zadrobílek alias D. Ž Bor, per i tipi Trigon, la casa editrice ceca da lui guidata. La reputazione di Kefer superò le frontiere a tal punto che Hitler in persone espresse interesse ad includerlo nel suo famigerato commando astrale! Kefer, però, che da patriota preparava (purtroppo senza alcun successo) una sorta di attentato stellare contro i nazisti, rifiutò l’offerta; al che venne arrestato dalla Gestapo e, dopo essere stato interrogato e torturato, deportato nel campo di concentramento di Flossenbürg, dove lavorò nella cava. E fu proprio lì che, a seguito di una polmonite fulminante, morì alla fine del 1941. Non molto tempo dopo, per le conseguenze di strazianti e ripetuti interrogatori della Gestapo e per il dolore e lo stress costanti, morì anche sua moglie Dagmar, nata Moosová, nella cui tomba di famiglia la coppia fu poi finalmente riunita. Nel caso di Jan Kefer è interessante notare come sulla lapide sia stato scolpito erroneamente il suo nome di battesimo: invece di Jan leggiamo Josef. Un altro faux pas di cui è rimasto vittima, almeno dal mio punto di vista, è il modo in cui ne è stata onorata la memoria da parte della città di Praga. Lo scorso anno, il rappresentante della circoscrizione 5 di Praga, dove Kefer visse, celebrò il suo ricordo ponendo sulla tomba una pietra proveniente dalla cava del campo di concentramento di Flossenbürg, vale a dire dal luogo dove l’ermetico aveva lavorato in condizioni talmente disumane da morirne! La pietra porta il numero 1941, ovvero l’anno in cui Kefer morì. Personalmente, ritengo che si tratti di un atto alquanto infelice, e non sono sicuro se lo stesso defunto approvi un tale gesto.
Infine, nello stesso vialetto, ma undici tombe più avanti (nella fattispecie alla numero 251) riposa l’ultimo dei tre grandi K. – “l’anima gotica”, editore della rivista Moderní revue, il poeta decadente, redattore della rivista Occulto e spirituale, lo scrittore, traduttore ed editore Jiří Karásek ze Lvovic (per inciso, morto nello stesso anno di Kamila Lososová). La tomba non presenta alcuna lapide verticale ed è delimitata da ferro battuto decorativo. Sulla grande pietra posata in terra, possiamo leggere l’epitaffio del padre di Karásek, in latino. Sopra è posta una pietra più piccola, con le sole iniziali di Karásek ze Lvovic e l’iscrizione poeta e scrittore. Del grande trio dei K., fu il primo a nascere e l’ultimo ad andarsene, alla veneranda età di 80 anni. È interessante notare che, così come Il cimitero morente e San Saverio di Arbes, anche il “romanzo” di Karásek (come dimensioni piuttosto una novella o un romaneto alla Arbes) Zastřený obraz (Il dipinto sfocato) è ambientato nei quartieri di Smíchov e Malá Strana, e addirittura nel cimitero di quest’ultimo. Anche il leitmotiv del Dipinto sfocato è un quadro esposto in chiesa e l’amore tra persone di alto ceto. In questo caso, però, si tratta di un amore perverso (un giovane marchese inizia una relazione incestuosa con la sorella nella tenuta di famiglia, poi fugge via da lei recandosi a Praga dove si suiciderà. Sua sorella, sentendosi colpevole, entrerà in un convento).
Ritornando al movimento underground ceco a cui facevo riferimento in precedenza, in questo cimitero ne troviamo un’ampia rappresentanza. Prima di tutto, la tomba comune del filosofo e firmatario di Charta 77 Milan Machovec (23 agosto 1925 – 15 gennaio 2003) e del poeta, scrittore, filosofo e maggior guru dell’underground cecoslovacco, e paradossalmente anche agente di lunga data della polizia segreta ceca StB, Egon Bondy (pseudonimo di Zbyněk Fišer (20 gennaio 1930, Praga – 9 aprile 2007, Bratislava), insieme alle loro donne fatali (settore G I, numero 65). Come in Boemia spesso accade, Bondy fu vittima dell’autodafé, essendosi addormentato con la sigaretta accesa; morì in seguito in ospedale per le gravi ustioni riportate. Poco lontana è la tomba di un altro poeta underground Milan Koch (3 ottobre 1948 – 18 novembre 1974). Anima pura, “capellone” e vagabondo ma anche traduttore di poesie dal famoso poeta beat Allen Ginsberg e studente di hindi, avrebbe voluto, insieme alla moglie, andare a lavorare in India, ma scomparve tragicamente nell’autunno del 1974 a solo ventisei anni, investito da un tram. La moglie Mirka Kochová (28 luglio 1950 – 8 giugno 1975) fu completamente devastata dalla sua morte e decise di seguire la sorte del marito prima possibile. Trascorse sette mesi a ricopiare a macchina le raccolte manoscritte di poesie del consorte e, terminata l’ultima, si tolse la vita col gas, venendo poi sepolta accanto a lui (settore H I, N. 37).
