La notizia della morte di Ennio Morricone corre sulle reti di tutto il mondo, e la commozione che l’accompagna è quella delle occasioni in cui a scomparire è un grande uomo. In Finlandia, Paese sempre attento ai fatti della cultura internazionale, la notizia occupa subito i titoli di testa, in televisione e sui social.
Tutti ricordiamo la passione con cui il maestro fu accolto a Helsinki nei due concerti da lui diretti, alla Hartwall Areena, nel 2016 e poi nel novembre del 2019, solo pochi mesi fa. L’affetto del pubblico finlandese va al di là della sua fama di “musicista per il cinema”, l’etichetta che finora ha limitato il senso più vero della sua produzione prodigiosa. Affetto e stima per una grande figura umana, prima di tutto, che ha conquistato il rispetto della critica e del pubblico per la sua maniera severa, quasi dura di concepire l’arte e la vita, che in lui non erano disgiunte. Un privilegio, a volte una condanna, dei grandi.
Chi lo ha frequentato, musicisti e gente del cinema, ricorda la sua severità estrema, riassumibile in una sua celebre risposta alla domanda “Perché c’è una specie di culto della sua musica?” La musica, rispondeva, bisogna farla “bene”. E poi precisava: “La migliore spiegazione si trova nella forma di scrittura ‘popolare’ che adotto. Voglio dire: uso accordi semplici. Non uso mai cose complicate per sembrare pretenzioso. Quindi le mie composizioni sono di facile ascolto ed entrano in risonanza con la musica pop.”
Ma come è possibile che piacciano in tutto il mondo, a tutte le classi sociali? “Credo sia per via della sonorità, che non a caso è proprio ciò che ricercano i gruppi rock: un timbro sonoro identificativo, un sound.” Ricordiamoci come sia stato lui a usare la chitarra elettrica nel primo western di Sergio Leone, Per un pugno di dollari.
Ma in Morricone non c’era solo il sound rock. In lui quelle sonorità si legavano a un retroterra di musica sperimentale che mescolava suoni reali con i suoni musicali. Da giovane aveva frequentato gli Internationale Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt, in cui si riuniva il gotha della musica colta contemporanea d’avanguardia e dove approfondì la conoscenza e la pratica di musiche diverse: seriale, concreta. Lui stesso ammetteva: “Vengo da un retroterra di musica sperimentale che mescolava suoni reali con i suoni musicali”.
Chi non ricorda, solo per citare un brano, Per qualche dollaro in più, del 1965, che si apre con uno straordinario brano di musica concreta: i rumori del fuoco, una sigaretta che si accende, un uomo che fischietta, il vento che soffia, forte, in lontananza, il rumore del grilletto delle pistole, uno sparo. Solo a questo punto parte il brano: uno scacciapensieri.
La qualifica di “compositore di musica western” gli sta stretta come quella di “spaghetti western” per i film di Sergio Leone. Due grandi maestri che hanno creato opere che, sfuggendo a ogni etichetta, hanno spinto il mercato ad appiccicargliene addosso una facile, incongrua, sfruttata se mai dai deboli epigoni di cui non abbiamo poi tanta memoria.
I capolavori di Leone sono particolarmente utili a ricordarci un miracolo che non accade in tutte le opere cinematografiche: la perfetta fusione di immagine e musica, certo, ma al tempo stesso una autonomia della musica stessa che, a momenti, sembra lei a dirigere il film. Ricordiamo tutti il grandioso piano sequenza di C’era una volta il West, l’arrivo di Claudia Cardinale a Sweetwater, quando la camera l’accompagna all’interno della stazione, per poi impennarsi sul tetto e dare una panoramica di quel mondo di carri, cavalli e polvere, in cui poi la donna si immerge e l’attraversa. Tutto quel vano e frenetico movimento, i “tempi” e gli “spazi” del racconto sono tutti dettati dalla musica, che qui non accompagna ma ‘dirige’ la storia.
Le musiche di Morricone vivono dopo il film, hanno una vita propria, ma a volte lo precedono. Ricordo, ero ragazzo, una sera quando un amico mi venne a prendere e, con un’aria complice, mi invitò a salire in macchina. Voleva farmi sentire una primizia, la colonna sonora di Giù la testa, sempre di Leone. Mentre ascoltavo la musica lui tentava di raccontarmi la trama del film, di cui non raccolsi niente. Perché quella sera fu la musica l’unica storia che volli seguire.
Per capire quanto quella mia impressione giovanile fosse vera, quanto speciale fosse il connubio tra cinema e musica, mi è toccato venire in Finlandia e ascoltare Emir Kusturica, al Festival del cinema di Sodankylä del 2003, intervistato da Peter von Bagh.
Parlando della musica nei suoi film, il grande regista serbo diceva: “C’è una cosa che ho imparato da Fellini. Il medium più vicino al film non è la letteratura, il dramma. È la musica. Perché hanno una espressione formale analoga. Potresti vedere un film solo ascoltandone la musica. La musica e il film si strutturano allo stesso modo. Non c’è niente di più ambivalente.” Poi aggiungeva, per spiegare il livello diverso e comune che possiedono cinema e musica come mezzi espressivi: “Il film ti mostra una scena immediatamente, in un secondo, in 24 fotogrammi. La stessa cosa fa il suono. Nella letteratura ti servono molte parole, a volte pagine intere, per rendere quel fotogramma…”
Morricone, che era generoso anche con la musica degli altri, amava in particolare le canzoni di Bruce Springsteen, perché, diceva, “danno forza al senso di pietas, al dolore e all’umanità dei personaggi che racconta”. Può darsi che anche dentro la sua musica fosse la pietas la qualità più alta della sua ricerca, artistica e umana. Come succede ai grandi artisti e ai grandi musicisti.
Mentre, scorrendo le pagine dei giornali italiani, vedo l’affanno con cui i politici di tutti gli schieramenti si precipitano a dire cose memorabili, e soprattutto “io l’ho conosciuto”, mi piace vedere da lontano che a piangerlo sia il mondo intero.
Sui media finlandesi:
(Foto del titolo da soundi.fi. Per le immagini utilizzate siamo pronti a far fronte, se richiesti, ai diritti relativi)