Su Helsingin Sanomat del 2.8.2018 è uscito un articolo a firma Kira Gronow e intitolato Mikä muka tekisin metsässä (E che ci faccio nel bosco?), in cui l’intervistato, il saggio Marco Wessman, spiegava alla giornalista che la natura per lui non rappresenta un effetto sorpresa, né lo lascia a bocca aperta. A questa condivisibile opinione vorrei aggiungere a complemento un paio di pensieri personali, rifacendomi a citazioni letterarie, anche per cercare di spiegare a chi mi conosce e si è scapicollato a segnalarmi l’articolo con l’intervista alla mia “anima gemella” perché la natura (per di più finlandese) mi lascia indifferente.
Naturalmente, ciò non vuol dire che io non sia sensibile ai problemi ecologici; piuttosto la mia indisposizione nei confronti della natura è dettata soprattutto dal fatto che il rapporto “personale” con essa viene presentato come qualcosa di moralmente superiore: le persone che “amano la natura” e la frequentano vengono ritenute di livello morale più alto di quelli per cui tale bisogno non esprime la stessa impellenza.
Come sottolineato da Matti Klinge in Let Us Be Finns (1990), da un punto di vista storico in Finlandia, insieme allo scandinavismo e al nordismo, iniziò ad emergere l’influenza di Rousseau e del ‘provincialismo francese’, che “formularono e disseminarono questa ideologia del naturale, che significò la negazione del lusso, della raffinatezza, della finezza nell’arte e nella scienza. L’enfasi si spostò dall’industria e dalle città alla superiorità morale della vita rurale. Chi viveva una vita semplice e modesta era considerato più vicino al divino e all’eterno di coloro le cui menti erano impregnate di lusso, intrighi e sofismi.”
Come modello originario di luogo naturale fu scelta la Lapponia ma, continua Klinge, “dopo [questa] breve infatuazione, i Paesi nordici si rivolsero verso le meno esotiche ma più convincenti aree selvagge delle foreste e delle zone lacustri.” Nemmeno queste lande desolate, però, furono considerate sufficienti, e così “fu necessario dare un’interpretazione moralistica alla bellezza della natura in relazione all’uomo.” Per un’ulteriore analisi del naturale e dello sviluppo storico del concetto di natura nel contesto nordico, consiglio la lettura del testo di Klinge, The North, Nature, Poverty, contenuto nella raccolta di saggi su citta.
Dal mio punto di vista, i concetti di natura e naturale sono del tutto arbitrari, e il conseguente apprezzamento della natura “attuale” e “reale” è limitativo in un contesto globale. Bertrand Russell definiva l’aggettivo “naturale” come “ciò a cui siamo abituati”e, in effetti, la nostra ammirazione è indirizzata alla natura così come la conosciamo; perché, invece, la “natura” di 109 anni fa non suscita la stessa ammirazione? Soltanto perché non permetteva la vita umana? Sembrerebbe una posizione anacronistica in questa era post-umanistica. Ad ogni modo, la mia indifferenza è indirizzata alla natura “reale”, sicuramente non a quella mediata, esteticamente superiore alla prima. Quanta più poesia, ad esempio, nella descrizione di un paesaggio non terrestre in Nekromanteion di Teemu Manninen (trad. A.P.), che sembrerebbe confermare come la poesia ci aiuti a vivere in un mondo che, sotto molti aspetti, non è stato creato per noi:
I colli di cigno delle navi si fanno strada
tra il furore marino sotto le lune doppie
le cui violente maree le gettano sulla riva
dove le torre di Amitai si alzano candide
come latte materno. Il seno della madre tetra
culla l’umanità nella sera che ingrigisce.
I petali di ceramica stranamente lievi
fluttuano nel giardino di plastica dove
le gemme non sbocciano per la gioia
di api madide; le epopee di carne, sangue,
cellule verdi non ritornano, ma i ricordi
archiviati nel quadro molecolare del carbone
all’improvviso si attivano, mettono in circolo
la vita fossile, mentre le foglie di ceramica
echeggiano lo strano tubare del piccione
restaurato dall’architetto genetico[…]
F. Figari, Giunco
In À Rebours di J.-K. Huysmans (1884, trad. it Ida Sassi), pur tenendo conto dell’ironia decadente, la mediazione artistica enfatizza la primogenitura dell’arte rispetto alla natura:
“Queste piante sono davvero stupefacenti,” pensò; poi indietreggiò e abbracciò il mucchio con uno sguardo. Il suo scopo era stato raggiunto; nessuna pianta sembrava vera; si sarebbe detto che l’uomo avesse prestato alla natura stoffa, carta, porcellana e metallo per permetterle di creare i suoi mostri. E quando la natura non aveva saputo imitare l’opera dell’uomo, era stata costretta a ricopiare le membrane interne degli animali, a imitare le tinte accese delle loro carni in decomposizione, i magnifici orrori delle loro cancrene.”
