Hvitträsk è termine svedese e significa “lago bianco”. Ma a partire dal 1901 è il nome della casa-studio di tre grandi architetti della fin-de-siècle finlandese: Eliel Saarinen, Herman Gesellius e Armas Lindgren. La struttura si trova a una trentina di chilometri a ovest di Helsinki, nel comune di Kirkkonummi. Ceduta nel 1949 alla famiglia Vuorio, quindi alla Kansallis Osake Pankki nel 1968, è stata finalmente acquisita dallo Stato finlandese che ne ha fatto un museo aperto al pubblico nel 1981.
Tre blocchi principali edificati intorno a un cortile rettangolare, in cima a uno sperone di roccia granitica con vista sul bellissimo lago, intorno boschi di abeti, larici, pini, betulle e imponenti querce. I tre architetti conobbero il luogo mentre nei dintorni realizzavano un’altra residenza, e come presi per incantamento decisero di farvi casa e bottega. Una scelta di gusto, ma, data l’epoca, anche ideologica.
Siamo ai primi del Novecento, e i tre sono già noti: hanno acquisito fama internazionale alla Exposition Universelle di Parigi dove la Finlandia, ancora granducato dello zar ma con una propria identità culturale, è stata invitata dal Comitato a presentare la sua arte e la sua tecnica in un proprio padiglione. A realizzarlo è il terzetto in questione. Siamo nel 1900. Un anno dopo, nel 1901, cominciano i lavori a Hvitträsk.
In Finlandia fervono movimenti artistici e intellettuali di ispirazione modernista, che in architettura traggono ispirazione dallo Jugendstil dell’Europa germanica, dall’Art Nouveau franco-belga, ma conservano anche memoria del movimento Arts and Crafts fiorito qualche decennio prima in Inghilterra. In Finlandia, il movimento si carica di una forte valenza nazionale e indipendentista: negli anni della “russificazione” gli architetti, staccandosi drasticamente dallo stile Impero portato dai russi nell’edilizia monumentale, riscoprono le loro radici, decidendo che sarebbero state “medievali”, figlie di un altro Impero, ma occidentale. A confermare il senso ideologico-politico della scelta va detto che, con la conquista dell’Indipendenza nel 1917, lo stile dell’architettura finlandese prenderà tutt’altra direzione.
Per chi venga dal lago e, attraccato al pontile vicino alla grande sauna incatramata, si avvi per una stradina che aggira la collinetta e arriva al cortile della Villa, l’entrata è spettacolare, e al tempo stesso ha un valore storico.
Dapprima si vede il retro della Villa, arroccato in cima al colle come una sua organica evoluzione: granito, massi, quindi progressivamente pietra lavorata fino al rivestimento di scandole nere in cima, su su fino alla loggia in angolo. Aggirato l’edificio, sfiorando massi enormi e alberi caduti che fanno un perfetto paesaggio d’epoca alla Werner Holmberg o alla Churberg, ci si trova come per miracolo davanti a una piccola torre rotonda, fatta di sassi, che rappresenta l’inizio dei lavori. È l’omphalos, l’ombelico attorno al quale ruoterà e crescerà poi tutto il resto nell’arco di due soli anni: 1901-1903.
A cominciare dalla Lilla Villa, la nera costruzione in massicci tronchi di legno incatramato che sarà la prima abitazione di Saarinen, poi adibita a bar e ristorante (come tale è oggi visitabile solo negli orari di apertura del locale). Una struttura che ricorda le antiche fattorie, e con la sua terrazza e gli intimi cortiletti accentua un senso di romantico culto di un passato medievale e rurale.
Di fronte si erge la sua prosecuzione naturale, l’alta e imponente ala sud, in effetti il cuore della struttura, una cuspide a più piani dal grande tetto a spioventi che ricorda molto le esperienze dello shingle-style americano che un decennio prima aveva visto esempi mirabili a partire dalla residenza di Oak Park (1889) di un giovanissimo Frank Lloyd Wright.
