Kari Hotakainen
Buster Keaton. Elämä ja teot, WSOY 1991
Buster Keaton, primo testo di narrativa pubblicato da Kari Hotakainen, non è propriamente un romanzo, ha la struttura di un collage, ed è anche una parodia della biografia di un artista famoso. Mette insieme frammenti in cui lo stesso Keaton si racconta, si commenta, e di lui parlano il padre e la madre insieme con un improbabile portiere del condominio.
È una fantasia, in cui si mescolano frammenti di verità e pure invenzioni. Come quando viene introdotto Clint Eastwood a rivelare di quella volta in cui aveva convocato Keaton per sostituire un indeciso Arnold Schwarzenegger in uno dei suoi film…
Kari Hotakainen (nato a Pori nel 1957) non si limita alle testimonianze dirette: ci sono lettere di fan, estratti dai taccuini di Keaton, osservazioni sul cinema. E veri e propri racconti ispirati a Keaton, a volte per sineddoche. Come le pagine che qui vi presentiamo, ispirate dal vestito nero che Keaton in qualche modo identifica. Un racconto paradossale, un elogio del vuoto, della “grazia della produzione in serie”. Qui, e siamo solo all’inizio di una carriera, vediamo operanti le due principali strategie dello scrittore: l’amore del paradosso, e la potenza della sintesi aforistica.
Per introdurre Kari Hotakainen abbiamo rispolverato una storica intervista fattagli da Viola Parente-Čapková parecchi anni fa, nel 2008. Anche lo scrittore, come il suo Keaton, racconta della sua vita e delle sue opere, ma anche lui con continue fughe e variazioni sul tema, un codice che lo caratterizza fin dalle origini.
Intervista a Kari Hotakainen
Qual è lo status di uno scrittore in Finlandia?
Buono se si intende il prestigio sociale, ma per quel che riguarda le vendite di libri, sono pochi coloro che riescono a vivere solo di questa professione. Lo status cambia a seconda di chi risponde alla domanda. Essere uno scrittore è una professione molto rischiosa e difficile, perché una buona opera non garantisce delle buone vendite, e credo che ciò valga un po’ ovunque. Ma in Finlandia almeno il sistema di contributi e di sostegno funziona bene.
Se dovessi nominare gli autori le cui opere sono state e sono importanti per te, sarebbero più i finlandesi o gli stranieri?
Non c’ho mai pensato, ma probabilmente sarebbero alla pari. Tra i finlandesi, i classici Aleksis Kivi, il romanziere del dopoguerra Veijo Meri e la poetessa Sirkka Turkka hanno significato molto per me, tra gli stranieri Nikolaj Gogol, Alfred Döblin e Jaroslav Hašek. Ne ho elencati solo alcuni, perché le liste lunghe sono noiose sia da compilare sia da leggere.
Hai iniziato la tua carriera letteraria come redattore. Che testi scrivevi allora e come questa fase ha segnato le tue opere?
Sono stato un pessimo redattore perché mi interessava solo scrivere, non mi interessava fare intervistare o ricerche. Il lavoro editoriale ha influenzato la mia scrittura in quanto ho iniziato ad amare la scrittura come tale. E soprattutto perché considero importante ogni tipo di scrittura. E probabilmente ho anche imparato ad avvicinarmi alla scrittura come a qualsiasi altro lavoro, anche se c’è sempre qualcosa di speciale e a volte sacro nella scrittura.
Il tuo primo libro è stato una raccolta di poesie. Da allora hai provato molti generi. Qual è quello che senti più vicino? E hai intenzione di tornare alla poesia?
La poesia suggella tutto ciò che si fa. Quando qualcuno fa il suo debutto come poeta, guarderà sempre il mondo con lo sguardo di poeta. Spero che si veda nella mia prosa. La mia opera è come me: inquieta e un po’ impaziente. Non riesco a immaginare di scrivere solo lunghi romanzi fino alla mia morte. Probabilmente troverò difficile tornare alla poesia pura, ma cerco di inserire passaggi poetici in tutti i miei testi.
La musica occupa un posto importante nei tuoi testi, cosa evidente sia per ritmo sia per temi, come, ad esempio, nella raccolta di racconti Finnhits. Cosa significa la musica per te come scrittore?
