Il 16 novembre ricorre l’anniversario della nascita di Arvid Järnefelt (Pulkkala, 1861 – Helsinki, 1932) e per l’occasione la casa editrice Vocifuoriscena presenta ai lettori italiani un classico della letteratura finlandese, Patria (Isänmaa 1893), romanzo d’esordio dello scrittore definito il “Tolstoj di Finlandia” per l’amicizia che lo legava allo scrittore russo e per la sua personale adesione al tolstoismo, orientamento che lo portò, all’apice della sua carriera di narratore e avvocato, a ritirarsi nella proprietà di Rantala (Lohja) per vivere dei frutti della terra, continuando fino alla morte a difendere, con la penna e con la voce, i diritti degli ultimi.
Arvid Järnefelt nacque in una delle famiglie che ebbero più influenza sul mondo letterario e artistico della Finlandia di fine Ottocento: il padre August Alexander, tenente generale dell’esercito imperiale russo, topografo, governatore, membro della Dieta e senatore, era discendente di nobili tedeschi arrivati in Finlandia durante la grande guerra del Nord e la madre, Elisabeth Clodt von Jürgensburg, anch’ella di estrazione aristocratica, fu animatrice culturale e fondatrice di un salotto frequentato da studenti radicali, intellettuali e scrittori tra cui il giovane Juhani Aho. Tra i fratelli e le sorelle dello scrittore si annoverano il critico e traduttore Kasper (San Pietroburgo, 1859 – Mäntsälä, 1941), il pittore Eero (Viipuri, 1863 – Helsinki, 1937), il compositore Armas (Viipuri, 1869 – Stoccolma, 1958) e Aino, moglie del compositore Jean Sibelius.
Definito da Eino Leino “il nostro miglior romanzo intellettuale, il prodotto più prezioso della visione di un cittadino del mondo e di una cultura che è mente e cuore”, Patria è un Bildungsroman generazionale, un distillato autobiografico dell’esperienza di un risveglio civile nel quale, a un certo punto, ideali e istanze identitarie (un mondo studentesco descritto quasi come un ordine cavalleresco) vengono messe in discussione da un “paladino del proprio futuro” che, attraversando un lungo tormento interiore, costantemente tra due fuochi come il Wilhelm Meister di Goethe, sceglie senza condizionamenti l’amore per l’umano.
La vicenda inizia con tono epico-rapsodico tratteggiando uno dei topoi della tradizione letteraria finlandese, quello delle stirpi che si guardano di traverso e delle due famiglie separate dalla storia (il ciclo di Kullervo nel Kalevala o i Racconti di un medico militare di Zacharias Topelius): la comunità rurale di Niemelä, attratta dall’industria e dalle opportunità del progresso, e quella più retriva di Vuorela, il cui padre padrone ha la sola preoccupazione di vedere Heikki, unico figlio naturale, proseguire il suo lavoro sui campi aviti. Sollecitato dal prete (nel secondo Ottocento la chiesa ebbe un ruolo centrale nella diffusione della scuola pubblica), Vuorela decide di mandare Heikki a studiare a Helsinki, più per orgoglio e senso di rivalsa verso Niemelä che per sincera urgenza educativa. Il giovane Vuorela, “estraneo al mondo” tra i contadini di casa quanto nelle spirali mondane della città (la raffinata ambientazione urbana risente dell’infuenza del romanzo breve “A Helsinki”, capolavoro di Juhani Aho pubblicato quattro anni prima), entra in contatto con gli studenti finnofili raccolti attorno alla figura del filosofo Johan Vilhelm Snellman e animati dal fermento socialista e nazionale, lasciandosi dapprima trascinare come una foglia al vento per poi comprendere gradualmente quanto la sua organica utopia abbia in fin dei conti poche affinità con l’elaborazione teorica e le aspirazioni politiche di una nazione ancora alle fondamenta.
Come ha osservato il critico Juhani Niemi, l’opera di Järnefelt, restituendo il concetto di patria (finlandese isänmaa) alla concretezza genealogica della patria potestas (isän maa, “terra del padre”) ha messo in luce una contraddizione della moderna dottrina nazionale che è, nella sua dettagliata attualità, il dilemma esistenziale del giovane Heikki: strappare le proprie radici dal podere di casa per partecipare all’esperienza collettiva, un’istituzione solidale e cosmopolita che, per crescere, ha però disperato bisogno di radici ataviche e affettive. “La patria, probabilmente, è come la famiglia”, scrisse Gustave Flaubert all’amico fraterno Ernest Chevalier, “se ne sente il valore solo quando la si perde”.
Proponiamo ai lettori de La Rondine un brano del romanzo, l’incontro tra Heikki e un compagno d’università sul treno che lo riporta in città dopo un periodo “in missione” nella terra natìa per annunciare al volgo adorato il messaggio politico-millenaristico di un avvenire nel quale egli stesso fatica a vedersi riflesso.
Patria
La stazione dopo salì finalmente in carrozza Eemil, un amico vero. Ma doveva fare tappa da qualche parte prima di arrivare a Helsinki e scese alla fermata successiva.
Salutò Heikki quasi abbracciandolo: con tutte quelle domande sembrava volersi mettere al centro del mondo interiore altrui. Era già ammogliato, felice e giulivo, lui e la sua signora. Svolgeva o, meglio a dire, svolgevano attività di difensori civici alla periferia di Helsinki. Gli introiti erano scarsi, campavano a malapena, ma, in compenso, traboccavano di gioia e d’amicizia.
I discorsi erano inframmezzati dal riso, saltava con voce stentorea da un argomento all’altro soffermandosi quel tanto che bastava per buttare lì un paio di parole, come a marcare il territorio tra le cose da dire. E mentre parlava di una cosa, si capiva che stava già pensando a quella dopo.
