Alvar Aalto in Italia: un documentario racconta la storia di una chiesa dimenticata

La Chiesa dedicata a Santa Maria Assunta di Riola Vergato, sulla linea che collega Bologna con Porretta Terme, è uno degli episodi più significativi della storia dell’architettura moderna in Italia. Si tratta dell’unica opera italiana di uno dei più grandi maestri del Movimento Moderno. Diverse le parti coinvolte nella sua realizzazione: istituzioni religiose e laiche, un celebre architetto e una piccola comunità di fedeli guidata da un parroco, un grande imprenditore, e un cardinale. Abbiamo intervistato gli autori del documentario.

Realizzare quella chiesa è stata un’impresa che ha richiesto molti anni di lavoro, sollevando parecchie diffidenze (non ultima la fede luterana dell’architetto), una lunga sospensione, prima di arrivare all’inaugurazione esattamente quarant’anni fa. Non abbiamo sete di scenografie. La lunga storia della chiesa di Alvar Aalto a Riola è il titolo del documentario che ripercorre la lunga gestazione dell’opera e ne presenta i protagonisti, insieme con quella comunità di Riola che è stata protagonista fondamentale nella realizzazione del progetto. Abbiamo intervistato, sulla storia dell’opera, Mara Corradi, giornalista, e Roberto Ronchi, regista, autori del documentario che è stato presentato venerdì 26 ottobre nell’Anteo Palazzo del Cinema di Milano all’interno del Milano Design Film Festival.

Come è nata l’idea di realizzare il documentario. Nasce da motivazioni professionali, o contingenti, legate al luogo?

Corradi: Roberto Ronchi ed io cercavamo un soggetto interessante e poco noto, e dalla mia memoria è emerso un viaggio che feci quando avevo poco più che vent’anni per visitare l’architettura moderna bolognese. Il percorso di spinse fino a Riola e vedere quella chiesa fu una vera sorpresa all’epoca.

Nel 2014 questo ricordo riaffiorò, ma all’inizio del lavoro Roberto ed io pensavamo di dedicarci solamente all’edificio. Quando poi ne abbiamo approfondito la storia abbiamo intuito che quella era la cosa più sensazionale da raccontare. Far comprendere al pubblico la bellezza dell’architettura moderna attraverso la scoperta della sua storia e con essa del periodo storico in cui è nata, degli attori che l’hanno voluta.

Quanto è dipesa la realizzazione della chiesa dalla figura di Lercaro, in quel momento storico particolare?

Foto Romano Folicaldi

Ronchi: Si può dire che Lercaro sia stato fondamentale all’inizio: fu il committente e volle fortissimamente Alvar Aalto perché comprendeva la portata avanguardista del suo lavoro. Ma fu fondamentale anche dopo perché, ad un certo punto delle vicende, proprio la sua mancanza nell’iter del progetto fu da stimolo per altri a prendere l’iniziativa e a portare a termine l’opera.

Come si è arrivati a scegliere proprio Aalto: criteri estetici, occasioni, conoscenze personali?

Corradi: Lercaro aveva tra i suoi fedelissimi architetti del calibro di Giorgio Trebbi, finissimo intellettuale, e i fratelli Gresleri, Glauco e Giuliano. Giovani progettisti in grado di conoscere la realtà bolognese e i bisogni della periferia che era faticosamente sorta, ma anche di comprendere le istanze dell’architettura moderna e vedere in essa la risposta a molti interrogativi sull’uomo, sulla sua psicologia, sul senso della comunità. Aalto era un’esponente di questa modernità e forse quello più vicino alla sensibilità del Cardinale.

Ci fu un dialogo, tra l’architetto e la committenza, o gli fu data mano libera?

Corradi: Mano libera non direi proprio. Se si conosce la figura di Lercaro si può già intuire come andarono le cose. Egli aveva istituito un ufficio tecnico all’interno della curia che si occupava della costruzione delle nuove chiese della Diocesi. Questo ufficio inviò allo studio di Alvar Aalto tutti i riferimenti sul tema. In una lettera Giorgio Trebbi specifica che ciò che ci si attendeva era che questa chiesa diventasse esempio dei dettami espressi dal Concilio Vaticano II. L’intento lercariano era chiarissimo e ineludibile. Detto questo, piena era la fiducia nella sensibilità progettuale di Aalto che ebbe completa libertà nella composizione dello spazio liturgico.

Chi era la committenza, cioè chi ha finanziato i lavori?

Ronchi: Il committente fu chiaramente la curia tramite la parrocchia di Riola. La cosa incredibile di questa storia è che ad un certo punto proprio la committenza non fu più convinta che questa chiesa dovesse essere costruita. Ma nel frattempo era cambiato l’arcivescovo. Alla fine i lavori furono pagati in parte dalla curia e in parte per mezzo delle donazioni offerte dai parrocchiani stessi di Riola che vollero fortissimamente la sua costruzione. E poi entrò in gioco una figura chiave, un deus ex machina che si scoprirà vedendo il documentario, che va in vendita a giorni.

Come è stata l’accoglienza della popolazione locale, per una struttura non proprio tradizionale?

Corradi: Parlando in termini generali, ancora oggi l’architettura del periodo modernista non è apprezzata dalla gente, né quella civile né tantomeno quella religiosa. Tuttavia il caso di Riola fu eccezionale anche perché questo progetto fu vissuto con una fiducia verso la committenza, verso chi aveva scelto questo architetto, verso chi guidava il programma, tale che questo progetto non fu mai messo in discussione. Anzi anche alla gente piacque molto più di altri che erano stati presentati in precedenza. Erano altri tempi, tempi in cui l’autorità aveva un peso diverso rispetto ad oggi…

Quanto se ne parlò, all’epoca, sulle riviste specializzate, e chi ne parlò? E sulla stampa generalista?

Ronchi: Se ne parlò moltissimo sui giornali locali, su quelli dedicati alla Valle del Reno e alla vita dell’Appennino. Giorgio Trebbi allora direttore di Parametro, l’autorevole rivista di architettura bolognese, gli dedicò il suo editoriale. Negli anni però il progetto faticò a essere incluso nei volumi che furono dedicati alla carriera del maestro finlandese.

Perché l’opera non è mai diventata un patrimonio comune degl iitaliani? Si può dire che la conoscano solo gli specialisti.

Corradi: Le risposte a questa domanda potrebbero essere tante. Forse perché si tratta di un’opera postuma (Aalto morì poco dopo che fu avviato il cantiere nel 1976) che per qualcuno, specialmente nell’ambiente dell’architettura, significa il non completo dominio del progetto da parte del suo creatore. Forse perché è una chiesa di montagna e non di città. Forse perché Bologna non è Milano per il mondo dell’architettura e del design? Quindi se il suo stesso settore non ne trasmette il valore e non la esalta come dovrebbe, al pubblico generalista ne giunge notizia marginale. Ma non so darle una risposta certa.

Si tratta di una difficile integrazione linguistica, o altro?

Ronchi: Non mi sembra. La chiesa è molto amata dalla gente del posto, non si vive un senso di estraneità verso quelle forme. Qualcuno non ne comprende la portata o i dettagli, ma il dominio della spazialità interna lascia chiunque a bocca spalancata. Provate ad andare a visitarla.

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Mara Corradi e Roberto Ronchi a Milano alla presentazione del documentario (foto di Ester Pirotta)

La Rondine – 30.10.2018