Interessante è l’amicizia tra Milan Koch ed Egon Bondy. Nella raccolta di poesie di quest’ultimo, intitolata Sbírečka (Raccoltina, 1974), troviamo la dedica “al pazzo Koch e a Magor Jirous”. In cinque delle quindici poesie contenutevi, compare esplicitamente il nome Koch. Una di queste, intitolata Co mi vyprávěl Koch (Cosa mi ha raccontato Koch) è apparentemente ispirata ai racconti di quest’ultimo. Il personaggio di Milan Koch appare anche nella poesia culto della suddetta raccolta Sbírečka, intitolata Magické noci počal čas (Di notte magica è tempo già):
Di notte magica è tempo già
Viviamo a Praga, che poi vuol dire
Questa poesia è diventata una canzone di culto grazie alla sua messa in musica da parte del più importante gruppo musicale cecoslovacco di underground, Plastic People Of The Universe. Di notte magica è uscita nel loro album contenente le canzoni degli anni 1974-1975, intitolato Egon Bondy´s Happy Hearts Club Banned (il nome è una parafrasi dell’album dei Beatles Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band. La presenza della parola “Banned” invece di “Band” rievoca giustamente il triste periodo dei divieti nell’allora Cecoslovacchia). L’album, ovviamente, non poté uscire ufficialmente negli anni del regime comunista, ma veniva registrato illegalmente dai suoi fan. In Francia, però, vide la luce ufficialmente nel 1978, e nell’allora Cecoslovacchia soltanto dopo la caduta del comunismo (1989). I Plastic people accompagnarono anche Milan Koch nel suo ultimo viaggio. Insieme all’altra band leggendaria, i DG 307, suonarono il pezzo Očišťování (Purificazione) e il suo autore, Pavel Zajíček, gettò poi nella tomba di Koch il manoscritto di questa canzone. Fu lo stesso Egon Bondy a tenere l’elogio funebre. Dopo il suicidio di Mirka Kochová, lo stesso poeta le dedicò un’intera raccolta, intitolata appunto Mirka, e il cantante e bassista dei Plastic people, Milan Mejla Hlavsa (6 marzo 1951, Praha – 5 gennaio 2001, Praha), mise in musica una delle poesie di quella raccolta, Muchomůrky bílé (Ovoli bianchi), già famosa come canzone da campeggio:
Se disperati è facile perder la testa
Ovoli bianchi, funghi di foresta
Ovolo bianco candida purezza
lo divoro, voglio tenerezza
Qui non mi sveglio ma nell’altro mondo
d’estate cerco il suo cappello tondo
La band, però, si rifiutò di suonare questa canzone (considerandola eccessivamente melodica e pop), e Hlavsa poté suonarla soltanto nel 1982 con il gruppo Garáž (Garage) e successivamente con la sua nuova band Půlnoc (Mezzanotte). La canzone Ovoli bianchi aveva per Hlavsa un significato molto personale, in quanto il musicista la scrisse quando frequentava Mirka Koch, prima che questa incontrasse il suo futuro marito. Ed il cerchio underground del cimitero Malvazinky si chiude, in quanto Hlavsa, morto per un tumore a quasi cinquant’anni, è anch’egli sepolto qui. Sulla sua tomba (settore A II, n° 185) troviamo una chitarra basso in miniatura, le sigarette e un bicchiere. Per inciso, fu proprio Egon Bondy a far conoscere a Hlavsa e agli altri componenti del gruppo le opere di Ladislav Klíma, che poi la band mise in musica magistralmente nell’album Jak bude po smrti (Come sarà dopo la morte) del 1979. (Come nota personale, l’autore di questo scritto vorrebbe aggiungere di aver conosciuto personalmente Mejla Hlavsa nel 1995, quando ebbe l’occasione di incontrarlo per un intervista al mensile letterario samizdat Karpatské příčiny (Le ragioni dei Carpazi), ripubblicata nel gennaio 2001 sulla rivista mensile online Dobrá adresa (Giusto indirizzo): http://www. dobraadresa.cz/2001/DA01_01.pdf.)
Lo stesso Bondy considerò a lungo la questione del luogo del suo ultimo riposo, come dimostrano questi versi di una sua poesia senza titolo, datata 7.12.1982, vale a dire circa un quarto di secolo prima della sua morte:
al posto della birra prendo medicine
già sento che la morte mi si afferra
con tosse, artrite mi spinge sottoterra
riposo a Malvazinky con Klíma, mio fratello
scuoto un po’ le gambe, ultimo fardello
Età, tubercolosi, tortura, incidente, tumore, sono le cause dei decessi di cui abbiamo parlato. Manca solo il suicidio. E nel cimitero Malvazinky troviamo diversi poeti suicidi. Ad esempio, il poeta, regista teatrale, attore e direttore artistico del teatro Na Zábradlí Petr Lébl (settore U III, tomba n. 150), il quale, nonostante la brillante carriera, nel dicembre 1999, all’età di trentaquattro anni, si impiccò alla graticcia del teatro, sperando forse di comparire un’ultima volta sulla scena; il cadavere, però, fu scoperto soltanto dopo lo spettacolo. Otto anni prima di morire, Petr Lébl aveva scritto la seguente poesia senza titolo:
proprio all’inizio potersi allontanare
scoprir la via che porta a laghi muti
attraversar la terra che ognuno brucia
poter ascoltare il silenzio da vicino
lasciare tutti e mai più voltarsi
posare il viso in là, in mezzo ai fiori
nuotare col silenzio d’acqua sulle ali
scoprire il lago quieto e taciturno
E forse Petr Lébl riuscì finalmente a trovar pace. Un altro poeta, morto di propria mano e qui sepolto è Ladislav Landa (settore C I, tomba N. 121), un beatnick ceco di talento, il quale incontrò anche Allen Ginsberg. Il 4 giugno 1965, sulla base di false accuse di furto e per la conseguente minaccia di esclusione dalla scuola secondaria, si avvelenò a soli diciassette anni. Una antologia postuma della sua poesia è intitolata Malá slabost v kolenou, snad si na mě vzpomenou (Una piccola fiacchezza alle ginocchia, forse si ricorderanno di me). Per l’appunto, spero e credo che leggendo questo testo, saranno in molti a ricordare Ladislav Landa, Petr Lébl, Mejla Hlavsa, Milan e Mirka Koch, Egon Bondy, Milan Machovec, Jiří Karásek ze Lvovic, Jan Kefer, Ladislav Klíma e J. Arbes.
Arte sepolcrale, monumenti storici e misteri del cimitero di Bubeneč
Il cimitero Bubeneč, aperto dal 1888, si estende nelle prossimità di quella che un tempo fu la stazione ferroviaria locale, dirimpetto all’ospedale Chitussi, più precisamente accanto all’Ufficio della proprietà industriale in via Antonín Čermák numero 84/2. Appena superato il cancello d’ingresso, troviamo immediatamente sulla destra una costruzione bassa, che ospita gli uffici amministrativi del camposanto, mentre sul retro sorge la cappella. Alle sue spalle, a meno di venti metri, nell’angolo destro troviamo lo spogliatoio del personale addetto, la cui parte superiore fungeva in passato da obitorio. A sinistra del cancello si staglia l’edificio a due piani del vecchio ospizio, che serve ancora il suo scopo, anche se oggi viene chiamato casa rifugio per gli uomini. Da lì non vi è nessun accesso al cimitero. La necropoli è a forma di rettangolo regolare, al cui centro vi è un muro che lo divide longitudinalmente in due parti: la parte più antica, Bubeneč I, e quella più recente, Bubeneč II. All’inizio e alla fine di questa parete separatoria, delle aperture da ambo i lati ne permettono il passaggio.
