Giuseppe Balistreri, virologo di origine palermitana, 42 anni, dal 2017 professore aggiunto di Virologia molecolare all’Università di Helsinki. Lo abbiamo intervistato perché ci parli di una ricerca in corso che ha portato a risultati molto interessanti. Lo studio da lui diretto ha visto la collaborazione di studiosi di vari Paesi, tra cui il neuroscienziato Mika Simons del Politecnico di Monaco (Germania).
Il suo gruppo di ricerca lavora sul SARS-CoV-2, il virus del COVID-19. Ci può dire quali sono ad oggi i risultati della ricerca? Di cosa vi siete occupati qui a Helsinki?
Il mio gruppo di ricerca studia come fanno i virus umani ad infettare le nostre cellule. In collaborazione con colleghi di Estonia, Germania, Inghilterra e Australia, le nostre richerche hanno portato alla scoperta che questo nuovo coronavirus che, a differenza del precedente SARS, che nel 2002 causò una epidemia molto meno invasiva, possiede un ‘pezzo’ in più. E cioè una piccola struttura presente sulla superfice del virus che conferisce la capacità di legarsi al recettore neuropilina-1.
Cosa rende questo virus così contagioso? Quali caratteristiche lo rendono così devastante rispetto al suo predecessore, il SARS-CoV?
Insieme a tanti altri colleghi, riteniamo che sia proprio questo pezzo in più a rendere il SARS-CoV-2 cosi infettivo. Mi spiego, mentre altri coronavirus che non si diffondono cosi velocemente utilizzano un recettore per infettare le cellule, il nuovo SARS-CoV-2, grazie a questo ‘uncino’ che sporge dalla superfice virale, ha la capacità di legarsi non a uno ma a due recettori cellulari: ACE2 (il recettore che anche SARS-CoV utilizza) e la neuropilina-1. Perché utilizzare due recettori rende un virus più infettivo? Questo è un punto importante della nostra scoperta. Mentre il primo SARS era in grado di infettare per lo più la parte bassa del nostro sistema respiratorio, i polmoni per intenderci, il nuovo virus, grazie alla presenza abbondante del secondo recettore (la neuropilina-1) nella parte alta delle vie respiratorie, si moltiplica rapidamente anche nella superfice interna del naso e della gola. Pensate che a differenza del predecessore, il nuovo coronavirus viene rilasciato nell’ambiente anche quando parliamo e respiriamo. Quindi non c’è bisogno di avere sintomi per infettare un’altra persona. E questo proprio perché il parassita è in grado infettare l’apparato respiratorio alto, in cui il primo recettore ACE2 non è molto abbondante mentre la neuropilina-1 si.
C’è stato un momento, nel corso della ricerca, in cui è successo qualcosa di nuovo, una scoperta che vi ha aperto nuove prospettive?
Quando la sequenza genomica del virus fu rivelata dai colleghi cinesi, subito ci siamo accorti che qualcosa non tornava. Questo coronavirus non era come gli altri. Il famoso pezzo in più di cui parlavo prima lo distingue dai virus molto meno pericolosi che ogni anno causano circa il 20% dei raffreddori stagionali. Non solo, ma questa piccola sequenza in più non è solo presente nel SARS-CoV-2, ma anche in molti altri virus molto pericolosi come Ebola e HIV. In realtà, gia prima del COVID-19, noi sapevamo che se un virus possiede questo piccolo uncino riesce a legarsi alla neuropilina e diventa più patogenico. Quando, alla fine di gennaio 2020, ci siamo accorti che il nuovo coronavirus possiede la stessa caratteristica di questi virus pericolosissimi, abbiamo subito pensato alla possibilità di un secondo recettore.
Che significa aver individuato la “seconda chiave del virus”? Come funziona il chiavistello, e cosa potrebbe renderlo meno attaccabile da questo virus armato di passepartout?
Possiamo immaginare la superfice esterna di una cellula un po’ come le mura di una casa con più porte e finestre. Per entrare, ogni virus deve riuscire ad aprire almeno una porta. E per farlo deve possedere la chiave, o le chiavi, giuste. La serratura della porta è il recettore cellulare. Ecco, i virus, con le loro ‘spine’ (spikes) si legano ai recettori sulla superficie esteriore di una cellula che li ingurgita letteralmente. La porta si apre. Quindi la spike del virus è la chiave per accedere alle risorse cellulari. Una volta all’interno, i virus riescono a perforare lo ‘stomaco’ cellulare, e iniettando il loro genoma danno cosi inizio all’infezione.
