Nata a Helsinki nel 1862, Helene Schjerfbeck, è un’altra, e forse la più celebre, delle Grandi Signore dell’arte finlandese a cavallo tra Otto e Novecento. Una vita difficile, problemi economici dopo la morte del padre nel 1876, fisici, dopo una caduta da una scala che a tre anni la rese claudicante. E complicati rapporti con la madre, con cui visse un’infanzia e poi una giovinezza tutt’altro che serene. Una bella mostra, inaugurata a Londra quest’estate, adesso la riporta all’Ateneum di Helsinki e all’interesse del suo paese. Il titolo: Maailmalta löysin itseni (Viaggiando ho trovato me stessa).
La sua fortuna, da ragazza, fu incontrare qualcuno che credette nel suo talento. Come il suo insegnante Adolf von Becker (1831-1909) che la prese nella sua Accademia di disegno di Helsinki nel 1877. Una borsa di studio del Senato, poi, nel 1880 le consentì di andare a studiare a Parigi, con Léon Bonnat e Jean-Léon Gérôme, e dal 1881 nella celebre Académie Colarossi, dove si distinse per impegno e serietà. Insieme con due sodali finlandesi, Marianne Preindelsberger (1855-1927) e Maria Wiik (1853-1928), da Parigi fece diverse puntate a Pont-Aven e Concarneau in Bretagna tra il 1881 e il 1884 (un paio d’anni prima di Gauguin) e in Cornovaglia.
Nel 1883 al Salon di Parigi accettarono una sua opera, la Fête juive, e nel 1889, all’Esposizione Universale di Parigi del 1889 vinse la medaglia di bronzo per il dipinto La convalescente. Ma dovette rientrare in Finlandia, per la salute precaria, ma anche per occuparsi della madre, anziana e malata. Scriveva nel 1917 all’amico e biografo Einar Reuter: “In 50 anni, nemmeno un giorno in salute. Lottare stanca”.
A parte qualche breve soggiorno in Italia, San Pietroburgo e Vienna, Helene visse gran parte della sua vita, in condizioni modeste, in Finlandia, soprattutto dopo il 1902 quando smise di insegnare all’Accademia di disegno e si trasferì a Hyvinkää, circa 50 chilometri a nord di Helsinki, insieme con la madre Olga.
Un isolamento, una forma di segregazione che condizionarono non poco le sue scelte pittoriche, riducendole ad ambienti famigliari, nature morte, ritratti e, soprattutto, autoritratti. I ritratti, collocati quasi sempre in interni, prendono come soggetti persone a lei fisicamente vicine: la madre, la nonna, bambini del vicinato. Oppure si ispirava a qualche fotografia, o a dipinti del passato.
Frida Kahlo, costretta per anni a letto col busto ingessato, si dedicò alla pittura, e diceva della sua arte: “Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio”. Anche buona parte della produzione di Helene è fatta di ritratti e autoritratti.
Una scelta però anche artistica, questa, che caratterizza momenti cruciali della sua vita, fin dagli esordi. In effetti una specie di autoritratto di una nazione è una delle prime opere, realizzata a 17 anni, e intitolata Soldato ferito nella neve (1880). Un soldato finlandese, morente, appoggiato a una betulla, mentre la vita (militare) si intravede in lontananza, diventa una commemorazione della guerra perduta all’inizio dell’’800 contro i russi invasori.
Al suo arrivo a Parigi, realizza subito, nel 1881, una tela con una coppia femminile: le Due donne di profilo ci danno in primo piano una diletta collega di studio, la giovane austriaca Marianne Preindelsberger, mentre Helene si ritrae sullo sfondo, in un raro tentativo di riempire la tela di un’altra presenza.
Ma saranno casi rari. Il suo discorso pittorico andrà sempre più chiudendosi nel culto del monologo. Persino negli apparenti “paesaggi”, come nel cezanniano Ombra sul muro del 1883, dove proprio un’ombra solitaria si colloca al centro del dipinto, ma mettendo in luce una panchina vuota: un anticipo di una poetica dell’assenza che nel 1917 l’avrebbe portata a scrivere a Einar Reuter “non è necessario elencare ogni singolo dettaglio; è l’accenno soltanto che può avvicinarci alla verità.”
Un esplicito autoritratto, il suo primo della serie, nel 1884 la mostra nella sua versione parigina, allieva di una celebre scuola, con la frangetta allora alla moda.