Il terreno poi procede in leggera salita con viali di tigli e aceri, e al centro di entrambe le aree troviamo un monumento di circa cinque metri raffigurante il Cristo crocifisso; si tratta quindi di due statue identiche. Chi ne è l’autore? Questo è il primo mistero, al quale non siamo riusciti a dare risposta.
Entrando nel cimitero, sul lato destro del viale principale, all’altezza di un tiglio e accanto a un contenitore e all’insegna Bubeneč 1 Reparto 1, vi è una tomba con la sorprendente scritta Kasimír 1947-1988 e sua madre 1882-1925 (il numero di tomba si scorge a malapena, forse si tratta del 32). Sopra la lapide c’è una targa dov’è raffigurato un uomo barbuto col capo chino per il dolore, forse Cristo martirizzato. Chi fu, tuttavia, Casimiro e chi sua madre? Chi è l’autore dell’opera? Rimane un mistero.
Nel viale trasversale dello stesso reparto troviamo un tumulo ricoperto d’erba (quarta tomba dal basso, il numero è illeggibile, forse è il 63). Sulla lapide troneggia la scultura molto elaborata di una vecchietta di circa mezzo metro, la quale tiene una colomba nella mano destra, che si china per beccare del cibo dalla palma sinistra della nonnina. Alla base della scultura l’iscrizione La nostra cara madre. Gli autori di quest’opera sono il duo di scultori di pietra František Vejs (nato il 21.11.1871 a Hořice, la data di morte è sconosciuta) e Josef Deyl (nato il 19.03.1889 a Třemešná u Hořic, anche nel suo caso non è nota la data di morte). Sulla parte posteriore della scultura troviamo incisi i nomi di entrambi i diplomati della Scuola professionale per tagliapietre e scultori di Hořice. Vejs studiò sotto la guida del professor Mořic Černil nel 1889, Deyl di Václav Suchomel nel 1907. Molto probabilmente l’opera fu scolpita durante la Prima Repubblica. Ma chi era questa vecchietta e cara madre, quale fosse il suo nome e a chi appartiene questa tomba? Altro mistero.
Salendo il vialetto, si arriva al reparto successivo. A sinistra dell’albero con la scritta Bubeneč Reparto 4, la prima tomba (n. 28) appartiene alle famiglie Zach, Hajný e Židlický. Sulla lapide, il busto di un vecchio con i baffi e un accenno di sorriso. Sotto, l’iscrizione Jan Zach scultore Nato a Slaný 27.7.1914 Morto a Crater Lake, Oregon, U.S.A. 27.8.1986. Probabilmente si tratta di un tardo autoritratto dello scultore, di una certa naiveté. Il suo sorriso somiglia a quello misterioso di Monna Lisa.
Di fronte, pochi passi a destra, nell’angolo del reparto n. 3 troviamo la tomba n. 1 delle famiglie Aust e Lanc, decorata con una targa in bronzo e un rilievo di un vecchio col naso adunco, la bocca tirata giù e un doppio mento molto pronunciato, o gozzo. Il ritratto dà l’impressione di qualcosa di grottesco o perfino caricaturale. La scritta sul lato destro della plaquette ci informa che è il ritratto di un certo Alois Aust. Al contrario, nella parte sinistra troviamo la firma dell’autore e la data del completamento dell’opera: A. Sopr 1956. Ma chi erano questi due Alois? Forse l’ennesimo mistero? Nient’affatto!
Alois Aust (26.9. 1889 – 11.11. 1961) fu compositore e direttore d’orchestra, spesso usò lo pseudonimo di Ladislav Opatovický. Compose più di trecento canzoni, la maggior parte del suo ricco repertorio risale al periodo della Prima Repubblica. Con la sua orchestra eseguiva, componeva e registrava dischi grammofoni di ampio repertorio: canzoni nazionali, folk e tramp, composizioni bandistiche ma anche per l’Organizzazione sportiva cecoslovacca. Basta citare i nomi dei brani da lui composti, come Tyršův tělocvik v obrazech (L’esercizio fisico di Tyrš in immagini), Na stráž bratři! (prostná cvičení mužů) (In guardia, fratelli! (esercizi a corpo libero per gli uomini), Pluj lodičko (Vele al vento, barchetta), Až budem kdesi v dáli (Quando giungeremo lì lontano). Alois Aust apparentemente fu persona di umore allegro, in quanto anche compositore della commedia di Ladislav Žilinský Svět na rozcestí (Il mondo a un bivio). Musicò anche un’opera basata su canzoni popolari della regione morava sud-occidentale, Ondráš e Maryna. Forse la sua composizione più importante, tuttora un grande successo, è Za tou naší garáží (Dietro il nostro garage). Non sono in grado, tuttavia, di confermare che sia anche l’autore della musica per la versione cantata dal gruppo musicale Šlapeto. Aust-Opatovický fu ancora relativamente attivo durante il Protettorato, dopo la seconda guerra mondiale, però, lentamente ma inesorabilmente andò scomparendo dalla scena artistica. Sulla quale, al contrario, fece il suo ingresso l’autore del già citato peculiare ritratto del compositore, Alois Sopr (18.3.1913 – 25.7.1993), scultore e medaglista originario della provincia di Plzeň. Studiò all’Accademia delle Arti Applicate e delle Belle Arti di Praga, fu membro dell’Unione degli artisti figurativi Mánes e del Gruppo 58. I suoi ritratti spesso avevano dei tratti talmente comici da renderli inservibili, e quindi vennero rimossi, pur essendo nello spirito di gratificante celebrazione dell’era e del regime comunista.