La musica è la forma più alta di espressione, perché non si riesce a resistere alla melodia. Ascolto molta musica, ma mai mentre scrivo. Nella musica cerco l’esperienza, l’oblio, la struttura e i ritornelli. La struttura la si impara dalla musica classica, tutto il resto lo si trova nella musica pop. La differenza tra musica e letteratura è che è difficile rimanere immuni alla prima, come sanno bene gli abili compositori di musica pop. Penetrano nella coscienza umana e non c’è nulla che si possa fare a riguardo. Da un libro ci si può proteggere, perché ci vuole un certo sforzo per leggerlo. Per i musicisti è “facile”: sanno che poltriamo sul divano ad occhi chiusi e non c’è niente che ci protegge in quel momento.
La forte influenza del mezzo cinematografico è evidente nei tuoi libri, sia in termini di poetica sia tematicamente; ne è la prova, per esempio, Buster Keaton. Vita e opere (1991). Allo stesso tempo, possiamo ricordare che, sia in Finlandia sia all’estero, i tuoi testi sono stati paragonati ai film di Aki Kaurismäki. Cosa ne pensi di questo confronto?
Lo capisco solo in parte. Forse è possibile trovare alcuni punti in comune a livello di dialogo e nel fatto che entrambi parliamo di solitudine. D’altra parte, il tema della solitudine viene affrontato da migliaia di scrittori in tutto il mondo. La Finlandia è un Paese così piccolo che quando uno di noi ha successo nel mondo, fa le veci di uno spazzaneve: prepara la strada agli altri. In questo senso, è normale che mi paragonino a Kaurismäki. La seconda opzione sarebbe Arto Paasilinna, perché è un altro finlandese diventato famoso nel mondo. Se non contiamo i piloti di Formula 1.
Hai scritto diversi libri per bambini e ragazzi (anche se bisogna sottolineare come essi non siano esempi tipici di questo genere) e, a differenza di molti altri autori, i primi li hai pubblicati quando non ancora avevi figli. Cosa ti ha spinto a rivolgerti al mondo dei bambini, e il tuo modo di vederli è cambiato dopo la nascita dei tuoi figli?
Nel mio caso, scrivere libri per bambini non è davvero legato ai bambini fisici, ma a una sorta di mondo della mente fanciullesca, alla specificità e a come immaginiamo che un bambino si avvicina al mondo. Scrivere i primi libri per bambini è stata un’esperienza liberatoria, mi sentivo come se d’un tratto intorno a me ci fosse più aria, più ossigeno. Ha a che fare con la rottura delle convenzioni, l’assurdità e la gioia. Quando questi tre aspetti mancano nella scrittura, il testo non prenderà mai vita. E sapevo fin dall’inizio che avrei scritto libri di ogni tipo. Ora che i miei figli possono leggere i miei libri, la situazione è cambiata, naturalmente. Se conto anche mia moglie, convivo con tre critici. Tutti belli ma spietati.
Di tutte le tue opere, il romanzo che ha attirato maggior attenzione è Via della trincea (2002; it 2009, trad.it. di Nicola Rainò), che è anche il tuo lavoro di maggior successo, tradotto in molte lingue. Come spieghi questo successo?
Fortunatamente, non ho mai avuto idea della causa del successo, e fortunatamente continuo a non averla. Posso solo tirare a indovinare. E non voglio conoscerla perché voglio andare avanti. Il successo del romanzo è stata una sorpresa per tutti. È possibile che comprare una casa o almeno sognare di avere una casa propria sia in qualche modo traumatico un fenomeno tipicamente finlandese. E poi la paura del divorzio è così radicata in tutti noi. E naturalmente la famiglia. Forse in quel romanzo si sono fusi questi tratti comuni. Mentre lo scrivevo, ero sicuro solo di una cosa: il libro parla della solitudine.
Il romanzo La chiesa di Sant’Isacco (2004) tratta il tema della religione e della fede. È un tema universale che ha varie caratteristiche specifiche in diversi luoghi, dato lo sviluppo storico. Quali sono, secondo te, le caratteristiche più importanti del contesto finlandese?
I finlandesi sono per lo più membri della Chiesa luterana, ma non vanno in chiesa e non sono altrimenti cristiani praticanti, ma sono cristiani per abitudine. In Finlandia, tutto è privato, è consuetudine pensare alle cose da soli, e una di queste è la fede. Nella chiesa di Sant’Isacco ho voluto mostrare due persone che prendono la fede seriamente e ne vogliono parlare: uno la rifiuta e l’altro ne ha fatto un punto fermo della sua vita.
