Sul sito della televisione di stato finlandese è comparso un articolo sulla pandemia in Italia e Finlandia vista come questione di genere: la classe dirigente italiana viene paragonata a quella finlandese. A firma di Jenna Vehviläinen, una giornalista e scrittrice freelance che si è occupata più volte di questioni italiane.
Vi aspettereste un parallelo facile tra un paese inguaribilmente maschilista, dove in tutti i ruoli chiave ci sono gli uomini, a fronte di un altro dove esiste un’assoluta parità di genere? È andata proprio così, e secondo me non è la maniera più efficace di raccontare le differenze culturali, col rischio di peccare di superficialità. Ma qui siamo soliti far conoscere i punti di vista della stampa finlandese, e faremo così anche stavolta. Scorrete questa quasi completa traduzione dell’articolo, e fatevene un’idea.
Signor Presidente del Consiglio, cosa succede nelle scuole e negli asili nella seconda fase, quando milioni di genitori torneranno al lavoro? Le famiglie non avranno grossi problemi? La domanda è stata posta da una giornalista italiana al premier Giuseppe Conte in una conferenza stampa un paio di settimane fa.
Il Presidente del Consiglio aveva appena detto a milioni di italiani come la società sarebbe passata alla seconda fase successiva della crisi: cosa aprire e quando. Tuttavia, aveva dimenticato di parlare di scuole e asili.
“Le scuole restano chiuse fino alla fine dell’anno scolastico. Il governo ha valutato la situazione insieme al Comitato di crisi e al gruppo di esperti responsabili della fase di deregolamentazione”, ha risposto Conte.
Ma in Italia i processi decisionali sono stati in mano agli uomini ancor prima della crisi. Un terzo dei ministri italiani sono donne, ma i ministri nei ruoli chiave durante la pandemia – il Presidente del Consiglio, il Ministro degli affari economici, il Ministro degli affari esteri e il Ministro della sanità, sono maschi. I governatori delle regioni del nord Italia più colpite dalla crisi sono maschi.
I sette membri del Comitato tecnico-scientifico istituito il 5 febbraio da Borrelli, sono tutti uomini. Inoltre, in televisione gli epidemiologi che parlano delle curve di infezione sono soprattutto maschi, e lo stesso vale per gli addetti del pronto soccorso e i medici degli ospedali che segnalano l’emergenza ospedaliera.
Ciò è particolarmente strano se si considera che la maggior parte del personale in prima linea nelle strutture mediche sono donne e molte delle decisioni prese condizionano la vita delle donne almeno quanto quelle degli uomini.
In Italia, inutile dirlo, è chiaro quale genitore dovrà prendersi cura dei bambini quando il governo decide di tenere le scuole chiuse fino a settembre. Quando le restrizioni saranno revocate, quasi tre su quattro dei primi a tornare al lavoro saranno uomini.
La mancanza di donne in posizioni chiave nella gestione delle crisi è emersa in maniera lampante agli occhi degli italiani.
Il ministro per la famiglia e le pari opportunità Elena Bonetti ha provveduto a istituire un “comitato rosa” [si chiama Donne per un nuovo Rinascimento] di 13 esperte [in realtà 12] sotto il suo ministero. Il ruolo del comitato è di contribuire alla ricostruzione della società dopo la crisi.
A molti è sembrato un premio di consolazione imbarazzante. La politica italiana Emma Bonino ha criticato il comitato e lo ha definito una “riserva indiana”.
“In Italia la parità di genere esiste solo il sabato e alla domenica nei convegni. Poi dal lunedì chi ha il potere reinserisce il pilota automatico e sceglie gli uomini che conosce, di cui è amico, che gli girano intorno. Altro che parità di genere”, ha tuonato la Bonino sul Corriere della Sera.
L’Italia è lontana anni luce dall’uguaglianza di genere dei finlandesi. Mi auguro che, in futuro, nei processi decisionali e nella gestione della crisi del Paese si possa tenere conto dell’uguaglianza già prima che le decisioni siano prese all’insegna della disuguaglianza.
Fine dell’articolo, e corrispondente in scena su una terrazza romana.