Il cimitero di Bubeneč, soprattutto la prima parte, in generale è molto ricca di compositori e musicisti. Lasciando Alois Aust e tornando al reparto 4, davanti al busto dello scultore Zach, un paio di tombe più in alto (precisamente la numero 34), troviamo altri musicisti. Qui riposa il suo sonno eterno Emanuel Štorkán (1850-1926), artista dell’arpa, come indicato sulla lapide. Accanto all’incisione col nome è incollata una fotografia di un vecchio signore coi baffi che stringe nella mano lo strumento musicale in questione. Insieme a lui è sepolta Vojtěška Toušlová (1889-1982), accanto al cui nome risalta la semplice iscrizione musicista.
Nel piccolo reparto successivo, il numero 5, tra le tombe più imponenti troviamo quella monumentale della famiglia Borkovec (di nuovo, il numero non è chiaramente visibile, forse è l’11), in cui riposa il compositore e pedagogo Pavel Borkovec (10.6.1894 – 22.7.1972). Borkovec studiò al Conservatorio di Praga con Josef Suk. A partire dal 1946, insegnò per più di venti anni all’Accademia musicale di Praga. Compose, ad esempio, l’opera Paleček a Satyr (Pollicino e il satiro) ed è autore di numerose composizioni per quartetti d’archi e balletti. La tomba è decorata con un rilievo di circa un metro, raffigurante una giovane donna con i capelli fluenti e dei fiori nella mano. Visibile è la firma che certifica l’opera del celebre scultore e restauratore Čeňek Vosmík (5.4.1860 – 11.4.1944), allievo del famoso Myslbek. Nato ad Humpolec, a Praga imparò il mestiere di carradore. Tuttavia, negli anni 1886-1888 studiò presso l’Accademia di Belle Arti di Vienna, e fu assistente di Myslbek non solo per il monumento di San Venceslao. Le sue sculture monumentali adornano l’area del mercato di Praga (L’uomo con il toro), la Cattedrale di San Vito (Cristo nel deserto) e la stazione centrale di Fanta, sempre a Praga (I geni che abbracciano il globo terrestre). Si dedicò, però, anche alla scultura sepolcrale, come dimostra appunto il monumento della famiglia Borkovec.
Tra l’altro, subito accanto alla tomba dei Borkovec (probabilmente la numero 10) è incisa sul sepolcro l’effigie di un uomo anziano con la scritta Karel Fink, proprietario del Panopticon (1882-1950). Non sappiamo dove fosse situato il suo museo delle cere e delle stranezze, né che fine abbia fatto dopo il 1948, o se eventualmente sia stato ripristinato nel 1989.
Dall’altro lato della tomba di Borkovec, su quella della famiglia Černý e di Antonín Hora troviamo una statua a grandezza naturale di una suora, le mani congiunte in preghiera, probabilmente creata a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Sotto il suo piede destro vi è un frammento di firma … RABA (ma potrebbe essere anche RADA), scultore. Forse Hadraba o Rada? Non ne siamo certi. Quello che sappiamo di sicuro, invece, è che poco oltre, nel reparto 7 (tomba n. 29) ha trovato l’ultima dimora la famiglia di musicisti roma dei Gondolán, molto popolare soprattutto nel periodo antecedente il novembre 1989. Nel reparto opposto, il numero 8 (tomba n. 60) riposa Bohumil Kulínský il vecchio (25. 8. 1910 – 11. 4. 1988), direttore di coro, insegnante di musica, e fondatore del gruppo corale giovanile Bambini di Praga, da lui codiretto insieme alla moglie Blanka. Nel 1977, il figlio dei Kulínský prese il posto dei genitori; in seguito fu accusato di scandali sessuali con i membri minorenni di questo coro, ma questa è un’altra storia.
Torniamo, però, al reparto 3, dove si cela un altro grande mistero. Nella tomba n. 32 riposa Arnošt Burget (7. 8. 1928, sulla lapide si legge: morto all’età di 84 anni), giornalista, redattore editoriale e ufficiale, forse dell’Esercito popolare cecoslovacco, forse della Pubblica sicurezza, non sappiamo. Tuttavia, nel libro Zápisky motoristovy (Note automobilistiche), pubblicato nel 1959 dalla casa editrice Naše vojsko (La nostra armata), troviamo nel colofone la seguente indicazione: Redattore capitano Arnošt Burget. All’incirca 20 anni fa, quando fondai con l’amico R. S. Vronsky una rivista letteraria, decidemmo di prendere consigli da questo giornalista veterano. Non ricordo più chi ci avesse raccomandato Arnošt Burget, a quel tempo già in pensione. Comunque, l’incontrammo e discutemmo piacevolmente. E se non ricordo male, il suo consiglio finale per noi fu di non concretizzare affatto questo nostro progetto. Pubblicammo sei numeri di Karpatské příčiny – měsíčník pro geniální (Le ragioni dei Carpazi – mensile per i geniali) prima di convenire che avremmo dovuto dare ascolto al capitano Burget, e finimmo così per chiudere la rivista. Dopo questo nostro antico incontro non l’ho mai più visto, ma ho sentito parlare di lui. Molti anni dopo, il mio amico e allora becchino del cimitero di Bubeneč, Miloslav Vojtíšek (per inciso, vincitore per due volte del Premio Alfréd Radok per le opere teatrali originali, meglio noto con lo pseudonimo di S.d.Ch.) mi mostrò la sua tomba. Allora il capitano era ancora vivo. La tomba l’aveva acquistata di recente ma, mi dissero, gli dava fastidio che contenesse ancora i resti dei precedenti proprietari. Tuttavia, si rifiutava di pagare l’esumazione, e così i resti erano rimasti nella loro dimora. Una mattina, però, gli addetti al cimitero trovarono ossa e teschi sparsi per i vialetti, e anche la lapide della tomba di Burget era stata spostata, cosa che li convinse a telefonare immediatamente alla polizia. La quale equivocò e, credendo si trattasse di resti “freschi”, inviò immediatamente al cimitero l’URNA, ovvero l’Unità di reazione neutralizzazione e assalto. Invece di cadaveri freschi trovarono scheletri secolari, che vennero catalogati prima di essere trasferiti altrove. Il capitano Burget fu interrogato, in quanto proprietario della tomba saccheggiata, ma il caso fu chiuso e il reo rimase sconosciuto. Ecco un altro mistero! Nel 2012, in questa ultima dimora profanata si trasferì lo stesso Arnošt Burget. Speriamo che riuscirà ad avere miglior fortuna rispetto agli ex residenti della tomba locale, e che le sue spoglie nei prossimi millenni non finiscano in modo altrettanto indegno.