Si entra dal portone massiccio e con le borchie metalliche tipico delle abitazioni jugend (un repertorio illimitato si trova andando in giro per il quartiere di Helsinki Katajanokka) per arrivare a una stanzina rotonda, con un divano al muro e un tavolo in centro, che serve da spogliatoio e sala d’attesa. Da lì si passa in una saletta di disimpegno, attualmente adibita a ufficio e biglietteria, in origine era la cucina (totalmente rimodernata dalla famiglia Vuorio negli anni ’50, e poi del tutto ristrutturata al tempo dei restauri per l’allestimento museale.)
Dall’ingresso si sale un paio di scalini per arrivare al salone. Una stanza alta e luminosa che dà subito un senso di spaesamento. Si vedono contemporaneamente tante cose diverse, si fa fatica a tenerle insieme. Ma poi, fatto un giro di ricognizione, si capisce un po’ alla volta che proprio la commistione di stili diversi è il senso vero di quest’ambiente.
Da una parte una parete intera, quella con la scala, interamente di tronchi d’albero grezzi, come in una tipica fattoria della campagna finlandese. Quanto di più arcaico e semplice si possa immaginare. Ma di fronte una piccola libreria, con un tavolino da scacchi e due piccoli box per gli alcolici, geometrici ed eleganti, con decorazioni ispirate chiaramente dalla Secessione viennese. In angolo, il camino rotondo, con mattoni lucidi rossi, e il focolare coperto da una cappa di bronzo, sbalzata, con motivi floreali di pura Art deco.
A reggere la struttura in pietra un sostegno di ferro lavorato, che in alto si arriccia. Sembra una plastica traduzione nello spazio di certi capilettera di vecchie edizioni del Kalevala. E a quel mondo conduce anche un oggetto che occupa un grande spazio.
Una panca di legno interamente coperta da un tappeto-arazzo ryijy, intitolato “Liekki” (fiamma), copia perfetta dell’originale di Akseli Gallen-Kallela, premiato nel 1900 alla Exposition di Parigi e poi imitato e riprodotto in infinite versioni.
Dal salone si passa in una saletta dal soffitto basso, e la prima cosa che si nota è la qualità della luce. Bassa, soffusa, filtrata da vetrate opalescenti, in un ambiente interamente dipinto, soprattutto il soffitto. Leggermente bombato, e decorato con un intrico vegetale che fa pensare a un tappeto di alghe. Viene da trattenere il fiato, si ha la sensazione di trovarsi sott’acqua.
Ed è facile immaginarsi sdraiati sul grande divano ad angolo, anch’esso ricoperto da un tappeto monumentale, accanto alla bellissima stufa (una delle tante che “decorano” come sculture di maiolica e ferro lavorato l’intera struttura) a sorseggiare qualcosa di forte mentre qualcuno (magari Jean Sibelius) nell’angolo di fronte suonava qualcosa al pianoforte. Un’atmosfera rilassante, cui contribuisce la pittura murale che ti avvolge come nella migliore tradizione Arts and Crafts.
Un sensazione simile si ha salendo le scale, ed entrando nella Stanza delle rose, una piccola bomboniera con le pareti ricoperte di un tessuto a motivi floreali. Come le ceramiche dipinte con lo stesso motivo: omaggio di un padre affettuoso per una spendida figlia, Pipsan, che quel fiore amava più di tutti. Una giovane Pipsan, avvolta dal fumo, si vede in una fotografia sul caminetto, ci guarda con una posa matura già presaga della prossima avventura americana: i suoi vestiti, la lampada a pendenti sospesa sulla testa, sembrano uscire da quel mondo del charleston, quello del Grande Gatsby, che stava per accogliere tutta la famiglia. Era il 1922, Eliel era arrivato secondo in un concorso per il grattacielo del “Chicago Tribune”.
Fu l’inizio della fama internazionale, di lì a poco i Saarinen si trasferirono negli USA per iniziare una nuova vita. Sarebbe nata la Cranbrook Academy, e il piccolo Eero avrebbe ideato il Gateway Arch di Saint Louis.