In tante occasioni mi è capitato di criticare la faciloneria con cui molti italiani, soprattutto i reporter del weekend, scrivono della Finlandia, abbracciando luoghi comuni e dandone un’immagine banale e scontata, un paese di suicidi e di depressi. Oppure, ma è la stessa cosa, celebrandone la natura incontaminata e l’umorismo di Paasilinna. Jenna Vehviläinen ci ricambia, ma non la capisco. La giornalista non ha l’aria di una di passaggio, pare che abbia conosciuto bene il mio paese, e dunque la banalità con cui celebra il maschilismo italiano è a mio parere più grave della banalità dei reporter italiani che ignari della Finlandia ci fanno un salto una volta e poi amen. Jenna ha frequentato le terrazze di Roma, ha respirato l’aria della politica italiana, ha mangiato e bevuto nel nostro paese, ne conosce la lingua. E dunque le considerazioni superficiali cui si abbandona sono più gravi, perché le passa poi a un pubblico di lettori che non ha la fortuna delle sue frequentazioni, ed è costretta a fidarsi di una che si presenta come competente.
Mi spiace dirlo, ma l’Italia è (come la Finlandia) un Paese troppo complicato per ridurlo a una battuta e una macchietta. È come quando si dice che è il paese della mafia, o quello in cui i giovani non escono mai di casa (“inutile dire” che la stessa giornalista se ne è occupata). Sono luoghi comuni di facile digeribilità, che però fanno colore e attirano l’attenzione morbosa dei lettori stranieri. Ma è come discutere se la Finlandia sia il paese dei suicidi o degli avvinazzati. Si può parlarne? Certo. Ma ci vogliono dati e conoscenze di prima mano, e scrupolo quando si fanno dei confronti.
Proprio in questi mesi, in Italia, abbiamo visto uomini e donne lavorare fianco a fianco, alcuni cadere sul posto di lavoro, morire per salvare altre vite. Ed erano maschi e femmine. Ho ascoltato quasi tutti i giorni i pareri di gente come la virologa Ilaria Capua, e non mi sono chiesto se era un maschio o una donna. Ma certo non era l’unica donna intervistata.
Che a dirigere le cliniche o le università ci siano prevalentemente uomini in Italia, non è cosa nuova. Ma se si vogliono fare dei confronti, allora facciamoli, e raccontiamo dati alla mano quanti dirigenti nel campo della medicina in Finlandia sono maschi e quanti femmine. Per esempio, basterebbe guardarsi statistiche recenti e scoprire che “Yliopisto-opiskelijoista 53,4 prosenttia on naisia, mutta esimerkiksi professoreista naisia on vain reilu neljännes.” Cioè, a Medicina in Finlandia, nonostante una maggioranza di studenti di sesso femminile, solo un quarto dei professori sono donne. Sullo stesso giornale si dice che su 15 rettori universitari in Finlandia solo 2 sono donne, e poi, esplicitamente nel titolo, si parla di “pratiche discriminatorie alla base della disuguaglianza”.
Quanto alla politica, siamo tutti felici nel vedere tante donne ai vertici del governo finlandese, ma è anche vero che è un fenomeno evidente solo negli ultimi tempi. La memoria del passato, anche recente, ci fornisce un quadro diverso. Ricorda il governo Sipilä? Mica un’era geologica fa, ma sembrava un bel governo all’italiana, non è vero?
E lei può anche essere orgogliosa, “in quanto donna”, di questo progresso del suo paese, e ne ha ottime ragioni. Quello che invece non è corretto, Jenna Vehviläinen, è calcolare gli “anni luce” di distanza tra due paesi europei. Ciò facendo, ponendo delle distanze, giustifica quanti, e non sono pochi, si abbandonano banalmente a simili calcoli siderali nel campo della moda, della gastronomia, dell’arte, del gusto, e si accaniscono a calcolare le differenze. Su questa rivista siamo impegnati da anni a discutere delle differenze per capirci meglio, non per dare giudizi di valore.
Scenda, per cortesia, dalle sue altezze siderali, venga giù dalle terrazze. Di questi tempi, “inutile dirlo”, è meglio stare tutti terra terra.
(Foto del titolo valtioneuvosto.fi. Per tutte le foto siamo pronti a far fronte alle richieste di diritti)