Al reparto 9, sulla tomba numero 11 di Karel Frolík (1865-1912), troviamo una scultura davvero notevole e a prima vista sconcertante. In basso a destra un leone a bocca aperta con lo sguardo puntato verso la lapide con le iscrizioni dei morti, digrignante, e a sinistra una placca con il motivo dei ramoscelli e la scritta Bubeneč. Dalla placca si dipartono altri ramoscelli fino alle iscrizioni. Nella parte superiore del monumento è appollaiato, poi, un predatore aquilino. Il re degli animali in basso probabilmente simboleggia il leone ceco, sul punto di assalire l’aquila imperiale e regale austriaca; così, almeno pensavo: macché! L’aquila austriaca è a due teste, mentre il rapace in questione ha un becco solo. Poi guardando più da vicino l’uccello, cosa vedo? Tra gli artigli, un manubrio! E così giungo alla conclusione che il defunto, oltre ad essere un patriota locale, era anche stato un fiero membro del movimento sportivo Všesokolská jednota bratrská (Comunità dei fratelli falconi). Almeno questo enigma l’ho risolto. Ma consideriamo un po’ più da vicino il simbolo del falcone, aiutandoci con un passo del racconto Praha – optimistické líčení města ve čtyřech obrazech (Praga, ritratto ottimistico della città in quattro immagini), così come lo vedeva nell’aprile del 1907 Gustav Meyrink: “… arriva marciando l’ondata rossa. I ginnasti cechi, detti “falconi”, con una camicia rosso sangue ad indicarne la crudeltà, e con gli stivali a sottolinearne l’eleganza e l’agilità. Li precede una bandiera azzurra sventolante (gli europei gradiscono che qualcosa aleggi davanti a loro) con sopra l’emblema argenteo dell’educazione fisica slava: un falcone con il manubrio tra gli artigli. Poiché il falcone è e rimarrà sempre il simbolo più appropriato per gli atleti; cos’è a confronto la scimmia?! Chi di noi non ha ancora avuto l’opportunità di osservare i falconi che, quando tutto è tranquillo, zitti zitti si insinuano nel negozio di ferramenta e via, afferrano i manubri più pesanti e si sollevano dirigendosi verso casa, verso il nido inospitale delle rocce, per insegnare a casa alle loro femmine a sollevare i pesi. Che meraviglioso gioco della natura!” Resta solo da aggiungere che nella parte in basso a destra del monumento c’è la firma dello scultore e probabilmente il suo luogo di lavoro, il tutto solo parzialmente intatto. L’iscrizione l’ho decifrata come Zdeněk Vondra – Hořice. Ma potrebbe essere anche Zdeněk Vondrovic. Ancora una volta, dunque, probabilmente un laureato della Reale e imperiale scuola professionale di scultura, tagliapietre di Hořice. Purtroppo non sono riuscito a reperire altre informazioni su questa affascinante scultura.
Dal settembre scorso domina il reparto 10 una scultura di tre metri con un incavo al centro, lontanamente somigliante ad un frammento di un antico colonnato. Su questa tomba, la n. 61, tuttavia, non troviamo nessuna iscrizione dei defunti né il nome dell’autore di questo peculiare monumento. Forse l’ennesimo mistero? Non proprio. Fino all’estate scorsa qui non compariva alcuna dominante. Al suo posto vi era invece una lapide bassa con la scritta Karel Bodlák (3.11.1903 – 02.01.1989), educatore, poeta, filosofo e critico letterario ceco. Nativo di Soběslav, diplomatosi all’Istituto magistrale locale, si laureò in Pedagogia a Praga nel 1924. Nello stesso anno debuttò con la raccolta di poesie Elektrická džungle: Sloky a poznámky (La giungla elettrica: Strofe e note), pubblicata a proprie spese. Fu anche autore di critiche letterarie e saggi, apparsi sulla stampa del tempo. Da maestro insegnò lingua ceca, geografia e storia, oltre che a Praga anche a Kladno e in Rutenia. Nel periodo della Prima repubblica fondò con la moglie Jarmila la rivista letteraria Strom (Albero), la cui uscita, durante il Protettorato, fu bloccata dai Tedeschi. Bodlák partecipò alla resistenza anti-nazista. Dopo la guerra, insieme ad una dozzina di altri professori, ripristinò l’insegnamento nel liceo di Děčín. Tra il 1946 e il 1948 curò e pubblicò alcune opere di Ladislav Klíma, da cui fu fortemente influenzato (Vteřina a věčnost (Il secondo e l’eternità), Traktáty a diktáty (Trattati e dettati).Nella raccolta di saggi Ladislav Klíma, filosof básník (Ladislav Klíma, filosofo poeta) da lui redatta, pubblicò il suo studio Myšlenkový svět Ladislava Klímy (Il mondo delle idee di LadislavKlíma).
I resti di Karel Bodlák continuano a riposare nella tomba che tuttavia recentemente è stata acquistata da Ivan Mečl (nato nel 1969), critico d’arte, gallerista, proprietario della casa editrice Divus, editore della rivista Umělec (L’artista) e vincitore del Premio Věra Jirousová per l’anno 2013. Gode ancora di buona salute e non pianifica una morte imminente, ma ha comunque già deciso di diventare proprietario del loculo. Nel febbraio di quest’anno ha esposto nella sua galleria varie sculture di un artista contemporaneo e suo amico Martin Zet (09.11. 1959), laureato dell’Accademia di Belle Arti di Praga. E probabilmente, nel contesto dell’utilizzo dell’opera di Zet in uno spazio pubblico ha coltivato l’idea di acquistare una tomba ormai caduta in oblio (per coincidenza proprio quella di Bodlák) e lasciare costruire lì la statua in questione; ed è proprio quello che è successo.
Alla destra di quest’opera moderna si staglia una tuia poco più alta, mentre due tombe più avanti, sulla destra, troviamo una statua di pietra arenaria di circa un metro e mezzo raffigurante un angelo, con il braccio destro alzato e la mano mozzata, con una foglia di felce nella mano sinistra. Risale probabilmente a fine XIX, inizi XX secolo, di autore ignoto. In questa tomba n. 59 riposano le famiglie Vrťátko, Vejdělka e Krýsl. La vicinanza di tratti moderni e classici forma un contrasto interessante.
