Questo è un documento di un’era passata, forse. Nella mia vita di fotografo paesaggista mi è capitato molte volte di documentare luoghi del mondo in cui la presenza più viva era il silenzio, e in cui la natura regnava padrona. E invece mi è capitata un’esperienza simile a casa mia, a Milano, la città in cui mi sono ritrovato a vivere il lockdown. Ma stavolta non ero io a scoprire una terra silenziosa e desolata. È stata semmai Milano a mettere allo scoperto me, durante la pandemia che ha reso la Lombardia uno dei luoghi più rischiosi del globo.
Eh si, perche c’è lockdown e lockdown: non dico che quello lombardo sia stato allo stesso livello di quello cinese, ma basta vedere le disposizioni prese da altri Paesi europei (Finlandia, Austria, Svezia, Svizzera, la stessa Germania) per comprendere come la quarantena nell’area milanese e lombarda abbia avuto un aspetto totalizzante, con un continuo susseguirsi di regole da seguire, di autocertificazioni da portarsi dietro anche solo per fare il giro del proprio isolato. E i milanesi hanno risposto, per senso civico e, probabilmente, anche per paura: le strade completamente deserte, un silenzio irreale, un’aria ogni giorno meno inquinata come se improvvisamente le strade caotiche di Milano appartenessero al Parco Nazionale di Riisitunturi nel cuore dell’inverno artico in Lapponia.
A Milano ho vissuto due mesi strani, difficili da catalogare, da una parte bloccato in città e impossibilitato a svolgere la mia attività fotografica in natura, dall’altra cercando di capire che cosa ci stava insegnando il coronavirus e che cosa avremmo dovuto cambiare al ritorno della normalità.
Ai primi di marzo sarei dovuto essere nella Lapponia finlandese nel Parco nazionale di Riisitunturi per fotografare la galaverna artica, il “tykky”, ma proprio in quei giorni la Finnair aveva sospeso tutti i collegamenti tra Italia e Finlandia. Cancellato anche un viaggio fotografico a Pasqua in Cornovaglia, mi sono così dovuto riinventare, per tenermi in allenamento, fotografo di città , cercando di mantenere però la mia matrice naturalistica e paesaggistica.
Ai primi di maggio, quando le maglie più severe del lockdown si sono allentate e alcuni parchi hanno riaperto i cancelli, mi sono ritrovato così a camminare sulle strade ancora parzialmente deserte di Milano, con cavalletto e zaino fotografico in spalla, proprio come quando vagabondo in natura nei luoghi più solitari e meno battuti.
La primavera è arrivata nonostante il coronavirus, la città è in fiore e non sembra che in giro ci possa essere una pandemia che continua a uccidere.
Raggiungo a piedi l’area residenziale di Porta Nuova, tra corso Como e la stazione Garibaldi, dove si erge l’imponente grattacielo dell’Unicredit, nuovo simbolo di una Milano ultramoderna e futuristica, che sovrasta la Piazza Gae Aulenti. A brevissima distanza si ergono i due grattacieli del Bosco Verticale, un nuovo modello di riforestazione urbana che ha riqualificato l’intero quartiere confinante dell’Isola.
Tra il Bosco Verticale e Piazza Gae Aulenti si distende un’ampia area, un tempo dismessa dove periodicamente venivano piantate le tende del Circo Togni, oggi trasformata in un nuovissimo e bellissimo parco, un vero e proprio polmone verde nel cuore della città che dà respiro e allegerisce il volume sovrastante dei nuovissimi grattacieli sorti come funghi nell’area.
E proprio in questo parco scopro il soggetto fotografico che mi incanta: papaveri, fiordalisi, margherite, una distesa di fiori di campo, una straordinaria macchia di colore nel centro della nuova Milano. Con il mio cavalletto cerco le inquadrature giuste, provo varie sfuocature in primo piano o sullo sfondo. Il risultato ha il suo fascino, mi commuove e improvvisamente non sento la mancanza di boschi lontani, ghiacciai e monti immacolati, scogliere battute dai venti. Anche dietro l’angolo di casa il fotografo naturalista può trovare un argomento suggestivo da sviluppare.
18 Maggio: ormai la città sta riaprendo. Anche se tutti, ma proprio tutti girano con la mascherina, bisognerà prestare il doppio dell’attenzione. Chissà se veramente avremo imparato qualcosa? Chissà se rallenteremo i ritmi frenetici della vita cittadina, se saremo capaci di essere meno aggressivi verso una natura che si è in qualche modo rivoltato contro? Cissà se abbandoneremo l’egoismo individuale per la solidarietà, se potremo mai fidarci l’uno dell’altro….?
In strada due moto sfrecciano rombando in modo ostentato, li mando a quel paese e comincio a dubitare che qualcosa cambierà davvero.
Intanto il silenzio magico e surreale di qualche settimana fa è ormai un ricordo lontano. Mi sento di nuovo “in una bolla, svuotato di adrenalina ed energie, ripensando al mondo lontano che avevo visto, e che mi tornava costantemente alla mente”: così scrivevo nel settembre dell’anno scorso, appena tornato nella “civiltà”, dopo l’esperienza irreale di solitudine e silenzi profondi delle isole nella Terra di Francesco Giuseppe.