Oggigiorno per molti la fede sembra essere diventata la cosa più intima – almeno in molti Paesi europei. La gente è disposta a parlare apertamente di cose che fino a poco tempo fa erano considerate tabù, ma pochi sono disposti a rivelare altrettanto apertamente il loro rapporto con la fede. Perché pensi che sia così?
Perché quando si scoprono le carte a questo proposito, si diventa vulnerabili. Quando si ammette di credere in qualcosa che non è visibile e la cui esistenza non può essere provata, si corre il rischio di sembrare ridicoli agli occhi di molta gente. Questo è, dopo tutto, il destino delle persone oneste in generale. Quando dico che credo nel denaro, tutti sanno di cosa parlo. Quando dico che credo in Dio, l’atteggiamento della gente nei miei confronti cambia in modo molto significativo. Qualcuno può trarre conclusioni incredibili dalla mia fede.
I lettori sarebbero certamente interessati al tuo rapporto personale con la fede.
Sono uno scettico, dubito. È l’opzione più noiosa possibile. L’unica consolazione dello scettico è che è una buona posizione per gli scrittori. Ma dubitare è un lavoro duro, richiede molta energia quando si deve mettere in discussione quasi tutto. So quasi certamente che se prendessi una posizione certa, non scriverei affatto di fede.
Un altro tema centrale della Chiesa di Sant’Isacco è la questione delicata del rapporto dei finlandesi con la Russia. Puoi caratterizzare il processo che ti ha portato alla scelta di questo tema?
Mi sono sempre interessato alla Russia, anche quando era più grande e si chiamava Unione Sovietica. Non c’è niente che si possa fare per quanto riguarda la geografia e la storia. Della Russia mi ha interessato soprattutto la letteratura classica e poi le relazioni tra l’Unione Sovietica e la Finlandia. Nel contesto degli eventi della seconda guerra mondiale, si è parlato a lungo in Unione Sovietica di uno “spiacevole conflitto di confine con un piccolo paese”, mentre in Finlandia la portata degli eventi in questione era molto più grande e più tragica. L’abbiamo portata con noi per molto tempo e lo porteremo con noi ancora a lungo, perché di fronte a un Paese così vasto la vita di tutti sembra fatidica. Quindi il processo è lungo quanto la mia vita, perché fin dalla mia giovinezza, se non dalla mia infanzia, mi sono sempre imbattuto in questo paese e in questa guerra in tutte le mie conversazioni con gli anziani. E d’altra parte, c’è la straordinaria cultura, i grandi scrittori e la musica. In un certo senso, ho vissuto in Russia e me ne sono interessato per tutto il tempo che sono stato nel mondo.
I tuoi libri sono stati spesso letti come un’analisi dei problemi dell’identità dell’uomo di oggi. Al centro di questi problemi c’è il rapporto tra padre e figlio in varie forme: sia come rapporto specifico tra padre e figlio biologico, sia come rapporto tra generazioni . Qual è secondo te il problema più grande nella comunicazione tra padre e figlio, come la descrivi nelle tue opere?
Per qualche motivo mi è difficile rispondere a questa domanda, perché, più in generale, preferisco non rispondere. Credo che il problema per i finlandesi sia stato da sempre la taciturnità. Ma dopo aver ascoltato per un po’ i francesi e gli italiani, il silenzio finlandese diventa un privilegio.
(Intervista di Viola Parente-Čapková a Kari Hotakainen – pubblicata sulla rivista a2, 2/2008)
Kari Hotakainen: Buster Keaton
WSOY 1991, pp. 101
Il vestito nero
Le auto grandi vanno guidate lentamente, lasciandole scivolare adagio, altrimenti non sembrano grandi. Se si va veloci, l’auto ti si restringe davanti agli occhi diventando un’utilitaria giapponese. Anche chi indossa un vestito nero deve ricordare alcune cose fondamentali. Non attirare l’attenzione. Devi portarlo con naturalezza, come la lingua in bocca. Lascia che si abitui piano piano alla tua carcassa, smettila di sbirciarti nella vetrina dei negozi. Non dare nell’occhio, ne trarrai vantaggio.