Il SARS-COV-2 non ha una ma due chiavi, e con queste apre due lucchetti, ACE2 e Neuropilina-1. Per concludere con le analogie, ahimè poco fortunate, la nostra ricerca ha portato ad una scoperta ancora più sconvolgente. Una volta entrato nelle cellule umane, il nuovo coronavirus obbliga la cellula infettata, e le cellule vicine, a fabbricare più neuropilina. Un po’ come se una volta entratovi in casa, un ladro passasse le prime ore a costruire più porte e finestre per fare entrare ancora più ladri. Per bloccare l’invasione si dovrebbe o bloccare la serratura della porta, cioè inibire la neuropilina, o bloccare la chiave del virus, con delle molecole che in maniera molto specifica fanno da tappo alle spikes virali.
Cosa siete stati in grado di fare in laboratorio, che potrebbe portare a conseguenze rilevanti nel campo della terapia? Pensate a una cura, o a cosa, come estensione della vostra ricerca?
Due i risultati importanti riguardo possibili cure. Aver individuato una delle parti più pericolose di questo virus, ci permette di formulare la seguente ipotesi: un virus senza questa chiave in più dovrebbe essere meno pericoloso e quindi potrebbe essere usato come la base per formulare un vaccino. In questo caso si parla di vaccini basati su virus, appunto, attenuati. Per dimostrare che un virus senza la seconda chiave è meno infettivo rispetto alla controparte a doppia chiave, li abbiamo messi a confronto infettando cellule umane simultaneamente. Dopo solo tre giorni il virus attenuato era scomparso dalle cellule in coltura mentre il virus intatto si è moltiplicato rapidamente. Quindi se il coronavirus non riesce a legarsi alla neuropilina diventa meno infettivo. Proprio questo virus mutante, azzoppato per intenderci, è stato utilizzato da colleghi per vaccinare dei modelli animali. Ha funzionato. Ecco quindi come, dalla ricerca di base, che ci ha consentito di individuare ciò che rende un parassita pericoloso, siamo poi in grado di dare istruzioni precise su come modificare il virus per poter eventualmente creare un vaccino. In alternativa al vaccino, noi stiamo sviluppando delle molecole nuove, che non esistono in natura, che sono in grado di legarsi a varie parti del SARS-CoV-2 e di bloccarne l’interazione con le cellule. In laboratorio i risultati ottenuti fin ora sono molto positivi. Speriamo di confermarne l’efficacia presto in una fase clinica.
Qualche dato sulla sua storia personale. Lei dove si è formato? Come è arrivato qui in Finlandia?
Laurea a Palermo, dottorato in Finlandia, dove vivono le mie tre meravigliose figlie. Poi tre anni e mezzo al’ETH di Zurigo con il professor Ari Helenius. Adesso le mie ricerche si svolgono tra l’Università di Helsinki, in Finlandia, e l’Università del Queensland in Australia, dove lavoro sugli aspetti neurologici di diversi virus umani.
Che tipo di strutture di ricerca ha trovato qui, e che ambiente umano e professionale? Cosa apprezza in particolare di questo Paese, e magari cosa le resta difficile?
Quando arrivai in Finlandia la quantità di strutture, tecnologie, e soprattutto l’efficienza della macchina burocratica, mi fecero pensare ad un teletrasporto dalle caverne all’astronave di Star Trek. Di questo paese apprezzo l’onestà delle istituzioni, la franchezza delle persone e l’ospitalità sincera. Amo molto anche la loro discrezione e la capacità di alternare lavoro serio con divertimento… serio! Cosa mi piace meno… magari meno buio d’inverno, e più caldo l’estate.
Progetti nell’immediato futuro?
Infiniti. Spero di riuscire ad ottenere abbastanza fondi per poter realizzare le mie idee. Il che, al giorno d’oggi, è molto più difficile che trovare la cura per una malattia.
(Foto del titolo da balarm.it. Per le immagini riprodotte siamo pronti a far fronte alle richieste dei diritti)