Serata in nome dell’orchestra, e di Sofocle, mercoledì 23 ottobre all’Opera Nazionale di Helsinki, dedicata a due maestri del Novecento, Richard Strauss e Igor Stravinskij. Del primo viene presentata una versione per sola orchestra della tragedia “Elettra”, del secondo l’opera-oratorio “Edipo re”.
La scelta di celebrare la centralità dell’orchestra è evidente appena entrati in sala, un palco in piena luce, privo di scenografie, con pannelli destinati a esaltare la funzione dei musicisti e degli strumenti.
Nell’Elektra di Strauss, l’opera del 1909, si celebrava il contrasto “fra la notte e la luce, fra la tenebra e il candore”. E questo ha tentato Manfred Honeck, direttore dal 2008 della Pittsburgh Symphony Orchestra, che insieme col compositore Tomáš Ille ha riscritto delle “suites” per orchestra di diverse opere: oltre all’Elettra, anche Jenufa di Janáček e Rusalka di Dvořák. Honeck aveva fatto parte della Vienna State Opera Orchestra nelle celebri esecuzioni dell’Elettra con la direzione di Claudio Abbado negli anni 1980.
Quell’esperienza, ricorda, gli fece capire che “è l’orchestra ad avere il ruolo principale” in quell’opera. Difficile dire se i 34 minuti di questa suite Elettra rendano pienamente ragione a quella percezione. Rimane, del capolavoro di Strauss, la sensazione di una celebrazione della musica, demandata a un’orchestra con un organico strumentale e una varietà di strumenti imponente. Ma è difficile apprezzare certi parossismi dell’opera che risultano comprensibili, nella versione operistica, proprio in combinazione con le voci dei cantanti, con l’azione drammatica. La compressione di quei parossismi, senza le pause necessarie, fa perdere il senso del “contrasto”, e rende questa fin troppo breve versione per orchestra priva dei tempi necessari a una piena comprensione.
Diverso il discorso per l’opera-oratorio di Stravinskij “Edipo Re”, scritta in collaborazione con Jean Cocteau, la cui forma è dovuta a una scelta dell’autore. La prima si ebbe a Parigi al “Théâtre Sarah Bernhardt” il 30 maggio 1927 nell’ambito dei Ballets Russes di Djagilev, per festeggiare il ventesimo anniversario della sua attività teatrale; sotto la direzione del compositore, in forma di concerto.
Esule in Francia dal 1920, Stravinskij, dopo tre composizioni di natura fiabesca e di ispirazione russa (Le Rossignol, Renard e Mavra) cercava un soggetto di carattere più universale, e arrivò alla conclusione che un mito tra i più celebri dell’antica Grecia corrispondesse al suo desiderio. La fama del soggetto, poi, gli evitava di seguire i binari di un’azione drammatica. L’opera avrebbe dovuto fondarsi sulla convenzione, come una “natura morta”: “Desideravo lasciare la tragedia, come tragedia, dietro l’opera. Pensavo di distillarne con ciò l’essenza drammatica per essere libero di concentrare maggiormente l’attenzione su di una drammatizzazione puramente musicale”. Anche la scelta della lingua va nella stessa direzione. Una lingua speciale, a suo modo sublime, circondata da un’aura di ritualità e di sacralità. E questa lingua non poteva essere che il latino. Una scelta che aveva il grande vantaggio di offrirgli “un mezzo espressivo non morto, ma pietrificato e divenuto così monumentale da essere immune da tutti i rischi di scadimento nella volgarità”.
Così il musicista decise di scriverla in modo che potesse essere eseguita anche in ambito concertistico, fornendo indicazioni precise sulla sua realizzazione, e per focalizzare tutta l’attenzione sul dramma eliminò ciò che fa parte di una normale azione di scena. Nelle indicazioni del musicista russo i cantanti del coro, con un cappuccio in testa, dovevano stare seduti in una fila sola e in parte nascosti da pannelli. I cantanti erano disposti, ad altezze diverse, su pedane, apparendo o scomparendo dentro delle botole.
Stravinskij scrisse sulla partitura: “Tranne Tiresia, il Pastore e il Messaggero, i personaggi restano nei loro costumi e nelle maschere costruite. Si muovono solo le teste e le braccia. Essi devono avere l’aspetto di statue viventi.” Edipo era l’unico a essere sempre presente, e l’accecamento nel finale era sottolineato da una semplice sostituzione della maschera con una rosso sangue.