All’inizio della mia carriera pensavo che sfoggiando un bel vestito avrei potuto farmi strada, prima di constatare che questa mia convinzione era condivisa da circa due milioni di persone. Quando chi si sente originale si imbatte nella sua copia, è come ritrovarsi su una catena di montaggio. Compresi così la grazia della produzione in serie: avrei trovato pace soltanto grazie ad un vestito nero privo di personalità. Lo indossai, scelsi una camicia bianca in un negozietto, mi assicurai che fosse già fuori moda e mi guardai allo specchio. Vidi un uomo che poteva essere tanto un assicuratore quanto un sicario prezzolato. Lo scostamento mi soddisfece.
È nelle situazioni precarie che ci si rende conto del potere di un vestito nero. Incontrai per strada Eero Silvasti, un redattore. Per quanto tutto considerato si esprimesse come una persona erudita, non mi sembrò convincente. Non posso mica fidarmi di un uomo che indossa una cravatta a maglia, un golfino senza maniche e capisce tutto. Il cardigan posso anche sopportarlo, sempre che non sia di colore chiaro e abbinato a pantaloni estivi obbligatoriamente casual, ma la combinazione cravatta a maglia e golfino senza maniche distrugge ogni credibilità. Soprattutto quando chi lo indossa dispensa un’aria vagamente pelosa, con memorie di lanugine ombelicale.
Il vestito nero è un indumento per tutte le occasioni. Se non sai la differenza tra ciò che è festivo e ciò che è feriale, sei vestito per ogni evenienza. Puoi uscire da un negozio di pezzi di ricambio e recarti direttamente ad un funerale e nemmeno un paio di occhi si staccherà dal defunto. Al matrimonio la madre della sposa sarà felice di scambiare due chiacchiere con te. Per strada incontri una donna che poi diventerà tua moglie. Non presterà la minima attenzione al tuo vestito, e quando successivamente ricorderete il vostro primo incontro, chiederà con aria sognante: e tu cosa indossavi quel giorno? Lo ricorderai con estrema precisione: identico a quello che indosso adesso, cara, proprio identico.
Un reato lo si può commettere in vari modi. Qualcuno si precipita in banca con una calza sudaticcia sulla testa, avvertendo tutti i presenti della sua brutalità. Ben poco credibile, con quella roba in testa. Un altro indossa una giacchetta estiva chiara, pantaloni di velluto lisi e scarpe da ginnastica. Si vede subito che versa in gravi difficoltà finanziarie. Per fermare uno così, basta l’ombrello di un pensionato di cattivo umore. Le ristrettezze economiche non si devono mettere in mostra. E nemmeno la disperazione. Non bisogna rivelare i disagi personali. In banca si va con il vestito nero, e senza quegli stupidi occhiali da sole, senza i quali Alain Delon sembra un consulente finanziario del Movimento Pensione Sicura. Niente impermeabile, niente collo rialzato. Si va direttamente alla cassa, e si dice, senza fronzoli, che questa volta il prelievo sarà più consistente. La signorina alla cassa noterà il vestito nero, la camicia bianca e la faccia inespressiva. La polizia, in seguito, chiederà alla signorina se ricorda dei segni particolari, ma lei non ricorderà niente. Ha visto solo il vestito nero. E quel tipo vestito di nero lo stanno ancora cercando.
Credibilità, stile. Nient’altro, non c’è altro di cui tenere conto. Non puoi andartene in giro con pantaloni di pelle. Un cinquantacinquenne in pantaloni di pelle è à la page come una mosca su uno stronzo. Chi porta pantaloni di pelle ha la testa nelle braghe, imbarazzante, no? Il trentaquattrenne che prova cravatte di maglina di vari colori, è perso. Non sa portare i suoi anni, lo sguardo altalenante tra la giovinezza e la mezza età. Bisogna venirgli in aiuto, e dirgli: un vestito nero, bello mio, e l’angoscia sparirà. Non vale la pena perdere tempo su questioni di età, è solo questione di colore e gusto, questioni di lana caprina.
Il vestito nero non è una questione di gusto. È come il rapporto con mia moglie. Sono affari miei e di nessun altro.
(pp. 83-5)
(Per le immagini qui riprodotte, siamo pronti a far fronte alle richieste dei diritti)