Descrivendo il metodo artistico da lui creato dell’inversaggio, l’artista ceco Milan Nápravník sottolinea il carattere extra-estetico della realtà mediata:
“L’inversaggio è un metodo surrealista di creazione della realtà magica attraverso l’unione di due o più immagini inverse di oggetti reali, delle loro parti o di strutture immateriali, superficiali. Il principio dell’inversione non è basato su tendenze estetiche della coscienza, ma preesiste come archetipo morfologico dominante nell’inconscio, vale a dire nella realtà irrazionale. Il carattere archetipico dell’inversione dà luogo all’inversaggio, che origina dalle immagini fotografiche della realtà creata dall’azione di acqua, fuoco, ghiaccio, calore, erosione, corrosione, gravità, divisione cellulare, crescita ecc., con una implicita forza numinosa. Il significato extra-estetico dell’inversaggio non può essere altro che il rivolgere la nostra attenzione verso una percezione alternativa, magica e, in questo modo, sconvolgere il monopolio della repressiva visione ottica cosiddetta “oggettiva” della costruzione unilateralmente razionalistica del mondo.” (Inversaggio, Inversáž, 1995; traduzione di A.P.)
Nel famoso dialogo iniziale della Decadenza della menzogna (“The Decay of Lying”, 1891), Oscar Wilde presenta alla perfezione la fievole attrattiva della natura “reale” e, soprattutto, argomenta la superiorità estetica della natura mediata (la traduzione, tratta da copioni.corrierespettacolo.it, non cita purtroppo il nome del traduttore):
CYRIL – Mio caro Vivian, non stare tutto il giorno ingabbiato in biblioteca. È un pomeriggio splendido. L’aria è squisita. Sui boschi si stende una foschia come lanugine purpurea su di una prugna. Andiamo a sdraiarci sull’erba, fumiamo una sigaretta e godiamoci la Natura.
VIVIAN – Godere la Natura! Sono lieto di dire che ho perduto del tutto quella facoltà. La gente ci dice che l’Arte ci fa amare la Natura più di quanto l’amassimo prima; che rivela a noi i suoi segreti; e che dopo un accurato studio di Corot e Constable vi vediamo cose che erano sfuggite alla nostra osservazione. La mia esperienza personale è che più studiamo l’Arte, meno ci importa della Natura. Quel che l’arte realmente ci rivela è l’assenza del disegno della Natura, le sue curiose asprezze, la sua straordinaria monotonia, la sua condizione assolutamente incompiuta. La Natura, è ovvio, ha buone intenzioni, ma, come disse una volta Aristotele, non sa realizzarle. Quando guardo un paesaggio non posso fare a meno di vedere tutti i suoi difetti. Comunque è per noi una fortuna che la Natura sia così imperfetta, perché altrimenti non avremmo affatto arte. L’Arte è la nostra vivace protesta, il nostro fiero tentativo di insegnare alla Natura a stare al suo giusto posto. Riguardo l’infinita varietà della Natura, questo è un puro mito. Questa varietà non si deve trovare nella Natura stessa. Risiede nell’immaginazione, o fantasia, o cecità coltivata dell’uomo che la guarda.
Tornando all’articolo in questione, pur apprezzando la premessa dell’intervistato avrei da ridire sulla conclusione. Secondo Marco Wessman, il modo migliore di trascorrere le vacanze, nel suo caso, è sfuggire la natura e godersi Parigi, magari seduto in un caffé dei Campi Elisi. La mia propensione, invece, è meglio descritta dal motto di Blaise Pascal, “Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo”. E ciò, se non altro, per evitare possibili delusioni, come nella magnifica descrizione dell’inutilità di muoversi da casa, che troviamo, ancora una volta, in À Rebours di Huysmans, e con cui concludo questa mia breve nota:
“A che pro muoversi, quando si può viaggiare così magnificamente su una sedia? Non era già a Londra, circondato dai suoi profumi, dalla sua atmosfera, dai suoi abitanti, dai suoi cibi, dalle sue suppellettili? Che altro poteva sperare, se non nuove delusioni, come in Olanda?”
The fact that an opinion has been widely held is no evidence whatever that it is not utterly absurd (Bertrand Russell)
Enjoy Nature! I am glad to say that I have entirely lost that faculty. (Oscar Wilde)
La Rondine – 19.8.2018