A rompere la dimensione pietrificata e atemporale è il Narratore che, in abito da sera moderno, espone nel Prologo e a intervalli la vicenda narrata, fornendo al pubblico gli antefatti e avvertendolo delle conseguenze. In linea con le scelte stilistiche dell’opera, consente, distinguendo i piani dell’azione, di concentrarsi sullo svolgimento puramente musicale della partitura.
La domanda se si tratti di opera o oratorio è, sotto ogni punto di vista fuori di luogo. I personaggi interferiscono tra loro non con i gesti ma con le parole. Nessuno di loro “agisce”, ma si rivolge direttamente al pubblico, mentre ciò che guida il movimento scenico è il Narratore. Nella sua dinamica bloccata, dunque, l’opera tende a una dimensione statica di tipo oratoriale, sospesa nel tempo e nello spazio, dove il dramma è interno alla musica e la distanza dall’azione è accentuata dalla lingua latina, al tempo stesso convenzionale e rituale.
Ciò rende l’Edipo una sorta di astrazione metafisica che può far pensare a una scenografia cubista, una specie di incubo che riemerge dalla memoria con nettezza di contorni, enigmaticamente. Soprattutto nel bellissimo finale. Una fanfara di trombe annuncia l’Epilogo, introdotto dal Narratore: Giocasta si è uccisa, Edipo si è accecato con la fibula d’oro della regina. La figura di scale che iniziava l’opera ricompare con il suo moto oscillante; il disegno ritmico implacabile accompagna il coro che rievoca la fine di Giocasta e il terribile furore di Edipo. Per quattro volte le violente scale degli archi e l’annuncio del Messaggero si alternano al commento corale: dopo un ultimo sussulto prevale infine la pietà, e con la scarna fissità del ritmo ostinato, ora quasi accettato come un segno del destino, il popolo di Tebe tributa un accorato, stilizzato saluto all’infelice Edipo. “Addio, Edipo. Ti abbiamo voluto bene!”
Nella versione dell’Opera Nazionale di Helsinki anche qui manca ogni forma di contrasto, e la “pietrificazione” pensata da Stravinskij e Cocteau si riduce a un “ingessato” classico. Cantanti in abito da sera, su due pedane in mezzo all’orchestra, e il coro sullo sfondo. Una lunga storia che abbraccia tutto il Novecento, e che su questo testo “neo-classico” ha visto concentrarsi l’attenzione di artisti di ogni disciplina, si riduce a una composta celebrazione d’ordinanza.
Una sensazione di monotonia, purtroppo anche nell’ascolto: l’eliminazione della buca d’orchestra porta a momenti a una prevaricazione strumentale nei confronti del coro, e non restituisce al pubblico in sala quella fusione di musica e voci che era da aspettarsi. È una rinuncia alla lettura testuale, l’assenza di ogni “rappresentazione” scenica, quasi che la Sfinge col suo carico evocativo possa turbare in qualche modo la sacralità della musica.
Peccato, anche per la buona prova dei cantanti, di buon livello. Da segnalare, e non sembri irrispettoso, la presenza del Narratore, un Timo Torikka perfettamente a suo agio col testone di Sofocle che si porta dietro da un capo all’altro sul proscenio, ingaggiando un dialogo straniante con quel gesso, supremamente indifferente alla “tarantella funebre” (così Stravinskij definiva il finale), come a ricordarci con la sua distonica presenza un senso autentico del rapporto col mito classico: strumento di conoscenza che può portare alla verità e salvare dall’oblio. Che è poi il senso della Sfinge, quando la si lascia dire.
[Immagine del titolo: G. Moreau, Edipo e la sfinge (1864), dettaglio]
Opera nazionale di Finlandia
“Elettra” di Manfred Honeck e Tomáš Ille (da R. Strauss) e “Edipo Re” di I. Stravinskij
Direttore d’Orchestra: Eivind Gullberg Jensen
Cantanti: Thomas Mohr (Edipo), Michael Kraus (Creonte e Messaggero), Ekaterina Gubanova (Giocasta), Jussi Myllys (pastore), Jyrki Korhonen (Tiresia).