Ma i Saarinen non potevano non tornare periodicamente in Finlandia, a Hvitträsk, ormai soltanto casa propria. Uno degli altri tre architetti, Lindgren, s’era già trasferito a Helsinki fin dal 1905, mentre l’altro, Gesellius, era morto nel 1916. Sua moglie, Matilda, era stata la prima moglie di Saarinen. Eliel aveva divorziato già nel 1905, per sposare la donna e collaboratrice di tutta la vita, Loja, sorella di Gesellius… Una situazione intricata, risolta con eleganza e una mentalità non provinciale, e vi ammicca Olga Gummerus-Ehrström in una piccola vetrata a colori del 1905, nella stanzina “subacquea”, intitolata con grande senso dello humour “I due rivali”.
Le scale di legno, strette, si arrampicano su piani sfalsati, su uno dei quali c’è l’appartamentino privato della coppia Saarinen: camera da letto, bagno, un tinello per la colazione, per il tè, con bow-window luminosa invasa di vasi di fiori. Una volta la fioriera della signora Loja doveva essere uno spettacolo, per lei che anche dall’America chiedeva notizie dei “suoi” fiori. Dal tinello si esce su una loggetta elegante, coperta, con pilastrini rivestiti di scandole nere, fa parte della facciata dell’ala sud. Tutti i mobili sono originali, anche gli arredi per il bagno, a parte la vasca, parte dell’ammodernamento anni ’50. È proprio aggirandosi per queste stanze che si avverte la sensazione strana di non essere più in un museo pubblico, ma di violare quasi l’intimità di una vita privata: nonostante gli anni trascorsi, nonostante i fiori di plastica nelle fioriere.
Dall’altra parte ancora pochi scalini, e si passa nelle stanze dei piccoli. Una prima stanzetta con vista sul lago, luminosissima, arredata solo con due lettini e tre seggioline elegantissime, laccate di bianco, di una eleganza classica ancora oggi. Poi a destra pochi scalini, e si entra in una stanza perfettamente arredata. È la stanza dei giochi. Eliel Saarinen progettò ogni cosa “in scala”, sedie e tavoli e mobili, un paravento, un arazzo su una panca con motivi floreali. Pareti e mobilio hanno colori pastello, e tanto i colori quanto il disegno degli arredi erano ispirati alle teorie dell’architetto scozzese Charles Rennie Mackintosh, tese a evocare una sensazione di calma e pace interiore.
Uscendo, si gira a destra, ancora due scalini e ci si apre davanti una piccola loggia, che dà sul lago. Dal quale la Villa acquista le dimensioni di un castello, arroccata com’è in cima alla collina. Dalla cima della rocca, dalla loggia, si apre alla vista un paesaggio che ha qualcosa di toccante. La cornice scura dei boschi all’orizzonte, in mezzo l’acqua del lago, d’inverno sono nera l’una e bianca l’altra, poi, tra la casa e il lago, le sagome ondeggianti dei guardiani del castello: grandi betulle, pini monumentali.
Sono spiriti della foresta, hanno qualcosa di protettivo, fanno pensare a quei telamoni, gli “uomini di sasso” di Emil Wikström, anch’essi spuntati da un tronco, che fanno la guardia alla Stazione centrale di Helsinki realizzata da Saarinen. Un insieme che per un forestiero dice poco, a parte la sua maestosità. Per un finlandese l’insieme di foresta acque e alberi guardiani ha un senso di nostalgia, sono archetipi di un mondo delle origini, forse l’immagine di una patria perduta che solo i dipinti della fin-de-siècle riescono a ricordare. E questa veduta è come uno di quei grandi dipinti.
In cima solo un attico, due lettini e un tavolo con le foto di tanti collaboratori qui ospitati nel tempo. Poi si torna giù, per una scaletta ancor più ripida (conferma l’idea del castello) e si torna nella biglietteria, per proseguire nello studio.