Vicino al muro perimetrale destro (reparto 13) troviamo la tomba n. 43 del pittore accademico Rudolf C. Kripner (28.8 1858 – 27.11 1924). La lapide è decorata in rilievo: un uomo mezzo calvo con i baffi, in là con gli anni, con un sorriso gentile, in giacca e cravatta. Nell’angolo in basso a destra è visibile la firma L. Houška, di cui purtroppo non sappiamo nulla. Chi era Rudolf Kripner? Nato a Příbram, studiò pittura presso l’Accademia di Praga. Le sue opere sono principalmente in campo figurale, la sua specialità furono le copie degli antichi maestri. Eseguì con successo il restauro di dipinti di varie chiese, ad esempio quella di San Ignazio. Ancora oggi, al Klementinum di Praga è possibile ammirare la sua pittura ad olio Podobizna Martina Středy (Ritratto di Martin Středa), eseguito per la residenza gesuita nella Città Nuova di Praga, nel 1903. Per inciso, la tomba dei suoi clienti della Compagnia di Gesù è a poca distanza da quella di Kripner, in direzione dell’angolo delle mura (tomba n. 54, nella fattispecie tripla). Qui riposano ventidue gesuiti.
Se ci trasferiamo nell’area Bubeneč II attraversando la zona superiore della prima parte del cimitero e ci dirigiamo a destra verso il reparto 12, troviamo sulla tomba n. 66 il busto di colore verde di un uomo maturo, un po’ scolorito. Eppure, i suoi tratti rimangono molto carismatici. La scritta decorativa ci informa che si tratta di un certo Olda Erben (1893-1935). Chi fu? Altro mistero. Fortunatamente, sul busto troviamo almeno la firma, dell’autore, Karel Kotrba (17.1.1893 – 11.8. 1938), compagno generazionale e forse amico di Erben. Dello scultore Kotrba sappiamo che fu membro di Umělecká beseda (Società artistica), Unione degli artisti Mánes, Unione degli artisti Myslbek, Unione degli artisti figurativi e del Gruppo sociale Ho-Ho-Ko-Ko! Studiò all’Accademia di Belle Arti di Praga sotto la guida del professore Španiel. Le sue opere sono nello spirito del civilismo sociale, oltre a ciò fu autore di ritratti di amici e numerose opere di architettura. Ed è tutto.
Tornando indietro di non molto, al reparto 13 (tomba n. 13) troviamo l’artista nazionale, attore e vero genio František Smolík (23.1.1891-26.1.1972), maestro nell’interpretare ruoli seri ma anche comici. Ricordiamo alcuni dei suoi personaggi cinematografici: un professore coraggioso nel dramma del periodo del Protettorato Vyšší princip (Il principio superiore), l’affascinante vecchietto della favola Obušku, z pytle ven (Randello, fuori dal sacco), un avvocato fallito, che a causa dell’infedeltà di sua moglie beve fino alla morte nel film Batalión (Battaglione; basato tra l’altro sulla vera storia dell’avvocato Uher). A differenza del personaggio di questo film, František Smolík fu molto fortunato: la moglie Milada Smolíková (18.10.1891 – 1.11.1972), anche lei attrice, meglio conosciuta per i suoi lavori teatrali, non lo lasciò, al contrario, riposa qui col marito per l’eternità (o meglio, finché qualcuno pagherà l’affitto del loculo).
In questa seconda parte del cimitero riposano diversi attori. Nel reparto 9 sulla tomba all’angolo (n. 102) troviamo l’urna con l’iscrizione Josef Kašpar Pražský (18. 8. 1860 – 18.7. 1930) – attore. Purtroppo non sappiamo null’altro di lui. Otto tombe più avanti, addentrandoci nel reparto, troviamo più informazioni. Alla numero 94, ha trovato l’ultima dimora un’attrice a suo tempo famosa – Irena Kačírková (24.3. 1925-26.10. 1985). Questa donna affascinante l’abbiamo potuta ammirare, ad esempio, nel ruolo della principessa Drahomíra nella fiaba Byl jednou jeden král (C’era una volta un re). Fu particolarmente attiva negli anni Sessanta, quando tra l’altro interpretò una professoressa nel popolare musical Starci na chmelu (I raccoglitori di luppolo) o nel film senza tempo di fantascienza Ikarie XB 1. Forse il suo ruolo più famoso fu quello di protagonista nella commedia Bílá paní (Dama bianca). Con František Smolík, recitò anche nel dramma sull’alcolismo Dnes naposled (Oggi per l’ultima volta). Nel 1967 fu insignita del titolo di Artista benemerita. Con l’avvento del “periodo di normalizzazione”, iniziò ad essere scomoda per il regime, e riuscì ad apparire soltanto sporadicamente in film e in televisione. Non si sposò mai, combatté il cancro per quattro lunghi anni, prima di soccombere. A proposito della professione di attore, dichiarò: “Gli scrittori, i pittori, i compositori, tutti possono rimandare il loro lavoro ad un momento più felice, quando non sono tormentati dal dolore fisico o mentale. L’attore non può. Anche se stanco morto, gravemente malato, è disposto a morire sul palco, perché lì è la sua vita! È lì che sono tutte le sue nascite, le sue sconfitte e i suoi successi, e anche la sua fine.”
Proprio accanto ad Irena Kačírková (tomba n. 96) riposa una vittima dell’occupazione della Cecoslovacchia da parte delle truppe dei “paesi amici”. Sulla lapide è inciso il ritratto di un simpatico giovinetto. L’iscrizione sotto di essa è più che eloquente: Ivan Laita – 15.5. 1950 – ucciso il 21.08. 1968.