All’improvviso interruppe il fiume di parole e guardò a lungo Heikki dritto negli occhi: «Senti… mi sembri turbato!».
Heikki non sentiva il bisogno di spiegargli il motivo del suo stato d’animo. Sebbene Eemil si fosse fatto serio, corrugasse le sopracciglia fini e si mostrasse preoccupato, nella voce e in tutto il resto si annidava un sottilissimo disprezzo verso il dolore altrui, come dubitasse delle avverse condizioni di chi soffre o non fosse affatto in grado di comprendere appieno lo sconforto.
Alla festa in onore di Snellman Eemil era tra coloro che si erano seduti in disparte per prendersi gioco degli altri, i più convinti.
Da quel momento, nel cuore di Heikki, era rimasta una certa diffidenza nei suoi confronti.
Tentò di spostare la discussione su quell’episodio, per capire se Eemil fosse ancora sulle stesse posizioni di allora. Ma appena accennò a Snellman, Eemil disse subito: «Oddio, ancora con queste cose!».
Non aveva lontanamente idea di quanto Heikki si stesse alterando. Prese del tempo prima di rispondere.
«La sua dottrina mi ha toccato nel profondo e io vivrò d’essa per il resto dei miei giorni. Lui è il mio unico riferimento, non c’è un solo finlandese che possa eguagliarlo. O che potrebbe allacciargli le stringhe delle scarpe!»
«Hm», ribatté Eemil. «Anch’io ammiro l’insegnamento di Snellman, non nego certo quanto fondamentale sia stato il suo pensiero. Ma non lo considero più di un onesto lavoratore pari a noialtri.»
A quanto pareva Eemil non aveva affatto cambiato opinione, al contrario aveva perfino sviluppato il suo punto di vista.
«Intendi dire», osservò Heikki sarcastico, che siamo tutti uguali davanti a “Dio nostro Signore”?»
«Proprio così», si affrettò a confermare Eemil. «Dovremmo considerarci tutti uguali anche tra di noi, non solo davanti a “Dio nostro Signore”.»
Quell’affermazione fece quasi infuriare Heikki. Dove aveva imparato tutte quelle cose? Tra dubbi e tormenti, dopo lunghe riflessioni, era arrivato anche lui a quella stessa conclusione. Eemil aveva detto proprio ciò che Heikki aveva sentito nel cuore guardando negli occhi i lavoratori tra i campi. Ora che aveva cominciato a pensare in modo diverso, Eemil, ancora una volta, andava nella medesima direzione.
«Tuttavia non puoi negare le differenze tra gli individui riguardo a capacità, forza interiore, talento intellettuale!», disse Heikki sempre con sarcasmo.
«E invece lo nego eccome», ribatté Eemil deciso. «Le capacità sono diverse. Ma non è tale differenza a dividerci. Ciò che ci divide è il giudizio esterno, quello degli altri. Il mondo loda il cercatore d’oro perché l’oro luccica, ma si dimentica di chi estrae il metallo nero. Non posso considerare me stesso e la gran parte di chi mi è affine come un branco d’inetti sopra i quali si ergono altri, quelli dalle grandi capacità. Se ho deciso di orientarmi all’uguaglianza sociale, devo pensare che tutte le persone sono intellettualmente uguali. Non possiamo essere socialisti solo negli aspetti materiali. Inoltre, come hai detto, si tratta di uno dei più antichi comandamenti di Dio agli uomini.»
«Ma non puoi mettere Snellman, il sommo vate della Finlandia, sullo stesso piano di uno scribacchino che lavora in un angolo!»
«Vedi», disse Eemil, «stai dimenticando che se Snellman ha reso grande la Finlandia, protagonista della propria gloria è stata la Finlandia stessa. Siamo sconfortati da quanto i risultati del lavoro siano così diversi a seconda del lavoratore. Ma tali frutti sono in gran parte indipendenti da chi ne è l’artefice. In essi si accumula infatti il lavoro silenzioso di chi lo ha preceduto e del quale l’uomo d’oggi non sa niente. Innalzano Snellman fino all’alto dei cieli, come fosse stato il principio di tutto. Ma la sua personale opera non è più grande di quella di un comune, onesto lavoratore.»
Heikki smise di fare domande, Eemil si mise a parlare d’altro. Raccontò di quella nuova invenzione che chiamavano telefono e che già utilizzavano in alcuni quartieri di Helsinki.
Ne era affascinato e non aveva dubbi che quella tecnologia avrebbe rivoluzionato il mondo.
«È stupefacente immaginare che questo apparecchio, un giorno, potrebbe diffondersi per consentire a privati cittadini di comunicare tra loro. Pensa se diventasse di pubblico dominio, non solo per collegare sedi istituzionali come il telegrafo, ma come mezzo di comunicazione tra persone qualunque, se penetrasse nelle case di tutti, fosse a disposizione di ogni uomo per trasferire da un luogo all’altro anche i più umili pensieri, e magari potrebbe coprire distanze ancora maggiori! Miriadi di idee umane disperse e scollegate tra loro si congiungerebbero progressivamente fino a saldarsi l’una all’altra. Non credi che sarebbe un grande passo avanti per l’umanità, un passo verso una piena integrazione? Dissidi e incomprensioni pian piano scomparirebbero. Un pensiero si unirebbe spontaneamente all’altro, poi a un terzo e a un quarto, si creerebbe tra gli individui un legame familiare che annienterebbe l’odio reciproco e ogni forma di alienante intolleranza.» Eemil s’interruppe, guardò Heikki e rise.
Il treno si era fermato alla stazione, doveva scendere.
(Nella foto del titolo, Arvid negli anni 1890. Wikipedia)