Opera che sembra metterla a confronto con la grande arte francese, col più celebre dei maestri del tempo, Manet, che appena tre anni prima aveva dipinto Un bar aux Folies Bergère. La celebre ragazza dietro il banco, che dialoga con gli occhi con un avventore, e quella frangetta un po’ scomposta, il velo di malinconia degli occhi, ci richiamano subito alla mente la giovane Helene dell’autoritratto, qui però energica, decisa, nello sguardo un lampo di sfida.
Il confronto con Manet resta limitato a quel volto, in una solitudine chiusa in se stessa, come il colletto dell’abito, a confronto col decolleté della barista parigina, aperta al pubblico festante sullo sfondo.
Un’altra simbolica forma di autoritratto può essere considerato La convalescente (1888) che la rivela al mondo dell’arte internazionale. La dipinge durante il primo soggiorno a St Ives, in Cornovaglia.
Lei stessa malata, appena abbandonata da un fidanzato, viveva l’angoscia dell’abbandono, e dunque in quella creatura, gli occhi febbricitanti fissi su un tenero germoglio (il titolo originario era Première verdure), consegnava insieme con gli oggetti del tavolo, il librone, i petali sparsi, il mobile scuro alle spalle, e soprattutto il punto di luce a sinistra, dietro il soggetto ritratto, una sorta di trepida confessione di un’anima.
Naturalmente si tratta di una serie di coincidenze, ma a me succede di ricordare un celebre “convalescente” del Rinascimento italiano, quel giovane gentiluomo ritratto da Lorenzo Lotto, appoggiato a un tavolo con analoga angolazione, oggetti e luce molto simili. Un ritratto della malinconia che ritorna a distanza di secoli.
Gli anni ’90 segnano una caduta della sua produzione. In parte la fatica per l’ insegnamento presso la scuola di disegno dell’Associazione d’arte a Helsinki, in parte per le sempre cattive condizioni di salute. Doveva prendere spesso un congedo per malattia, fino a quando nel febbraio 1902 diede le dimissioni. L’estate seguente si trasferì a Hyvinkää, su consiglio di un medico, andando a vivere con la madre, e da allora il suo stile pittorico cambia. Staccatasi della cerchia dei pittori e dei galleristi, tira fuori una sua personale versione del modernismo che si esprime in una serie di ritratti straordinari, come La madre del 1909.
La grande tela è divisa in larghe chiazze piatte di colore, con forme semplificate: una sedia chiara, parete bruna e pavimento ocra. Anche in altri ritratti dello stesso soggetto, sua madre è vestita di nero e di profilo: un rimando evidente alla Madre di Whistler (1871), che sicuramente aveva visto visto a Parigi.
Non c’è nessun accessorio nel dipinto: questa madre è provocatoriamente moderna. La posa malinconica – gli occhi bassi, il mento nascosto nel petto, le mani ben strette in grembo – allude alla malattia della donna e, forse, al peso che la Schjerfbeck avvertiva, essendo sola a curarsene. Come per la maggior parte dei suoi ritratti, lo sguardo del soggetto è altrove: non esiste un coinvolgimento diretto tra l’artista e la modella o lo spettatore. Ci si sente sempre come una presenza invadente di fronte a un momento di vita privata.
Lo stesso colore nero ritroviamo in quello stesso 1908 nel ritratto di una ragazza, Alunna II. Diceva la pittrice che aveva scoperto quel colore in Frans Hals, ma è evidente anche l’influenza, oltre che di Whistler, anche delle maschere giapponesi. La ragazzina di profilo, le mani sempre raccolte in grembo, si erge come un’icona del tempo, una sintesi di culture tese a definire il “personaggio uomo”, nella sua assoluta solitudine. Tre anni prima, in uno dei primi riusciti tentativi di inaugurare la sua versione del modernismo, nella Cucitrice del 1905, l’assenza di ogni particolare è il vero soggetto del dipinto.
Nessun dettaglio, a parte le forbici appese alla sedia, puro emblema, ancora una volta è il momento dell’intimità a essere colto in un’istantanea. E il viso, di profilo, è una maschera che racconta di quel vuoto, ma anche della tensione trasmessa dai piedi ben fermi a terra, come sul punto di scattare. Helene usava sempre dei modelli per i suoi ritratti, e certamente la sartina doveva essere un’operaia di quel piccolo centro industriale, Hyvinkää, dove esisteva anche un lanificio.
Ma è negli autoritratti della Schjerfbeck che il mutamento si fa ancor più evidente: rimossa ogni traccia di naturalismo, inizia un lento lavoro di semplificazione e di corrosione dell’immagine che la accompagnerà fino agli ultimissimi anni. Quello dipinto nel 1915 fu commissionato dalla Società degli artisti. Ha inciso in alto il suo nome, volutamente “sbiadito” – un rimando alle iscrizioni di Hans Holbein, uno dei suoi maestri più amati. Con questo rimando, e il secchiello di pennelli in rosso, la Schjerfbeck si dichiara nella sua dimensione professionale, e lo dice la sicurezza della posa: l’inclinazione del mento, le sopracciglia sollevate come per chiedere allo spettatore: mi vedi?