Nello stesso reparto, ma sul viale principale, al centro della tomba n. 11 troviamo un piccolo plinto e su di esso il busto di gesso di un giovane somigliante ad un fauno o a qualche altro semidio. Nonostante le apparenze, qui è sepolto un comunista davvero zelante, Tomáš Řezáč (2.3.1935 – 10.9.1992) – prosatore, poeta, giornalista, propagandista e collaboratore estero della Polizia segreta, figlio dello scrittore Václav Řezáč e di Ema Řezáčová. Già durante il servizio militare obbligatorio fu assegnato al controspionaggio. Dopo l’agosto 1968 “emigrò” in Svizzera, dove condusse operazioni di spionaggio. Tornò in Cecoslovacchia nel 1975. Visitò spesso l’Unione Sovietica, e scrisse anche in russo. E proprio in questa lingua pubblicò un pamphlet contro lo scrittore Solzhenitsyn, dove questo ex prigioniero del Gulag e Premio Nobel per la letteratura viene descritto come un idiota di basso rango. Forse solo grazie a questa pasquinata a volte qualcuno ricorderà ancora questo autore, più che di fama, infame. La tomba è visitata spesso da una anziana signora di lingua russa, la quale vi ha fatto porre anche il busto di Řezáč. Si dice che sia opera del famoso scultore Jan Koblasa (5.10.1932), emigrato dopo il 1968, e che in gioventù pare sia stato suo amico. Il busto sembra sia stato modellato allora. Tuttavia non possiamo né confermare né smentire queste informazioni. Anche questo resta quindi un mistero, l’ennesimo.
Un altro scrittore, ma autore di testi strettamente specializzati, si trova nel reparto 15, vicino al muro che separa le due aree della necropoli, alla tomba n. 38. Michal Navrátil (21.8.1861 – 3.10. 1931) studiò legge, fu funzionario del Municipio di Praga, ma divenne noto soprattutto come patriota, filantropo, autore ed editore di biografie di personaggi importanti e altre opere (ad es. Adresář soudců v Čs. republice r. 1924, (Elenco dei giudici della Repubblica cecoslovacca del 1924), Almanach českých lékařů: s podobiznami a 1000 životopisy (Almanacco dei medici boemi: con ritratti e 1000 biografie), Dějiny kovářů na panství Vlašimském (Storia dei fabbri nella tenuta di Vlašim), Almanach československých právníků (Almanacco degli avvocati cecoslovacchi), Almanach českých lékařů (Almanacco dei medici boemi), Almanach sněmu království Českého (Almanacco della dieta del Regno boemo), Čeští lékaři v Americe (I medici boemi in America), e così via). Di questi opuscoli si dice ne avesse scritti circa 5000(!), oltre a contributi ad annuari, libri di ricordi, diari e riviste, ma anche all’Encyclopaedia Otto. In breve, laborioso come un’ape. La sua tomba di famiglia è decorata con un rilievo di circa un metro raffigurante una donna a capo chino seduta sulla lapide, il braccio destro poggiato su un libro con la parola FINIS, e nella mano due capsule di papavero, simbolo dell’oblio. L’autore di quest’opera rimane purtroppo sconosciuto.
Superato il crocifisso di cinque metri, inizia a destra il reparto 8. Subito nella prima tomba riposa il pittore, grafico, maestro di incisione e mezzatinta, docente presso l’Accademia di Belle Arti di Praga, fondatore e presidente dell’Associazione degli artisti grafici boemi Hollar Tavík František Šimon (13.5.1877 – 19.12.1942). Le sue opere consistono principalmente di vedute di Praga, New York e Parigi, influenzate dagli impressionisti francesi e dalle tecniche di stampa giapponesi. In sua compagnia è sepolto il figlio Pavel Šimon (16.6.1920 – 26.6 1958), anche lui pittore e grafico. Si dedicò soprattutto alla pittura libera, alla grafica e all’illustrazione. Anche le rispettive mogli riposano nella stessa tomba. Sulla lapide vi è una targa con un rilievo di T.F. Šimon ad opera del suo amico e compagno generazionale Josef Šejnosta (30.5. 1878 – 2.9 1941), che fu scultore accademico e medaglista. I suoi lavori, in totale, ammontano a oltre 300, di cui circa 200 medaglie. Si dedicò anche alla teoria e nel 1924 scrisse l’opera Problém pokroku v sochařství (Il problema del progresso nella scultura).
Nelle vicinanze, prima della croce gigantesca del reparto 5 e di fronte al grande contenitore, nella tomba doppia numero 7-8 riposa la famiglia Bouda. Il primo ad esservi sepolto fu Jaroslav Bouda (23.11.1898 – 5.7.1919), un talentuoso studente dell’accademia di pittura, figlio del professore di disegno Alois Bouda (25.1.1867-29.12.1934) e di Anna Boudová, nata Suchardová (23.10.1870 – 14.5.1940), della famosa famiglia di scultori e burattinai di Nová Paka. Vi si trova anche il fratello minore del prematuro defunto Jaroslav, Cyril Bouda, originario diKladno (14.11.1901 – 29.8.1984), il più famoso dell’intera famiglia di artisti, fantastico illustratore di un gran numero di libri, che nel 1976 fu insignito del titolo di Artista nazionale. Studiò Belle Arti sotto la guida di Max Švabinský, in seguito fu assistente di T. F. Šimon. Con il suo stile unico ed originale illustrò ad esempio Pražské legendy (Le leggende praghesi) di František Langer, Staré pověsti pražské (Antiche leggende praghesi) di Václav Cibula, Vandrovali vandrovníci (I raminghi raminganti) di Adolf Branald, Kocourkov (Il paese degli allocchi), ecc). Questa tomba di famiglia è decorata con una grande rilievo sepolcrale di un uomo con le braccia alzate e la testa rivolta verso l’alto con la scritta: “Possa la sua anima liberata dal corpo, dal mondo e dalla volta celeste trovar pace nell’armonia eterna”. L’autore di quest’opera, creata per Jaroslav Bouda, è il titano delle Belle Arti boeme, František Bílek (6.11.1872 – 13.10.1941), grafico, scultore, architetto, autore di arte applicata e simbolista del periodo Art Nouveau.