Lungo, ampio, luminosissimo, finestre e tetti a lucernaio orientati verso nord. Una luce morbida avvolge quel che resta di questo grande laboratorio. Pochi schizzi alle pareti, due piccoli olii di Saarinen appoggiati su uno scaffale che ritraggono la famiglia nel salotto e in un angolo dello studio, uno dei due salottini disposti alle estremità e ai lati di due camini, semplici, ma dalla forma che ricorda molto quelli creati un decennio prima nella sua casa da Frank Lloyd Wright. Accanto al primo camino c’era una volta una libreria, un biliardo, bei mobili, di cui restano solo pochi scaffali.
Dallo studio si passa all’ala nord, originariamente residenza dei Lindgren e poi dei Gesellius. Alla morte di Herman, nel 1916, la moglie Matilda vendette gli appartamenti a Saarinen. Era una struttura interamente di legno, con un torrione centrale squadrato sormontato da un pinnacolo, un borgo medievale in miniatura, tetti rossi e torri.
Ma tutto questo nel 1922 fu distrutto da un incendio, che per fortuna fu fermato alle soglie dello studio. La struttura fu ricostruita, in pietra, su progetto del giovane Eero Saarinen, tra il 1929 e il 1936. Questa sezione non rientra negli spazi museali, ed è oggi concessa per conferenze e meeting.
Un castello non è tale senza un giardino, e proprio dall’ala nord si passa, sempre sotto un arco di granito, in uno splendido giardino all’inglese, con vialetti ordinati e gazebo in muratura, posto su una terrazza che dà sul lago. Tanti alberi di mele, bianchi di fiori all’inizio dell’estate, frutti gustosi alla fine della bella stagione, che i visitatori sono liberi di raccogliere e assaggiare.
Il visitatore che non si accontenti del museo può fare qualcosa che fa parte integrante della visita. Invece di tornare al parcheggio delle auto, poste a nord, entro un recinto dove una volta c’era un campo da tennis, può fare due passi, e rifare al contrario la stradina che il viaggiatore ideale dell’inizio di questa scheda doveva fare per salire al castello.
Stavolta in discesa, attorno al maniero, fiutando gli odori delle resine e delle erbe, fino alla sauna nera che si distende come un cetaceo spiaggiato accanto alla spiaggetta pubblica: in estate è normale vedere qualche famiglia con l’ombrellone.
La strada che facevano gli ospiti abituali della Villa. I vicini, proprietari di simili abitazioni sul lago, e ospiti illustri come Akseli Gallen-Kallela, Jean Sibelius, Maksin Gorkij, Gustav Mahler. Un altro sentiero, dopo il giardino delle mele, porta giù in un altro punto della riva dove si trovano le tombe di Eliel e Loja Saarinen e di Herman Gesellius.
Nelle vecchie foto, che riguardano prevalentemente la famiglia Saarinen, si vedono due ragazzi che si godono la vita come due principini. Il piccolo Eero, soprattutto, con la sua divisa da paggetto, spesso si infila nell’inquadratura e fa delle smorfie, ammiccante, mentre Pipsan ha sempre una sua misura anche nell’allegria. Come non essere felici, vivendo all’interno di un castello dove tutto era esclusivo: mobili, arazzi, lampade, letti, un perfetto esempio di Gesammtkunstwerk, dove persino le porte e le maniglie traspiravano un senso di unicità.
Si pensa, lasciando questo posto, staccandosi dalla torre, poi diventata il logo della società degli architetti, che era l’anno 1901, l’inizio del secolo breve. Nel Grande mondo succedevano tante cose, ma qui, in questo angolo del Piccolo mondo, i finlandesi non stavano a guardare. Era l’inizio di qualcosa di straordinario, il transito verso la Modernità, e non c’erano più limiti.
Hvitträsk Museo
Hvitträskintie 166, 02440 Kirkkonummi
https://www.kansallismuseo.fi/fi/hvittraesk/etusivu
Aperto l’estate, ma d’inverno si può prenotare.
Cartoline finlandesi è una serie di articoli che propone luoghi da scoprire, monumenti da rivisitare e angoli del Paese che non sempre entrano nelle guide turistiche.