A differenza del suo primo autoritratto, all’età di 22 anni, dov’era una ragazza dal volto fresco, qui il suo viso è chiazzato di gesso bianco, le guance macchiate di rosso. La trasformazione in maschera è in corso.
Arriva un altro anno importante nella sua vita, il 1917. Helene viene “riscoperta” da Gösta Stenman, mercante e mecenate finlandese, che organizza la sua prima mostra personale e diverse esposizioni in Svezia. Ed è grazie all’entusiasmo di Stenman che Helene trova un suo spazio nel mondo dell’arte, e una certa sicurezza economica. Coltiva i suoi interessi, come la moda, si abbona a riviste francesi, ordina vestiti da Parigi. Dipingeva ragazze nello stile dei tempi: caschetti, labbra cremisi a cuoricino e occhi felini. Ma le disegnava in una intensa relazione con il passato: un collo allungato alla maniera di El Greco, un mento appuntito con uno sfondo stilizzato e un moderno gilé patchwork. Come per la maggior parte dei suoi ritratti, questa modella non ha un nome, anche perché la Schjerfbeck era più interessata a catturare uno stato d’animo che una somiglianza fedele.
Chiaramente non era una priorità per lei la fedeltà; la personalità e la resa plastica erano molto più importanti. Il che si evince anche dal fatto che dal 1927 in poi usasse i suoi dipinti precedenti come modelli per opere, disegni e litografie più recenti, spesso più liberi (ad esempio la Cucitrice, del 1905, ridipinta nel 1927). Queste “reincarnazioni” sono in realtà “riprese” di motivi precedenti in un nuovo linguaggio formale.
Aveva settantasette anni quando esplose la seconda guerra mondiale. Nel 1944 si trasferì in Svezia, dove continuò a dipingere fino a poco prima di morire.
La vita sembra letteralmente trascolorare in queste mele in decomposizione – la pelle verde acido di una cola letteralmente sul piano del tavolo.
Gli autoritratti che crea durante questo periodo finale seguono con altrettanta angoscia il decadimento fisico. E lo fanno passo passo. Gli occhi, sempre più cavi, sono presentati in maniere differenti, uno è quasi sempre oscurato, quasi fosse ormai adibito a una differente visione, più interiore. Gli occhi di una maschera.
Una donna che, come Rembrandt, come la contemporanea Käthe Kollwitz‘s (1867-1945), fa i conti con la sua fine imminente; immaginando, forse, come potrebbe apparire dopo il decesso, ridotta ormai a una linea. È la sua ultima maschera, quella mortuaria.
Una considerazione finale sul titolo e sull’organizzazione della mostra. Nonostante le intenzioni dei curatori, e data per scontata l’importanza delle esperienze all’estero (Parigi, la Francia settentrionale, St. Ives, Fiesole), resta una certa cronica difficoltà delle mostre in Finlandia a rappresentare adeguatamente il contesto esterno in cui gli artisti si muovono. Per esempio, data l’esiguità delle opere di chiara ispirazione italiana in mostra, sarebbe stato utile documentare qualcosa del suo lavoro a Firenze dove studiò e copiò opere di Filippino Lippi, del Beato Angelico (per esempio si sa di una sua copia della Tomba vuota), insieme con un’altra artista finlandese, Ellen Thesleff (come abbiamo ricordato tempo fa sulla Rondine ). Chi visiti la chiesa di Ruotsinpyhtää trova un’eco di quel lavoro nel Cristo risorto (1898), una rara opera di grande formato della Schjerfbeck.
A poco serve farne qualche cenno per iscritto: le mostre a questo devono servire, a far vedere, oltre i dipinti esibiti, quel più grande mondo che gli artisti hanno conosciuto, e che a noi visitatori è spesso precluso, se non siamo degli specialisti.
Alla fine della mostra invece sembra che l’unico vero paesaggio trovato da Helene, girando per il mondo, sia quello al chiuso della sua anima. Forse un italiano, anche lui solitario e convinto che lottare (lavorare) stanca, ha lasciato in un suo verso il titolo forse più giusto per questa mostra: “Ho trovato compagni trovando me stesso”.
Helene Schjerfbeck, Maailmalta löysin itseni
Ateneum – Helsinki 15.11.2019 – 26.1.2020