Nello stesso reparto (tomba n. 20) troviamo una tomba senza la cornice di pietra, e persino senza lapide. In questo loculo senza insegna, ricoperto di edera, riposa il compositore, chitarrista e armonicista Petr Kalandra (10.3.1950 – 7.9. 1995). Fece parte dei gruppi Marsyas, ASPM, Blues Session, fu un musicista molto ricercato, interprete anche delle canzoni per il film Tankový prapor (Il battaglione dei carristi). Morì prematuramente per le conseguenze di un incidente. Suo prozio era Záviš Kalandra, filosofo e filologo, critico teatrale e letterario, storico e giornalista e anche rappresentante del trotskismo nel Partito comunista cecoslovacco, da cui fu espulso negli anni Trenta; fu giustiziato nel 1950, a seguito di un processo farsa. A quel tempo, Petr Kalandra avevo solo 3 mesi. Záviš Kalandra, però, non riposa nella tomba in questione.
In un vialetto laterale (siamo sempre nel reparto 5) al sepolcro n. 73, troviamo Jaroslav Durych (2.12.1886 – 7.4.1962), medico militare, romanziere cattolico, poeta, drammaturgo e giornalista. Laureatosi in medicina a Praga nel 1913, dal momento che aveva usufruito di una borsa di studio militare, durante la prima guerra mondiale operò come medico militare ad Halič. Dopo il conflitto, aprì uno studio privato a Přerov, presto tornò in servizio nell’esercito cecoslovacco, raggiungendo il grado di colonnello. Dal momento che negli anni Trenta aveva sostenuto i fascisti spagnoli e criticato il pacifista Karel Čapek, il periodo successivo al 1948 non fu per Jaroslav Durych un letto di rose. Della sua ricchissima opera possiamo ricordare, ad esempio, la cosiddetta Velká a Malá valdštejnská trilogie (La piccola e grande trilogia di Wallenstein), quindi i romanzi storici Bloudění (Errabondo) e Rekviem. La tomba accoglie anche tre Marie, probabilmente la sorella, la moglie e la figlia.
Nel reparto 4, tomba n. 18, vi è un’urna con la scritta Lukáš Tomin (1963-1995) poeta. Dietro questa semplice iscrizione si cela un tragico destino. I suoi genitori furono signatari di Charta 77 e dissidenti: il filosofo Julius Tomin e la scrittrice e giornalista Zdena Tominová. Quando Lukáš Tomin aveva 16 anni, la polizia segreta lo costrinse a parlare. Disse tutto quello che sapeva di Charta 77 e delle attività di suo padre. Il regime lo obbligò ad emigrare, insieme ai genitori, in Inghilterra, dove poi lavorò presso l’Università di Oxford. Dopo il ritorno nella Repubblica ceca, Lukáš Tomin lavorò come traduttore e giornalista, e pubblicò due libri in inglese. A causa delle sue esperienze con la polizia segreta, soffriva di depressione, male che lo spinse a porre fine alla sua vita, saltando da un dirupo di Divoká Šárka.
Scendendo di pochi loculi, troviamo la tomba n. 2, decorata da una statua di una donna in piedi con il braccio destro piegato e la mano alzata in segno di saluto, al collo una croce. Con la mano sinistra tiene la tunica all’altezza della vita. L’impressione che offre è un po’ primitiva o ingenua. La tomba porta l’iscrizione Famiglia Dott. Křepelka, di cui non sappiamo nulla, purtroppo. Autore della statua è senza dubbio Jaroslav Hruška (9.5.1890 – 4.7.1954). Nativo di Plzeň, studiò dapprima presso la Scuola di Ceramica di Bechyně, quindi all’UMPRUM (Scuola di Arte industriale) di Praga. Negli anni Venti visse con la moglie a Parigi. Dopo la guerra ricevette il secondo premio per il progetto del monumento a Tyl, a Plzeň.
Nello stesso reparto, tomba n. 64, riposa un altro compositore e “falcone” allo stesso tempo: František Josef Pelz (1848 – 1922), autore dell’inno dei Falconi Lví silou (Con forza leonina), così si legge sulla lapide. La sua targa commemorativa si trova nella piazza di Hostivice vicino a Praga, dove trascorse gran parte della sua vita. Il brano fu vietato durante il regime nazista e quello comunista, e fu anche modificato più volte, fortunatamente dopo la morte del suo autore. Presentiamo qui al lettore almeno la prima strofa di questo frutto proibito:
Sembriam leoni noi falconi
quando in volo procediamo;
per la nostra cara patria
poi le forze immoliamo!
Anche quando la via è dura
il falcone non ha paura.
Sempre felici avanziamo,
c’attende la cara natura!
Ora però, lentamente, ci avviciniamo alla fine della nostra visita. Nel reparto II passiamo ancora accanto alla tomba n. 110, che ospita il pittore, grafico, illustratore e storico dell’arte, allievo di J. Preisler e M. Švabinský, Karel Tondl (2 Luglio 1893 – 3 febbraio 1980). Studiò l’arte del mosaico e dell’arazzo nelle botteghe artigiane del Vaticano, e in seguito fu professore della Scuola statale di Arti grafiche di Praga. Il fulcro del suo lavoro è rappresentato dalla grafica libera e dall’illustrazione di libri. Fu attivo anche in campo letterario e riuscì a conseguire il titolo di Artista emerito. Dalla sua tomba, giriamo a sinistra e prendiamo il passaggio che ci riporta al reparto Bubeneč I. Procedendo, costeggiamo sul lato destro l’edificio dell’ospizio e su quello sinistro il reparto 2, dove erano sepolti i bambini. Qui cattura la nostra attenzione la statua di una bambina con un fiocco tra i capelli e un cesto nella mano sinistra. L’iscrizione sulla tomba riporta: Libuška Hubáčková 17.3.1924 – 29.12.1926. Anche l’autore di quest’opera per noi rimane sconosciuto.
Così ci ritroviamo sulla strada principale vicino al tiglio e accanto al cassone metallico e alla scritta Bubeneč I. Reparto I, dove troviamo la tomba con la scritta a noi già familiare Kazimír 1947-1988 e sua madre 1882-1925. Ma chi era questo Kazimír? E sua madre? E l’autore di quest’opera? Nonostante la nostra visita relativamente dettagliata al cimitero di Bubeneč, non riusciamo a svelare questi misteri.
Traduzione dal ceco di Antonio Parente.
Le foto delle tombe sono dell’Autore.
Il “becchino assoluto” Viki Shock al lavoro (“mi scavo la fossa, così, per gioco…”)